Le norme comunitarie vanno discusse in Parlamento, non delegate al governo
Non nascondete l'Europa ai cittadini italiani
Matura la partecipazione diretta delle regioni alla applicazione delle direttive
Il Senato ha dedicato la seduta di giovedì 23 gennaio alla discussione e all'approvazione della Legge Comunitaria 2002. A nome del gruppo della Margherita è intervenuto il senatore Tino Bedin. Lo stesso senatore Bedin ha svolto poi la dichiarazione di voto finale a nome del gruppo. Pubblichiamo la dichiarazione di voto di Tino Bedin.
di Tino Bedin
segretario della Giunta per gli affari europei
Le modifiche introdotte dalla Camera dei deputati non contrastano con l'impianto generale della normativa comunitaria, anzi arricchiscono il recepimento di disposizioni europee. Potremmo concludere qui la dichiarazione di voto, se considerassimo la Legge Comunitaria una presa d'atto. Potremmo annunciare che confermiamo il voto favorevole dato in prima lettura oltre sei mesi fa. Noi però non consideriamo la Legge Comunitaria come la ratifica di una serie di atti dovuti. Noi consideriamo l'Europa, noi viviamo l'Europa come una delle dimensioni in cui si esercita la sovranità popolare. Per questo il nostro voto favorevole, che preannuncio, è integrato da alcune indicazioni politiche sulle quali misureremo la prossima Legge Comunitaria. Le risposte del governo e della sua maggioranza a queste indicazioni, e non più solo il formale riferimento ad impegni europei, entreranno in quella occasione fra i criteri di scelta del nostro voto in Senato. La prima indicazione politica riguarda la struttura della Legge Comunitaria. Per la normativa comunitaria noi preferiamo senza incertezze il recepimento diretto rispetto alla delega. Questo strumento offre maggiore celerità e maggiori certezze proprio sulla finalità della Legge Comunitaria, che è di farci rispettare tempi e contenuti delle norme che l'Italia ha contribuito a codificare a Bruxelles. Il recepimento diretto rende poi più trasparente l'Europa ai cittadini italiani e consente al Parlamento di svolgere anche nella dimensione europea il suo compito di espressione della sovranità popolare. Ormai gran parte delle norme comunitarie toccano da vicino i cittadini (ricordo solo la concretezza delle disposizioni in materia alimentare), per cui deve risultare chiaro chi e come ha deciso. Per quanto riguarda il Senato, il Parlamento, ribadisco l'esigenza di salvaguardare la Legge Comunitaria dalla tentazione ricorrente da parte del governo di farsi attribuire nuove deleghe legislative, talora senza neppure una sufficiente specificazione dei criteri secondo i quali vanno regolamentate le singole materie. Questa legge comunitaria contiene altre cinque deleghe. Cinque deleghe sembrano poche. Non è così. Sono troppe perché si aggiungono ad una serie di altre; sono troppe rispetto all'insieme della legge; sono troppe soprattutto perché, e la denuncia è avvenuta lo scorso anno proprio dal ministro per le Politiche comunitarie, queste deleghe non vengono neanche esercitate, andando così ad accrescere il ritardo italiano nella trasposizione della normativa comunitaria e accrescendo la confusione normativa interna. Per questa ragione specifica io sollecito la maggioranza a collaborare con l'opposizione per evitare che il governo si abitui all'uso e all'abuso della delega nella Legge Comunitaria: all'uso esagerando nel numero, all'abuso non esercitandolo nei termini e nei tempi dovuti.
La preferenza per il meccanismo dell'attuazione diretta e regolamentare delle direttive supera comunque il tradizionale confronto tra governo e parlamento. Come ho già detto, essa consente ai cittadini di verificare direttamente l'esercizio della loro sovranità. Inoltre questa preferenza consentirà di valorizzare al meglio le regioni nell'attuazione delle direttive comunitarie, anche alla luce delle modifiche introdotte all'articolo 117 della Costituzione. È questa la seconda indicazione politica con cui accompagniamo il nostro voto. Se la maggioranza condividerà e sosterrà questa nostra indicazione, il Parlamento sperimenterà un altro strumento di avvicinamento della normativa europea ai cittadini, attraverso la concretezza delle regioni; di questo avvicinamento c'è ormai urgente bisogno vista la dimensione costituzionale da una parte e continentale dall'altra che l'Unione ormai assume. In Europa del resto si è assistito ad un costante processo di valorizzazione della partecipazione delle regioni, quali soggetti decisivi al fine di realizzare un'integrazione giusta ed equilibrata. Uno specifico impulso è stato dato dai trattati di Maastricht e di Amsterdam, che hanno determinato un profondo mutamento dei rapporti tra ordinamento comunitario e regionalismo. In Italia la riforma del titolo V della Costituzione dà una risposta concreta ed immediata all'evoluzione dei questo processo europeo. Il nuovo articolo 117 costituzionalizza il coinvolgimento delle regioni nelle fasi di definizione delle politiche comunitarie, dando alle regioni la titolarità di incidere su materie ad esse attribuite. Ormai molte delle materie di competenza regionale sono coperte anche dalla normativa comunitaria, spesso minuziosa, dettagliata, per la cui attuazione lo Stato interviene ora con regolamenti o con atti amministrativi alla cui osservanza le regioni risultano poi vincolate. In considerazione di ciò, il ruolo più incisivo delle regioni nella fase di formazione e soprattutto in quella di recepimento della normativa comunitaria può aiutare l'Italia a diventare sempre più solerte nell rispetto dei tempi di attuazione delle disposizioni europee. Dico questo mentre prendiamo atto, con soddisfazione, che, a partire dalla scorsa legislatura, siamo riusciti a recuperare il grande svantaggio che, nel corso degli anni Novanta, ci aveva visti nei panni di cenerentola dell'Unione europea in termini di adeguamento della nostra legislazione al diritto comunitario. Bastano queste osservazioni per confermare la convinzione che la scelta dello strumento per il recepimento va oltre il classico rapporto di poteri tra governo e parlamento. Se la modifica costituzionale ha sancito la partecipazione delle regioni e delle province autonome all'attuazione della normativa comunitaria, bisogna però osservare che risulta fino ad ora limitata, insoddisfacente, la partecipazione delle regioni alla fase ascendente del processo decisionale europeo. Si può cominciare a superare questi limiti intanto con strumenti già esistenti: applicando puntualmente e valorizzando le norme della Legge Comunitaria, in particolare quelle introdotte con la Comunitaria 2000, che prevedono la trasmissione alle regioni dei progetti di atti comunitari in modo che sugli stessi il Governo possa acquisire il loro parere. Va anche valorizzato il ruolo della Conferenza Stato-regioni, in particolare la sua sessione speciale che semestralmente è dedicata alla trattazione delle politiche comunitarie di interesse regionale e provinciale; si può eventualmente prevedere un ampliamento delle sessioni annuali.
Ma la rapidità e soprattutto la qualità del recepimento dipendono molto di più dalla capacità del sistema repubblicano (parlamento, governo, regioni) di contribuire alla fase ascendente, durante la quale si forma la volontà dell'Unione. È la terza indicazione politica che offriamo all'attenzione della maggioranza e del governo. Sugli strumenti e sui metodi nazionali per raggiungere questo obiettivo mi sono soffermato in ogni esame parlamentare della Legge Comunitaria in questa e nella scorsa legislatura. Rimando a quelle indicazioni non solo per sottolineare il ritardo che si sta accumulando in questo delicato aspetto della vita europea in Italia, ma anche perché in questa occasione è più urgente richiamare l'attenzione sugli strumenti e sui metodi che su questa materia l'Europa sta perfezionando. Mi riferisco ai lavori della Convenzione per il futuro Trattato dell'Unione. Certamente il Senato deve prestare attenzione all'intero lavoro della Convenzione, perché riguarda il futuro dell'Unione e quindi tutti i cittadini. A mio parere, però, dobbiamo prestare una specifica attenzione alle soluzioni che si vanno prefigurando per garantire la partecipazione dei parlamenti nazionali al processo normativo europeo. Si tratta di una questione decisiva, domani più di ieri e di oggi. È stato stabilito all'ultimo Consiglio europeo di Copenaghen che tra due anni l'Europa passerà da 15 a 25 membri. In quella dimensione sarà in gioco una più complessiva ridefinizione dei singoli interessi nazionali. Noi siamo stati, siamo favorevoli all'allargamento, ma non c'è alcun dubbio che l'ingresso di 10 nuovi paesi introduca delle nuove opportunità nell'architettura dell'Unione, che richiedono al Parlamento sia di essere più attento, più vigile nella definizione preventiva degli interessi nazionali all'interno del quadro comunitario, sia di poter confrontare la propria posizione con gli altri parlamenti nazionali. Non tutte le soluzioni finora emerse sono intercambiabili. Ad esempio esprimo l'opposizione al Congresso dei popoli europei, che il presidente della Convenzione Valéry Giscard d'Estaing continua a sostenere, malgrado l'entusiasmo moderato che esso suscita. Lo ha inserito nella sua "struttura" del Trattato costituzionale (articolo 19). Nel suo discorso del 3 dicembre davanti all'Assemblea nazionale francese, ha spiegato così la sua posizione: "Si può accettare che, nella futura Europa democratica, i Parlamenti nazionali e il Parlamento europeo portino avanti dibattiti paralleli che non si incontrano mai? Per eliminare questa anomalia, si potrebbe istituire un consesso - chiamiamolo 'congresso dei popoli' o Convenzione - in cui i parlamentari europei ed una rappresentanza proporzionale dei parlamenti nazionali si incontrerebbero, ad intervalli regolari e pubblicamente, per ascoltare i resoconti dei presidenti del Consiglio europeo e della Commissione sullo stato dell'Unione e per discutere degli orientamenti principali dell'Unione, compresa la ripartizione delle competenze tra l'Unione e gli Stati membri, o degli eventuali ampliamenti futuri". Se c'è un punto ormai chiaro è che i parlamenti nazionali sono contenti di ascoltare e di discutere, ma non si accontentano più di avere come compito solo quello di ascoltare e di discutere. Vogliono decidere. Vogliono essere parte del sistema democratico di decisione dell'Europa Unita. In un'intervista, Valéry Giscard d'Estaing ha detto che i deputati al Parlamento europeo sono contrari al Congresso, perché "vedono in questo un rischio di concorrenza". Non è questo il punto. Non c'è concorrenza nella rappresentanza democratica; anzi uno dei punti di contrasto con l'idea del Congresso dei Popoli è che noi vogliamo valorizzare sempre di più il Parlamento europeo come luogo della rappresentanza politica continentale. Noi ci troviamo invece più vicini alle elaborazioni della Commissione europea. Romano Prodi non ha ripreso la formula del Congresso nelle sue proposte istituzionali, ritenendo che i Parlamenti nazionali debbano essere coinvolti attraverso il loro controllo del rispetto del principio di sussidiarietà ed ha invitato la Convenzione ad approfondire altri due temi: rafforzare la cooperazione tra PE e Parlamenti nazionali a proposito del coordinamento delle politiche economiche; attribuire ai Parlamenti nazionali la facoltà di esprimersi sulle modalità di finanziamento dell'Unione. Per la Commissione, "il controllo che i Parlamenti nazionali esercitano sui governi è il modo migliore per esprimere la loro influenza sulle attività dell'Unione". Questo controllo può essere migliorato con alcune modifiche del Trattato di Amsterdam. È questo il suggerimento che mi permetto di sottoporre ai rappresentanti italiani alla Convenzione europea. Ma intanto basterebbe cominciare ad applicare da noi il Trattato di Amsterdam e il Protocollo sui parlamenti nazionali. Il governo non lo fa. Il Parlamento non se ne preoccupa. Lo richiamo ancora una volta, come l'anno scorso, a conclusione di questa ulteriore tappa: è l'unica maniera perché la legge Comunitaria non sia una presa d'atto.
23 gennaio 2003 |