L'Accordo di Farnborough è una cosa, positiva; il disegno di legge del governo è un'altra cosa, negativa.
L'Accordo di Farnborough ci porta nella direzione verso cui i cittadini desiderano vada l'Europa; il disegno di legge del governo ci porta lontano da una cultura di trasparenza e di responsabilità alla quale hanno collaborato e collaborano oltre che forze parlamentari anche forze sociali, associazioni, cittadini.
L'Accordo di Farnborough anticipa percorsi dell'Unione Europea; il disegno di legge del governo sceglie procedure bilaterali che indeboliscono la coesione europea.
Del resto la coerenza europea dell'Italia non sembra preoccupare molto il governo. Dopo un anno dalla firma a Farnborough, gli altri cinque Paesi avevano completato l'iter di ratifica dell'Accordo, mentre solo a novembre il governo ha presentato il relativo disegno di legge in Parlamento, che lo sta ancora esaminando, non per responsabilità dell'opposizione, ma perché il governo ha voluto allargare il contenuto della legge di ratifica. Ancora nel luglio scorso, nelle commissioni riunite Esteri e Difesa, ho proposto la ratifica rapida dell'accordo e la discussione separata delle modifiche alla legge 185 del 1990, ma il governo ha preferito andare a mani vuote all'incontro del 23 luglio tra i paesi firmatari, ancora a Farnborough.
Ad ogni modo, credo che potremmo almeno approfittare del fatto di essere ultimi nella ratifica: sarà di grande interesse acquisire formalmente alla documentazione della Giunta Affari europei gli strumenti con i quali gli altri parlamenti nazionali hanno ratificato l'Accordo di Farnborough.
Un accordo già a dimensione europea
Incominciamo comunque dalla parte positiva del disegno di legge.
A Farnborough, il 27 luglio 2000, per facilitare il processo di integrazione e di ammodernamento del settore, i ministri della Difesa di Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda del Nord, Italia, Spagna e Svezia hanno firmato un accordo per la modernizzazione dell'industria della Difesa accompagnata dalla armonizzazione delle legislazioni nazionali. Questi sei paesi sono titolari del 90 per cento dell'intera produzione europea degli armamenti convenzionali. Si tratta quindi di un accordo che di fatto è europeo nella sua dimensione politica, al di là che esso non coinvolga tutti gli stati membri dell'Unione e soprattutto al di là del fatto che la Politica europea di sicurezza e di difesa non sia ancora compiutamente una materia comunitaria.
La Pesd e la Pesc hanno avuto in concomitanza con la data della firma dell'accordo di Farnborough - anche se non in conseguenza ad esso - una accelerazione che i consigli europei di Nizza, Goteborg e Laeken hanno nello stesso tempo codificato e ulteriormente rilanciato. Anche l'ultimo Consiglio europeo di Siviglia ha confermato il programma di una politica europea comune per la difesa e la sicurezza.
L'azione dei governi dell'Ulivo
Ho ricordato le date dell'Accordo e i contenuti dei Consigli europei ad esso successivi per evidenziare come anche in queste settore l'Italia, con i governi dell'Ulivo, abbia svolto un'azione di presenza attiva e di spinta in Europa. L'Italia ha contribuito ad allargare gli orizzonti dell'Unione al settore della Difesa, con una scelta politica e non di necessità: non c'era ancora stata la guerra del Kosovo e il terrorismo internazionale non aveva ancora abbattuto le Torri Gemelle di New York. Sono stati il presidente del Consiglio Romano Prodi e il ministro della Difesa Nino Andreatta ad iniziare con un primo accordo a quattro quel cammino che ha portato alla Lettera di intenti e quindi all'accordo fra i sei maggiori paesi dell'Europa; accordo sottoscritto a Farnborough dal Governo Amato e dal ministro Mattarella.
Con questo Accordo si individua nell'Europa, non solo la scala giusta, ma la sede ormai ineludibile per promuovere un sistema di sicurezza e di difesa moderno, integrato, finalizzato a preservare e ad estendere la pace. L'Italia si è dimostrata consapevole che la stabilità mondiale e l'equilibrio della pace hanno bisogno di un'Europa forte. Era necessario accrescere gli strumenti per il protagonismo dell'Europa nel teatro mondiale oggi ancora insufficiente.
Solo un'Europa forte nel mondo può aiutare la pace e l'Europa sarà forte se avrà una sua politica estera e una sua politica di difesa comune. Una politica di sicurezza e di difesa comune deve poggiarsi su una propria industria militare, capace di ricerca, di innovazione e, dunque, di autonomia.
L'aver puntato a questo obiettivo è stato merito, soprattutto, dei governi dell'Ulivo.
Per questo siamo del tutto favorevoli all'Accordo; per questo ci esprimiamo favorevolmente sugli articoli 1 e 2 di questo disegno di legge. La possibilità che l'Unione europea costruisca una propria politica estera e di difesa come base per una politica di pace è da noi non solo pienamente condivisa, ma promossa e sostenuta.
Un aggiornamento della legge italiana del 1990
L'Accordo di Farnborough completa poi la legge 9 luglio 1990, n. 185, rispetto ad uno dei suoi limiti oggettivi e cioè la sua dimensione nazionale e la non previsione delle licenze globali di progetto.
La crescente integrazione dell'industria militare, la nascita di coproduzioni, di società transnazionali e di joint venture favoriscono di per sé la proliferazione orizzontale e rendono sempre più difficile quantificare e identificare la destinazione dei trasferimenti di parti e componenti che appartengono alle stesse società transnazionali. Per questo è importante stabilire, non solo per gli aspetti organizzativi, che ho prima descritti, ma anche per gli aspetti di controllo democratico, un livello adeguato; questo livello è oggi certamente europeo.
Attraverso questo Accordo i sei paesi si sono, ad esempio, impegnati relativamente agli stati in cui sia possibile esportare produzioni belliche, a concordare una lista di destinazioni lecite e questa lista è approvata per "consenso". Ciò vuol dire che ciascuno stato ha diritto di veto e ciò spingerà quasi naturalmente a trovare il consenso su criteri sempre più sicuri. Con la legge nazionale attuale l'Italia potrebbe svolgere un ruolo di capofila. Si tratta di una procedura delicata, che presenta dei rischi ma che è anche una sfida.
Ora l'Italia sceglie accordi bilaterali
Ebbene in questo equilibrio, il disegno di legge del governo irrompe con l'articolo 7, che prevede l'estensione delle procedure previste dall'accordo ai paesi Ue e ai paesi Nato.
Appare singolare che il governo scelga la strada dell'accordo bilaterale. È intanto una procedura scorretta all'interno dell'Unione Europea. La strada sulla quale siamo incamminati è quella della integrazione della Politica di difesa e di sicurezza nel pilastro comunitario e non in quello intergovernativo. Il bisogno di sicurezza dei cittadini; i fatti dell'11 settembre; il terrorismo e le sue nuove capacità offensive richiedono proprio questo all'Unione Europea.
Del resto "l'Europa" è un'argomentazione pretestuosa che a volte il governo ha utilizzato per giustificare la rapida approvazione di questo disegno di legge che modifica la legge 185 con la scusa di recepire un accordo intereuropeo.
Proprio la procedura scelta ci dice quanto sia invece lontana dalle preoccupazioni generali del governo l'integrazione militare europea.
Se questa fosse la preoccupazione, molto più corretto sarebbe stato infatti prevedere che l'Accordo di Farnborough possa essere esteso ad altri paesi membri dell'Unione Europea. Le norme italiane dovrebbero prevedere procedure automatiche, senza bisogno di una ulteriore ratifica da parte del Parlamento Italiano, ove naturalmente questo Accordo non subisca variazioni.
É questo un modo per sottolineare che consideriamo l'accordo a Sei una non dichiarata e non formale "cooperazione rafforzata" tra paesi europei; cooperazione rafforzata che non esclude gli altri, ma che anticipa e sperimenta soluzioni alle quali altri possono auspicabilmente aderire.
Questo è un autentico spirito europeo.
Unione europea e Alleanza atlantica non sono la stessa cosa
Questo è un modo molto concreto per far camminare l'integrazione europea nel settore della Difesa e soprattutto nel settore delicato dell'industria militare, che è delicato sia per le ragioni che abbiamo finora sostenute e che sono alla base della legge 185, ma anche per gli equilibri all'interno della Nato dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo l'abbattimento delle Torri Gemelle.
É questo un altro punto molto delicato, che l'articolo 7 affronta sbrigativamente e senza una distinzione tra Ue e Nato, che a mio parere è invece necessaria.
Riparto di nuovo dalla dimensione europea, per mettere in evidenza la prospettiva europea di questo governo e di questa maggioranza.
Collocare sullo stesso piano giuridico Unione Europea ed Alleanza Atlantica è un'operazione che non qualifica l'Unione Europea come un soggetto politico originale, le cui scelte in materia di Difesa, ma anche di politiche industriali e di rapporti internazionali non rispondono ad esigenze di singoli settori, ma rientrano in un progetto politico generale.
Da questo punto di vista, credo che - se non nella forma certo nella sostanza - questa equiparazione sia non solo al di fuori ma anche contraria all'Accordo di Farnborough che questo stesso disegno di legge intende ratificare. Se infatti i paesi firmatari, e il governo dell'Ulivo che ha promosso e sottoscritto l'Accordo, avessero avuto l'ottica che ora il governo di centro-destra manifesta con questo articolo, la ricerca di accordi e di comportamenti comuni avrebbe fin dall'inizio avuto come orizzonte la Nato e non l'Unione Europea, anche in considerazione che in questa maniera l'accordo avrebbe riguardato la quasi totalità dell'industria mondiale della Difesa. Se ciò non è avvenuto, vuol dire che lo spirito con cui è stato prima pensato e poi realizzato l'accordo non è quello di regole comuni e generali per la produzione dell'industria della Difesa, ma piuttosto di un tassello della Pesc-Pesd, in anticipo sulle scelte politiche ma in ritardo sulla situazione di fatto.
Si riduce la competitività industriale
Ed è questo il secondo elemento di grande perplessità che questa equiparazione unilaterale dell'Italia tra Unione Europea Nato provoca. É infatti evidente che una delle ragioni dell'accordo, questa volta esaminando la scelta dal punto di vista industriale e non politico, è di dare all'industria europea della Difesa dimensioni produttive tali che le consentano di competere con gli Stati Uniti: competizione industriale, si badi bene, non politica. Credo sia una convinzione a parole da tutti affermata che una delle condizioni perché l'Europa assuma peso politico da attore globale è quella di mettersi in posizione di non dipendenza dall'alleato Usa in settori rilevanti della Difesa.
Gli altri cinque paesi che nel 2000 hanno sottoscritto l'Accordo di Farnborough non potranno certo apprezzare il fatto che l'Italia, mentre partecipa ad un accordo che mira a potenziare l'industria europea della Difesa, si tiene le mani libere per sottoscrivere accordi anche con altri Stati, certo amici, certo alleati, ma anche concorrenti sul piano industriale.
Si tratta di paesi, quelli europei, che hanno già dovuto prendere atto della indisponibilità dell'Italia a partecipare allo sviluppo dell'Airbus europeo e che quindi hanno qualche motivo di insospettirsi di questa ulteriore dimostrazione di incoerenza europea del governo italiano.
Questo aspetto di politica industriale europea è fondamentale - a mio avviso - nella valutazione di questo disegno di legge.
Con gli armamenti si fa politica estera
Le ragioni di politica europea sono altrettanto rilevanti.
Oltre agli aspetti di politica interna europea che ho già evidenziati, ci sono anche elementi della politica estera europea che suggeriscono a nostro avviso la soppressione dell'articolo.
Uno ad esempio: dopo l'11 settembre gli aiuti militari degli Stati Uniti sono aumentati fino a 45 milioni di dollari. Si tratta di scelte autonome degli Stati Uniti, sulle quali non è questa la sede per esprimere valutazioni. Esse comunque incidono direttamente nello scambio di sistemi d'arma a livello planetario, per cui un eventuale accordo dell'Italia con gli Usa nell'ambito della Nato potrebbe di fatto ridurre i contenuti di garanzia e di controllo che l'accordo di Farnborough contiene e che ci hanno fin dall'inizio fatto proporre al governo e alla maggioranza: ratifichiamo l'Accordo e discutiamo a parte delle modifiche della legge 185.
Ripeto: si tratta di legittime scelte, in questo caso degli Stati Uniti, ma poiché non è in calendario un soggetto politico che abbia le dimensioni della Nato, risulta improprio trasferire a questo livello un'intesa che abbisogna di scelte politiche concordate.
Ne è una dimostrazione la difficoltà del governo belga, una cui componente in queste settimane si è dissociata dalla maggioranza per un accordo milionario di vendita di armi dalla Herstal al Nepal. Si tratta di 5.500 mitragliatrici destinate ad un paese che proprio ieri è stato teatro di una sanguinosa azione condotta dai ribelli maoisti. É una situazione tipica che - a mio giudizio - evidenzia come indispensabile una valutazione politica concordata, che non può dipendere da accordi di imprese e neppure da scelte di singoli governi.
Ho fatto l'esempio di un paese membro della Nato e membro dell'Unione Europea.
Possiamo anche fare riferimento ad un paese membro della Nato, non membro dell'Unione Europea, quale è la Turchia. Anche in questo caso il testo proposto dal governo introduce elementi di ambiguità in una materia che ha bisogno del massimo di trasparenza e di chiarezza, almeno nella norma.
Già abbiamo discusso nelle commissioni riunite Esteri e Difesa del criterio di giudizio sulle violazioni dei diritti umani, come vincolo alla destinazione delle armi prodotte all'interno dell'accordo di Farnborough. Ebbene la questione dei diritti umani è attualmente uno degli ostacoli all'inizio di una trattativa vera e propria di adesione della Turchia all'Unione. Però la Turchia è membro della Nato e quindi in base alla norma di questo articolo l'Italia potrebbe fare accordi anche con la Turchia.
Non voglio essere frainteso. Sono convinto che il processo di allargamento dell'Unione della riguardare anche la Turchia. Sono anche convinto che la Turchia abbia fatto scelte che vanno nella direzione dell'integrazione nel diritto comunitario e che voglia farne altre ancora più decisive. Ma anche in questo caso è un'azione generale, concordata con i paesi sottoscrittori dell'accordo, cioè con una estensione dell'accordo, che si favorisce l'integrazione e non con accordi bilaterali, come consente questo disegno di legge del governo.
In contrasto con le regole del mercato interno
Secondo il governo poi la licenza globale di progetto non si applica solo a coproduzioni intergovernative, che possiamo considerare relativamente più sicure in quanto prevedono un accordo preventivo tra governi, ma anche a semplici accordi tra industrie. Sarà quindi sufficiente per una società italiana stringere un accordo con una società turca o ungherese (anche costituita ad hoc) per godere delle procedure semplificate. A parte i rischi di questa estensione, per approfondire i quali non è questa la sede, c'è invece da osservare qui che norme come quelle proposte dal governo contrastano con le regole del mercato interno europeo, in quando parificano le aziende dei paesi dell'Unione a quelli di paesi extracomunitari.
È un'opinione non solo mia. Già alla fine di gennaio di quest'anno la Commissione Affari esteri e Difesa del Parlamento europeo ha adottato una risoluzione proposta dal suo presidente Elmar Brok, in cui si sostiene che "un'industria europea di armamento forte, efficace e valida e una politica forte sono vitali per uno sviluppo della Politica europea di sicurezza e di difesa". I deputati insistono per la creazione di sinergie tra i progetti nazionali e i progetti multinazionali. Chiedono alla Commissione di attualizzare il suo piano d'azione del 1997 sull'industria europea di Difesa, esaminando soprattutto le possibilità di integrare la difesa nella politica commerciale e nel mercato unico, di creare un comitato consultivo nel campo della difesa o d'integrare le industrie dei paesi candidati. Esortano gli Stati membri a considerare come una priorità la creazione di un Ufficio europeo per gli armamenti.
Insomma, mentre il disegno di legge italiano non valorizza certo (con l'estensione a paesi terzi) il ruolo economico che per il mercato interno europeo ha l'industria della Difesa, il Parlamento europeo ne fa una delle componenti di integrazione produttiva. Nella seduta plenaria del 10 aprile di quest'anno, adottando la risoluzione della commissione esteri, il Parlamento europeo è andato oltre, chiedendo ai governi dell'UE di dare la priorità assoluta nei loro acquisti di Difesa, alla soddisfazione dei bisogni della Forza di reazione rapida, concentrandosi sulla realizzazione di missioni del tipo Petersberg. Il PE afferma l'importanza di una industria europea dell'armamento forte e praticabile e si è detto preoccupato (con un emendamento di Philippe Morillon, PPE) degli "investimenti considerevoli in ricerca e sviluppo che alcuni Stati membri prevedono di effettuare presso industriali americani nel settore degli armamenti".
Questa preoccupazione diventerebbe ancora più fondata se - come prevede il disegno di legge - l'Italia stringesse un accordo per la licenza globale di progetto proprio con gli Stati Uniti.
Il rischio del segreto sulle transazioni finanziarie
Sempre il Parlamento europeo, prima in commissione esteri e poi in plenaria, ha sostenuto che il Codice di comportamento in materia di esportazioni di armi dovrebbe essere considerato come "parte integrante della politica industriale europea" e dovrebbe diventare "giuridicamente vincolante".
Il controllo e la limitazione dell'esportazione di armi, ha aggiunto il PE, dovrebbero essere parte integrante della Pesd e della politica commerciale dell'UE.
É difficile sostenere che si vada nella direzione del Codice di condotta europeo e del controllo sul commercio delle armi chiesto in Europa, con il segreto sulle transazioni creditizie e finanziarie o sull'uso finale delle armi, che il disegno di legge italiano prevede.
Questi segreti rischiano di ledere la stessa credibilità del trattato. Rischiano anche di rendere meno credibile la politica di interposizione pacifica alla quale l'Unione Europea intende dedicare la gran parte della sua forza militare. La questione delle transazioni bancarie, in materia di commercio di armi e di traffico di armamenti, è infatti uno dei problemi centrali della corruzione internazionale e costituisce la ragione per la quale, molto spesso, paesi non democratici, attraverso la corruzione, acquisiscono queste armi per questioni interne e non per motivi internazionali.
Un principio proposto dalla Spagna
Richiamo infine il documento che definisce gli orientamenti possibili di una "politica europea degli armamenti, che la Presidenza spagnola dell'Unione ha presentato nel corso di una riunione informale dei ministeri della Difesa dell'Unione, il 23 marzo a Saragozza.
In esso si enunciano una decina di "princìpi", il primo dei quali è mettere la politica degli armamenti al servizio della politica europea di difesa comune "e non il contrario" ("come è successo in alcuni Stati membri dove la politica industriale è determinata dai bisogni o gli interessi delle loro industrie"). Il disegno di legge italiano - anche per esplicita affermazione della maggioranza - è invece pensato "al contrario", cioè prima le imprese, poi le politiche di sicurezza e le politiche dell'Unione.