L'articolo 11 disciplina le modalità di rimborso della tassa di concessione
governativa per l'iscrizione nel registro delle imprese.
L'articolo 4 della tariffa allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 641 prevedeva,
inizialmente, che per la iscrizione degli imprenditori nel registro delle imprese dovesse
essere versata una tassa il cui ammontare, in seguito agli aumenti apportati alla misura
originaria, risultava stabilito in lire 81.000 .
Successivamente, con l'articolo 3, commi 18 e 19 del D.L. 19 dicembre 1984, n. 853,
convertito, con modificazioni dalla L. 17 febbraio 1985, n. 17 l'ammontare della tassa
venne stabilito in lire cinque milioni per le società per azioni, in lire un milione per
le società a responsabilità limitata ed in lire 100.000 per tutti gli altri tipi di
società, stabilendosi l'obbligo del versamento della tassa sia per l'iscrizione dell'atto
costitutivo della società, sia per gli anni successivi entro il 30 giugno di ciascun anno
solare.
Con il successivo D.L. 30 maggio 1988, n. 173, la tassa di iscrizione e quella annuale
furono elevate:
a lire quindici milioni per le società per azioni;
a lire 3.500.000 per le società a responsabilità limitata;
e a lire 500.000 per le società di altro tipo.
La legge di conversione 26 luglio 1988, n. 291 approvò con modifiche l'articolo 8 del
suddetto D.L., fissando l'ammontare della tassa in correlazione con l'entità del capitale
sociale delle società per azioni, secondo il seguente metro di progressività: da lire
nove milioni per le società per azioni con capitale da 200 a 499 milioni, fino a lire 120
milioni per quelle con capitale superiore a 10.000 milioni; mentre restò fissata in lire
2.500.000 la tassa per le società a responsabilità limitata, ed in lire 500.000 per le
società di altro tipo.
La disciplina fu ulteriormente modificata con il D.L. 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con
modificazioni, nella L. 27 aprile 1989, n. 154 e la tassa in questione fu stabilita
(articolo 36, comma 8) nella misura di lire 12 milioni per le società per azioni, di lire
3.500.000 per quelle a responsabilità limitata e di lire 500.000 per le società di altro
tipo.
Infine, con il D.L. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modifiche, dalla L. 8 agosto
1992, n. 359, l'ammontare della tassa fu ridotto:
in lire quattro milioni per le società per azioni;
in lire due milioni per le società a responsabilità limitata;
in lire 500.000 per le società di altro tipo.
L'articolo 61 del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla L. 29 ottobre 1993 n. 427,
sostituendo l'articolo 4 della tariffa annessa al D.P.R. n. 641 del 1972 ha, da un lato,
modificato la tassa per l'iscrizione, e dall'altro ha provveduto alla definitiva
abolizione della tassa annuale sulle società.
Le tasse in parola sono poi state definitivamente soppresse, a decorrere dal 1° gennaio
1998, per effetto delle disposizioni contenute nel comma 138 dell'articolo 3 della legge
n. 549 del 1995.
In particolare, il citato articolo 61 aveva stabilito che per le iscrizioni nel registro
delle imprese relative a società nazionali e a società estere aventi la sede legale o
l'oggetto principale nel territorio dello Stato le seguenti misure di tassa:
a) atto costitutivo: lire 500.000
b) altri atti sociali soggetti ad iscrizione in base alle disposizioni del codice civile:
lire 250.000
Per le iscrizioni nel registro delle imprese relative a società estere con sede
secondaria nel territorio dello Stato, a imprenditori individuali, a consorzi ed altri
enti pubblici e privati con o senza personalità giuridica diversi dalle società la tassa
era prevista nella misura di lire 250.000
La nota 2 all'articolo 4 della tariffa (successivamente divenuto articolo 3) precisava che
le tasse non erano dovute dalle cooperative sociali, di mutua assicurazione e di mutuo
soccorso, dalle società sportive di cui all'articolo 10 della legge 23 marzo 1981, n. 91,
e dalle società di ogni tipo che non svolgono attività commerciali i cui beni immobili
sono totalmente destinati allo svolgimento delle attività politiche dei partiti
rappresentati nelle assemblee nazionali e regionali, delle attività culturali,
ricreative, sportive ed educative dei circoli aderenti ad organizzazioni nazionali
legalmente riconosciute, delle attività sindacali dei sindacati rappresentati nel
Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro.
A fronte della sopra esposta situazione normativa di diritto interno, si è posto
l'orientamento del diritto comunitario, espresso nella direttiva del Consiglio CE 17
luglio 1969 n. 335, dichiaratamente rivolta ad intervenire nella materia dell'imposizione
indiretta sulla raccolta di capitali, al fine di eliminare (attraverso le opportune
armonizzazioni delle legislazioni degli Stati membri) le discriminazioni, le doppie
imposizioni, e ogni forma di disparità di regime tale da ostacolare la libera
circolazione dei capitali all'interno della Comunità.
In particolare, la direttiva prevede la riscossione, per una sola volta, di una imposta
sui conferimenti di capitali, con carattere di uniformità non solo nelle aliquote ma
anche nella struttura; e nell'articolo 10 stabilisce che oltre a tale imposta, gli Stati
membri non applicano, relativamente a società, associazioni o enti che perseguano fini di
lucro, alcuna altra imposizione sotto qualsiasi forma, con la precisazione che il divieto
riguarda anche l'ipotesi della costituzione di una società o l'aumento del suo capitale
(lettera a) e quella dell'immatricolazione o di qualsivoglia altra formalità preliminare
all'esercizio di un'attività alla quale la società o l'ente possano essere sottoposti in
ragione della loro forma giuridica (lettera c). In deroga al divieto di cui sopra agli
Stati membri resta consentita, in base all'articolo 12 lettera e) della direttiva,
l'applicazione di diritti di carattere rimunerativo: a chiarimento di quest'ultima
nozione, la Corte di giustizia CE ha affermato che l'onere imposto può ritenersi
proporzionato al servizio reso (e come tale legittimamente imposto) a condizione che il
suo ammontare non superi il costo effettivo delle operazioni in occasione delle quali il
diritto è percepito (v. sentenza 25 gennaio 1977 in causa 46/176, sentenza 31 maggio 1979
in causa 132/78, sentenza 9 novembre 1991 in causa 111/89).
La stessa Corte di giustizia, in relazione alla tassa di concessione governativa prevista
dal diritto italiano, con la sentenza 20 aprile 1993 resa nelle cause 71/91 e 178/91, (la
nota sentenza Ponente Carni) ha affermato: che l'articolo 10 della direttiva deve essere
interpretato nel senso che, fatte salve le disposizioni derogatorie del successivo
articolo 12, esso vieta un tributo annuale dovuto in ragione dell'iscrizione delle
società di capitali, anche qualora il gettito di tale tributo contribuisca al
finanziamento del servizio incaricato della tenuta del registro in cui sono iscritte le
società; che l'articolo 12 deve essere interpretato nel senso che i diritti di carattere
rimunerativo di cui al n. 1, lettera e) dello stesso articolo possono essere remunerazioni
riscosse come corrispettivo di operazioni imposte dalla legge per uno scopo di interesse
generale, come per esempio l'iscrizione delle società di capitali; che in particolare,
"il fatto che il tributo sia dovuto non soltanto all'atto dell'iscrizione della
società ma anche ogni anno successivo non può di per sé sottrarre il tributo stesso al
divieto di cui all'articolo 10"; che "ogni diversa interpretazione priverebbe di
efficacia pratica la disposizione dell'articolo 10 in quanto consentirebbe agli Stati
membri di imporre alle società di capitali un onere fiscale annuale il cui unico
presupposto è il mantenimento dell'iscrizione della società".
Come ricordato, in seguito alla sentenza, il D.L. n. 331 del 1993 ha ridotto la tassa di
concessione a lire 500.000 per tutte le società e soppresso la sua riscossione annuale.
Si è tuttavia instaurato un ulteriore contenzioso in merito alla ripetibilità delle
tasse riscosse in violazione della normativa comunitaria, con particolare riferimento al
termine di decadenza per la richiesta di rimborso.
Proprio recentemente, con sentenza 15 settembre 1998, la Corte di giustizia CE si è
pronunciata in merito ai termini di decadenza per la richiesta di rimborso della
cosiddetta tassa società, riconoscendo l'applicabilità del termine triennale.
In particolare, la Corte di giustizia delle Comunità europee a riconosciuto allo Stato
nazionale il diritto a stabilire per il recupero delle imposte dichiarate in contrasto con
la normativa comunitaria dei termini per l'azione di ripetizione diversi da quelli validi
per l'indebito civile
La Corte europea ha anche stabilito che il diritto comunitario non vieta a uno Stato
membro di opporre alle azioni di ripetizione di tributi riscossi in violazione di una
direttiva un termine nazionale di decadenza che decorra dalla data del pagamento dei
tributi di cui trattasi, anche se, a questa data, la direttiva non era stata ancora
correttamente attuata nell'ordinamento nazionale.
Va rilevato che il termine breve per la ripetizione del tributo era stato già sancito
dalla Corte di cassazione con la sentenza 3458/96 e ribadita con le pronunce 5731/96 e
6269/98. La Cassazione con la sentenza 8651/98 ha stabilito poi che gli interessi sulle
somme ingiustamente versate allo Stato decorrono dalla data delle richiesta di rimborso e
non da quella del versamento di ciascuna rata del tributo. Sulla questione del termine per
la restituzione, alcune sentenze dei giudici di merito, tra le quali si ricorda quella del
tribunale di Firenze del 23 aprile 1996 ritenevano valido il termine decennale applicabile
in materia di recupero dell'indebito civile.
Con l'articolo 11 del disegno di legge in esame viene dettata una disciplina per il
rimborso della tassa di concessione governativa per l'iscrizione nel registro delle
imprese, confermando quindi la legittimità della tassa.
Il meccanismo di restituzione prevede una rideterminazione in via retroattiva della misura
della tassa per gli anni dal 1985 al 1992, attraverso una interpretazione autentica (comma
1) delle disposizioni recate dall'articolo 61, comma 1, del D.L. n. 331 del 1993,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427 del 1993.
Verrà quindi rimborsata la differenza tra i nuovi importi fissati dal comma 1 e quelli
effettivamente corrisposti dalle società per il medesimo periodo.
La relazione che accompagna il provvedimento ricorda come la stessa Corte di giustizia
europea, nella sentenza del 1993, abbia ritenuto compatibile la previsione di un tributo
remunerativo del servizio reso per l'assolvimento di operazioni imposte dalla legge
nell'interesse pubblico: in tale contesto, secondo il Governo, trovano giustificazione le
disposizioni del comma 1 che prevedono la corresponsione della tassa di concessione
governativa per le iscrizioni nel registro delle imprese anche per gli anni nei quali è
stata in vigore la tassa annuale dichiarata in contrasto con il diritto comunitario.
Il comma 1 fissa, per ciascuno degli anni compresi tra il 1985 e il 1992, in lire
500.000 la misura della tassa dovuta per l'iscrizione dell'atto costitutivo.
Inoltre, lo stesso comma 1, nel testo originario del Governo, prevedeva le seguenti
misure forfetarie per gli altri atti sociali soggetti a registrazione in base alle
disposizioni del codice civile:
a) per le società per azioni e in accomandita per azioni: lire 400.000 per ciascuno degli
anni dal 1985 al 1987 e lire 1.000.000 per ciascuno degli anni dal 1988 al 1992;
b) per le società a responsabilità limitata: lire 240.000 per ciascuno degli anni dal
1985 al 1987 e lire 500.000 per ciascuno degli anni dal 1988 al 1992;
c) per le società di altro tipo: lire 80.000 per ciascuno degli anni dal 1985 al 1987 e
lire 250.000 per ciascuno degli anni dal 1988 al 1992.
Nel corso dell'esame del provvedimento presso la Commissione Bilancio del Senato le
misure forfetarie annuali (come precisato dalla Commissione stessa) sono state così
rideterminate:
a) per le società per azioni e in accomandita per azioni: lire 750.000 per ciascuno degli
anni dal 1985 al 1992;
b) per le società a responsabilità limitata: lire 400.000 per ciascuno degli anni dal
1985 al 1992;
c) per le società di altro tipo: lire 90.000 per ciascuno degli anni dal 1985 al 1992.
Le tasse sono relative all'iscrizione degli altri atti sociali (viene meno il riferimento
alle disposizioni del codice civile contenuto nel testo originario).
Condizione essenziale per ottenere il rimborso (comma 2) è quella di aver
presentato istanza nei termini previsti dall'articolo 13 del D.P.R. n. 641 del 1972. Tale
ultima norma prevede che il contribuente può richiedere la restituzione delle tasse
erroneamente pagate entro il termine di decadenza di tre anni a decorrere dal giorno del
pagamento o, in caso di rifiuto dell'atto sottoposto a tassa, dalla data della
comunicazione del rifiuto stesso.
Il comma 3 prevede la corresponsione degli interessi sull'importo da rimborsare,
calcolati al tasso legale vigente alla data di pubblicazione del presente provvedimento
sulla Gazzetta ufficiale e decorrenti dalla data di presentazione dell'istanza.
Attualmente il tasso legale è fissato nella misura del 5 per cento.
Per quanto concerne la procedura di rimborso, il comma 4 stabilisce che nel corso
del 1999 il Ministero delle finanze è tenuto ad esaminare le istanze di rimborso a suo
tempo presentate e controllare la validità e la tempestività delle stesse; a partire dal
secondo semestre dello stesso anno verranno avviate le procedure di rimborso, che saranno
eseguite secondo l'ordine cronologico di presentazione delle istanze e a partire da quelle
di minore importo.
Il successivo comma 5 autorizza il Ministro del tesoro, del bilancio e della
programmazione economica ad effettuare, con l'osservanza delle disposizioni di cui
all'articolo 38 della legge 30 marzo 1981, n. 119, e successive modificazioni (si tratta
delle disposizioni che elencano le tipologie di strumenti finanziari - buoni poliennali,
certificati di credito, titoli denominati in altra valuta, prestiti internazionali ecc. -
ai quali si può fare ricorso per l'indebitamento), emissioni di titoli del debito
pubblico per ciascuna delle annualità comprese tra il 1999 e il 2001; tali emissioni non
concorrono al raggiungimento del limite dell'importo massimo di emissione di titoli
pubblici annualmente stabilito dalla legge di approvazione del bilancio. Si ricorda che il
limite massimo di emissione dei BOT, al netto di quelli da rimborsare, nonché il limite
massimo di circolazione venivano determinati annualmente con la legge di bilancio ai sensi
del comma 3 dell'articolo 39 della legge n. 119/1981 (legge finanziaria 1981); tale
disposizione è stata abrogata dalla legge n. 362/1988 (di modifica della legge n.
468/1978) e sostituita (dall'articolo 2, comma 9, della legge n. 468/1978, come sostituito
dalla legge n. 362/1988) dalla fissazione in bilancio dell'importo massimo di emissione di
titoli pubblici in Italia e all'estero, al netto di quelli da rimborsare.
Il ricavo netto delle suddette emissioni, limitato a lire 2.500 miliardi per la prima
annualità, sarà versato al Ministero delle finanze che provvederà a soddisfare gli
aventi diritto con le modalità di cui al successivo comma 6. Per le annualità successive
l'importo di emissione dei titoli pubblici per il completamento delle attività di
rimborso sarà determinato con legge finanziaria, in relazione all'esatta quantificazione
dell'ammontare complessivo dei crediti da rimborsare.
Il comma 6 prevede l'emissione, sulla base degli elenchi di rimborso predisposti
dal Ministero delle finanze ai sensi del comma 4, di uno o più ordinativi diretti
collettivi di pagamento estinguibili mediante commutazione di ufficio in vaglia cambiari
non trasferibili della Banca d'Italia, con imputazione al competente capitolo dello stato
di previsione della spesa del ministero delle Finanze; detti vaglia sono spediti per
raccomandata dalla competente sezione di tesoreria provinciale dello Stato all'indirizzo
del domicilio fiscale vigente (come precisato dalla Commissione Bilancio del Senato) degli
aventi diritto, ove gli stessi non abbiano provveduto all'indicazione di uno specifico
domicilio eletto (come integrato dalla stessa Commissione Bilancio del Senato). Si prevede
inoltre l'obbligo di avviso, che veniva escluso nel testo originario del provvedimento.
L'Assemblea della Camera ha soppresso l'originario comma 7 che conteneva la norma
di copertura, prevedendo che all'onere derivante dall'applicazione dell'articolo 11 in
esame, valutato in lire 2.500 miliardi per l'anno 1999 ed in lire 125 miliardi annui a
decorrere dall'anno 2000, si provvedesse mediante riduzione dello stanziamento iscritto,
ai fini del bilancio triennale 1999-2001, nell'ambito dell'unità previsionale di base di
parte corrente "Fondo speciale" dello stato di previsione del Ministero del
tesoro, del bilancio e della programmazione economica per l'anno 1999, all'uopo
utilizzando parte dell'accantonamento relativo al ministero medesimo, incluso tra le
regolazioni debitorie di cui alla tabella A. In tal caso sono valse le stesse motivazioni
che hanno condotto alla soppressione del comma 7 dell'articolo 1, al cui commento si
rinvia.
NOTE
1 Si ricorda che il tema dei termini di decadenza ha formato oggetto di un
recente intervento del Ministro delle finanze (Camera dei deputati, seduta del 23
settembre 1998) in risposta ad una interrogazione presentata dall'on. Molgora.
2 Come ha rilevato F. Sciaudone nel suo commento apparso recentemente sulla
Guida Normativa de Il Sole 24 Ore, n. 175, del 29 settembre 1998, nella sentenza Emmott
(25 luglio 1991, causa C-208/90), la Corte ha affermato che, fino al momento della
trasposizione corretta di una direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la
tardività di un'azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fíne
della tutela dei diritti che a esso riconoscono le disposizioni di una direttiva e che un
termine di ricorso di diritto nazionale può decorrere solo da tale momento. La Corte poi,
nella sentenza Johnson (6 dicembre 1994, causa C-410/92),ha precisato che tale soluzione
era in realtà giustificata dalle circostanze . tipiche della causa Emmott. E infatti,,
nella successiva sentenza Fantask (2 dicembre 1997, causa C-188/95), la Corte -
ridimensionando la portata delle precedenti affermazioni fin qui ricordate - ha dichiarato
che il diritto comunitario non vieta a uno Stato membro che non ha attuato correttamente
la direttiva n. 335/69 di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in
violazione di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale quinquennale che decorra
dalla data di esigibilità di tali tributi. Considerate queste pronunce, nonché la
giurisprudenza in materia di efficacia delle direttive comunitarie, anche prima della
completa trasposizione da parte di uno Stato membro e anche in caso di un recepimento non
corretto, la Corte ha ritenuto che, in circostanze come quelle delle cause pregiudiziali
italiane, il diritto comunitario non vietasse a uno Stato membro di opporre alle azioni di
ripetizione di tributi riscossi in violazione di una direttiva un termine nazionale di
decadenza che decorra dalla data del pagamento dei tributi di cui trattasi, anche se, a
tale data, la direttiva non era stata ancora correttamente attuata nell'ordinamento
nazionale.
13/12/1998 webmaster@euganeo.it |
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il
collegio senatoriale di Tino Bedin |