Ai più è sembrata e sembra una profezia, con tutto il suo carico di conversione alla novità. È stata e continua ad essere invece un duro richiamo alla realtà, con tutto il suo carico di conversione all'umanità.
L'immagine della "Chiesa come ospedale da campo", proposta da Papa Francesco oltre cinque anni fa, è entrata nel magistero delle diocesi e nella pastorale e delle parrocchie, e fa parte degli obiettivi di molte associazioni laicali e comunità religiose. Forse contribuisce anche la suggestione di una realtà di cui la maggioranza (fortunatamente) non ha esperienza e che si presta quindi all'immaginazione anche eroica. A tutti capita di aver a che fare con gli ospedali: come bisognosi di cure più o meno complicate o come visitatori di pazienti. Se Papa Francesco avesse parlato di "ospedale" probabilmente l'interesse sarebbe stato minore e più circoscritto a chi già è in questa dimensione di Chiesa.
La novità non è il prendersi cura. L'ospedale da campo sembra, invece, proporre l'atteggiamento più coerente con i cambiamenti esistenziali e sociali del nostro tempo. Eppure, le sofferenze dell'umanità non sono mai venute meno e nel tempo il popolo dei credenti ha aperto molti "ospedali". Penso a Padova, solo perché è la mia città. Nel 1558 nasce il "Pio Istituto Poveri Infermi e Vergognosi", che ha lo scopo di sostenere "le persone, alle quali il mendicare è vergogna ed è impossibile, per le qualità loro, il sostentarsi senza limosine". Quattrocento anni dopo nel 1955 il vescovo di Padova mons. Girolamo Bortignon avvia l'Opera della Provvidenza Sant'Antonio destinata a persone handicappate gravi e gravissime: le aveva incontrate nella sua prima visita pastorale alle parrocchie e aveva visto che erano "sconosciute" alla comunità civile e spesso "nascoste" dalle loro famiglie.
Ogni diocesi italiana ha avuto ed ha "ospedali" come questi. Molte comunità religiose sono nate come "ospedali da campo"; quella del Beato Luca Passi proprio come "ospedale di campagna", secondo il suo "Progetto morale ed economico": lo pubblica nel 1936, l'anno del colera nella Bergamasca che rischia di ingigantire il fenomeno della fuoruscita dei giovani dall'agricoltura, perché gli orfani di contadini saranno accolti in istituti, avviati ad un altro mestiere e non torneranno a lavorare la terra nella loro comunità.
La novità per la Chiesa non è dunque il prendersi cura.
Nella lunga intervista a Civiltà Cattolica dell'agosto 2013, all'interno della quale ricorre per la prima volta a questa immagine, Papa Francesco non si ferma infatti alla parola "ospedale". Precisa che si tratta di "ospedale da campo": "Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere ad un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso".
Uscendo da se stessa trova nuove strade. Non "fare" un ospedale da campo, ma "essere" un ospedale da campo: è in questa inversione la prima proposta dirompente di Papa Francesco per la nostra Chiesa e la ragione dell'attenzione che ha destata. È questa la conversione all'umanità, richiesta dai molti campi di battaglia del nostro tempo. Ci sono le persone ferite, il cui bisogno una per una è la cura. Il primo bisogno è però della Chiesa: o è un ospedale da campo o non è Chiesa.
E questo vale anche per ogni singolo credente. Don Lorenzo Milani il 7 gennaio 1996 scrive a Nadia, una giovane studentessa di Filosofia a Napoli: "Se vuoi trovare Dio e i poveri bisogna fermarsi in un posto e smettere di leggere e di studiare e occuparsi solo di far scuola ai ragazzi della età dell'obbligo e non un anno di più, oppure agli adulti, ma non una parola di più dell'eguaglianza e l'eguaglianza in questo momento dev'essere sulla terza media. Tutto il di più è privilegio. (…) Quando avrai perso la testa, come l'ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio".
Perché è la carità che crea la fede, non viceversa. L'autore della Lettera a Diogneto lo spiega così: "Colui che prende su di sé il carico del prossimo, colui che vuole assistere il debole, colui che dona ciò che ha ai bisognosi, diventa un dio per chi riceve, è imitatore di Dio. Solo così vedrai sulla terra che il cielo regna un Dio".
Ineludibile diventa la domanda e la conseguente scelta della risposta: difendere i sani o guarire i malati? Se prima vengono i malati, non basta aspettarli, bisogna cercarli. Infatti nella stessa intervista, tre capoversi più sotto rispetto a quello che ho già citato, c'è la seconda proposta innovativa: "Invece che essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n'è andato o è indifferente. Chi se n'è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio".
Tre mesi dopo l'intervista a Civiltà Cattolica Papa Francesco riassume questo atteggiamento come quello di "una Chiesa in uscita", che "sa fare il primo passo, sa prendere l'iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi", come esorta nella Evangelii gaudium.
23 dicembre 2018