L'UMANITÀ

Sono passati vent'anni dalla Quarta Conferenza sulle donne a Pechino
I traguardi delle donne
non sono mai definitivi

Rimettere insieme mamme e bambini potrebbe essere il prossimo traguardo: pur essendo titolari di diritti specifici, il loro destino è strettamente correlato

di Tino Bedin

Il 2015 è un anno di bilanci e di propositi in materia di parità tra donne e uomini in tutto il mondo. Sono passati vent'anni dalla Quarta Conferenza sulle donne che nel 1995 richiamò a Pechino 17 mila partecipanti e i rappresentanti di 189 governi. I risultati furono la Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma d'azione: documenti cui generazioni di donne hanno fatto e fanno tuttora riferimento e che saranno aggiornate a New York, nella Conferenza "Pechino +20" che si terrà alle Nazioni Unite.
Il Palazzo di Vetro sarà anche la sede di un'altra revisione, quella degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La creazione di uno sviluppo sostenibile è in buona parte legata alla partecipazione delle donne alla vita sociale ed economica. L'educazione delle ragazze e delle donne ha dimostrato di contribuire in modo significativo alla riduzione della mortalità infantile. L'accesso diretto delle donne alla produzione agricola - lo si è visto in particolare in America latina - sta contribuendo alla riduzione della fame endemica.
Il fatto che le si ridiscuta, che le si aggiorni, vuol dire che molte questioni dell'agenda femminile di vent'anni fa aspettano ancora risposte o il completamento di risposte. E al riguardo le "donne di New York 2015" hanno la vista lunga, tanto da aver riassunto il loro obiettivo così: "Planet 50-50 by 2030", insomma almeno altri 15 anni per un "pianeta in parità".

Spostano il "centro" in periferia. Nel 1995 a Pechino il tema principale era come sviluppare e diffondere politiche di assunzione consapevole del proprio potere da parte delle donne, eliminando ingiustizie e pregiudizi, abbattendo muri e steccati. L'obiettivo era valorizzare la presenza femminile nella società e nelle professioni e rendere la donna protagonista delle sue scelte nel campo della sessualità e della maternità.
Guardando il pianeta dall'alto, sembra che l'umanità stia progredendo in maniera spedita verso quegli obiettivi.
In campo politico la situazione è addirittura stupefacente. La più grande e più ricca democrazia europea, quella tedesca, è guidata da Angela Merkel. I tre più grandi paesi dell'America Latina hanno contemporaneamente tre presidenti donne: Dilma Rousseff in Brasile, Cristina Fernandez de Kirchner in Argentina e Michelle Bachelet in Cile. Alla guida della maggiore organizzazione finanziaria globale, il Fondo monetario internazionale, c'è una donna, Christine Lagarde.
Nell'ultimo quarto di secolo la mortalità materna si è dimezzata nelle regioni del mondo in via di sviluppo.
In Europa le donne rappresentano il 60 per cento dei nuovi laureati.
Sono milioni le donne che partono da sole dal loro paese e cercano (e trovano) lavoro all'estero. La migrazione diventa per moltissime di loro affrancamento dalla tutela maschile che veniva loro imposta in patria; addirittura fa loro acquisire il ruolo di riferimento economico per la famiglia di origine alla quale inviano denaro. A Manila, capitale delle Filippine, c'è un monumento che onora queste donne.
Sono solo esempi - pochi e molto diversi fra loro - della "marcia della donne": una marcia che non va solo dalla "periferia" al centro - come nel caso del potere politico - ma che sposta il "centro" in periferia, come nel caso del primato nella formazione universitaria o in quello dell'affrancamento economico-sociale delle donne emigrate.

Quell'antica distinzione. "Periferia" è una condizione alla quale Papa Francesco ci richiama fin dall'inizio del suo pontificato. La condizione femminile è storicamente una periferia, ma a differenza di quelle richiamate dal Papa, che identificano l'emarginazione, la periferia femminile è molto spesso "un altrove"; una specie di periferia antropologica rispetto al "centro maschile"; è una periferia che si crea non per esclusione o per emarginazione, ma per distinzione.
Sei secoli prima di Cristo Pitagora, matematico e filosofo della Magna Grecia, insegnava: "C'è un principio buono, che ha creato l'ordine, la luce e l'uomo. E un principio cattivo, che ha creato il caos, le tenebre e le donne".
All'inizio della storia cristiana, il Vangelo di Giovanni racconta che "in quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna" (Gv 4,27). Atteggiamento ancora profetico nel nostro tempo se Papa Giovanni Paolo II ha messo come titolo del quinto capitolo della Mulieris dignitatem, la Lettera apostolica scritta nel 1988 in occasione dell'Anno Mariano, proprio la citazione "Si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna".
È questa distinzione antropologica che sta rendendo più complessa, più faticosa, senza traguardi definitivi la "marcia delle donne": quelle di Pechino vent'anni fa, quelle di New York nel 2015.

Tra famiglia e lavoro non contano solo gli orari. La valorizzazione delle donna nell'ambito sociale e professionale era uno degli obiettivi della Conferenza di Pechino: almeno in alcune parti del pianeta questo traguardo è stato raggiunto. Subito dopo però le donne hanno dovuto iniziare una nuova marcia, tuttora in corso. Il mondo del lavoro nel quale sono a pieno titolo è infatti pensato per gli uomini, ha orari e regole che non si conciliano con la maternità e che fanno pagare prezzi troppo alti alla felicità delle donne e dei loro figli.
Così il nuovo traguardo - mai proposto agli uomini - è la conciliazione dei tempi famiglia-lavoro, che non è solo questione di orari: significa consentire alla famiglia la stabilità che previene e riduce il rischio di crisi; significa creare le condizioni perché ogni donna possa scegliere di avere
un figlio quando è desiderato, senza procrastinare la maternità oltre i quarant'anni, quando concepimento e nascita diventano più complessi.
In attesa di raggiungere questo nuovo traguardo sono costrette a "difendersi", adattandosi alle regole del "centro maschile".

All'origine del divario salariale. Una di queste "regole" è: se non sei come me, vali meno, quindi ti pago meno. Nella maggiore economia planetaria, quella degli Stati Uniti, le statistiche segnalano che le donne guadagnano circa il 23 per cento in meno dei loro colleghi uomini. Il divario è così clamoroso che il presidente Barack Obama ne ha fatto un tema politico nazionale nell'annuale Discorso sullo Stato dell'Unione del novembre scorso. Il divario è anzi così planetario che Papa Francesco ha inserito il tema nella sua catechesi sulla famiglia nell'udienza generale del 29 aprile di quest'anno: "Il seme cristiano della radicale uguaglianza tra i coniugi deve oggi portare nuovi frutti. (…) Per questo, come cristiani, dobbiamo diventare più esigenti a tale riguardo. Per esempio: sostenere con decisione il diritto all'uguale retribuzione per uguale lavoro; perché si dà per scontato che le donne devono guadagnare meno degli uomini? No! Hanno gli stessi diritti. La disparità è un puro scandalo!".
Le statistiche però non dicono tutto; anzi - come in questo caso - nascondono la verità. Il divario salariale non è una discriminazione originata dal sesso; se fosse così la soluzione, pur difficile, sarebbe chiara. Il divario è prevalentemente il risultato delle scelte delle donne stesse per "difendere" la loro natura, sono la conseguenza del loro "adattamento" forzato alle regole maschili. Un modo? Piuttosto che contrattare sullo stipendio, preferiscono negoziare sulla flessibilità dell'orario o sui congedi parentali. Un altro modo? Le donne superano i maschi come nuove lauree, ma lo sbocco professionale cui tendono deve conciliare famiglia e lavoro, rinunciando a priori a professioni senza orari. Oppure ecco le donne costrette all'alternativa drastica: Sharlyl Sandber, direttore operativo di Facebook, nel libro Facciamoci avanti ha documentato che il 43 per cento delle donne istruite e in carriera lasciano il lavoro quando hanno figli; ed è l'età nella quale i loro colleghi maschi fanno invece carriera e guadagnano di più.

"Invisibili" fin da piccole. Nella nostra parte di pianeta il nuovo traguardo delle donne non è quindi la parità salariale sul piano statistico, ma ricentrare la società dandole obiettivi comuni a uomini e donne; queste ultime non più costrette a "ripararsi" in una periferia antropologica.
È la periferia che le donne abitano anche nel resto del pianeta, dove però condividono contemporaneamente le periferie esistenziali: sono donne i due terzi degli affamati, degli analfabeti e dei più poveri fra i poveri del mondo. La "femminilizzazione della povertà" - cui si dedica attenzione e non ancora soluzione anche da noi - ha in molti paesi del mondo le dimensioni dell'intera società, visto che le donne e i bambini costituiscono lì il 70 per cento della popolazione.
Rimettere insieme mamme e bambini potrebbe essere il prossimo traguardo per le donne. Pur essendo titolari di diritti specifici, il destino di donne e bambini è strettamente correlato.
Incominciando a percorrere questa strada, si attraverserà la periferia più estrema nella quale le donne abitano quando sono bambine e adolescenti: è la "periferia familiare", nella quale esse stanno all'ultimo gradino della scala gerarchica. Sono piccole donne "invisibili", diventate adulte troppo presto, senza sogni, senza aspirazioni. Già a 10 anni vengono avviate al lavoro come domestiche in famiglie anche poco meno povere della loro, ricevendo in cambio il vitto e l'alloggio. Sono senza istruzione: la rottura con il loro futuro è quindi definitiva.
Nel Programma di sviluppo post-2015, che le Nazioni Unite stanno definendo, queste adolescenti hanno un posto di diritto. "Dove le donne stanno bene, tutti stanno meglio", afferma infatti, con cognizione di causa, Amartya Sen, economista indiano e premio Nobel.

Milioni le vittime della "strage di Eva". Quella di Amartya Sen non è solo un'affermazione dottrinale; è un urlo. Con la sua guida seguiamo le donne nella "periferia che non c'è", in un "altrove" dove non è loro consentito neppure di esistere. Fin dagli anni Novanta l'economista segnala che "mancano all'appello" specialmente in Asia 160 milioni di donne. Le donne subiscono violenza ancora prima di nascere. Potendo conoscere il sesso del nascituro, molti feti femminili vengono eliminati con aborti selettivi. Succede che molte neonate vengano uccise e che altre siano lasciate senza cure durante una malattia. E poi ci sono quelle tenute in vita dall'amore materno, ma fatte "sparire". La grande migrazione cinese a partire dagli anni Novanta è collegata alla politica del figlio unico: far espatriare una figlia senza documenti la fa sparire dalla statistiche amministrative e consente allo stesso tempo di dare uno status legale al secondo figlio maschio. È infatti il numero ridotto di figli consentito dai governi o imposto con le campagne antidemografiche, ad esempio in Cina e in India, a indurre molte famiglie a preferire un figlio maschio a una femmina. Secondo il più recente dato dell'ufficio Onu sulla popolazione mondiale in Cina ci sono oggi 50 milioni di uomini in più rispetto alle donne. In India gli uomini in più sono 43 milioni. "Il sessismo dell'aborto selettivo", come lo definisce Amartya Sen, continua tuttora, tanto che il premio Nobel ha rinnovato il grido contro la "strage di Eva" l'anno scorso nel suo saggio The Lost Girls, dove conferma: "L'utilizzo di nuove tecniche come l'ecografia per determinare il sesso dei nascituri ha portato a numeri enormi e crescenti di aborti selettivi di feti femminili. L'istruzione delle donne, che è stata una forza potente nel ridurre la discriminazione di genere, non è riuscita a eliminare, almeno non ancora, la discriminazione neonatale".

20 settembre 2015


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13 novembre 2015
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