L'UMANITÀ

La beatificazione dell'arcivescovo di San Salvador
a 35 anni dall'uccisione

A mons. Romero basta il Vangelo
per essere martire

Per i suoi assassini deve essere chiaro che muore perché è un prete:
ora è il primo martire del Concilio Vaticano II

di Tino Bedin

Il più piccolo paese dell'America latina, El Salvador, è da sabato 23 maggio 2015 la patria del primo martire del Concilio Vaticano II, il primo martire di una Chiesa che si fa popolo, per condividere speranze di giustizia, di pace, di amore. Trentacinque anni dopo il suo assassinio, mons. Oscar Romero è beatificato a San Salvador, la capitale di cui era arcivescovo al momento dell'uccisione La beatificazione dell'arcivescovo dei "senza voce" è proclamata dal cardinale Angelo Amato, inviato speciale di Papa Francesco e prefetto della Congregazione per le cause dei Santi. In piazza ci sono sei cardinali, più di cento arcivescovi e vescovi e quattro presidenti dell'America latina (El Salvador, Honduras, Ecuador, Panama), oltre a circa 300 mila persone provenienti da tutto il Sudamerica.
Ha una ragione profonda questa gioia insieme identitaria e popolare dell'America latina: tutta la loro Chiesa, la Chiesa universale, li capisce, ne condivide la storia di sofferenza e di ribellione; storia prima evangelica che politica, perché la scelta di difendere i poveri in quanto segno di Cristo è eminentemente religiosa. E chi ha ucciso mons. Romero non lo ha fatto per contrapposizione politica, ma in "odio alla fede", in odio ad uno dei pilastri del cristianesimo: la difesa dei poveri. Come ricorda mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e postulatore della causa di beatificazione, "le ricerche documentarie dell'enorme archivio dell'arcivescovo Romero, lo studio della situazione salvadoregna e centroamericana hanno fatto emergere la chiarezza dell'uccisione di Romero in odium fidei. È apparso sempre più evidente il clima persecutorio contro non il solo Romero, ma contro una Chiesa che cercava di vivere la nuova prospettiva pastorale aperta dal Concilio Vaticano II".

L'inno di padre Turoldo. Nella raccolta di poesie "Il grande Male" (Mondadori, 1987) padre David Maria Turoldo scrive una toccante invocazione, dal titolo "In memoria del vescovo Romero".

In nome di Dio vi prego, vi scongiuro,
vi ordino: non uccidete!
Soldati, gettate le armi...

Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso infinite volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.

Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.

Ucciso perché fatto popolo:
ucciso perché facevi
"cascare le braccia
ai poveri armati",
più poveri degli stessi uccisi:
per questo ancora e sempre ucciso.

Romero, tu sarai sempre ucciso,
e mai ci sarà un Etiope
che supplichi qualcuno
ad avere pietà
.
Non ci sarà un potente, mai,
che abbia pietà
di queste turbe, Signore?
nessuno che non venga ucciso?

Sarà sempre così, Signore?

Padre Turoldo scrive questo "inno" dieci anni prima dell'avvio della causa di beatificazione del "fratello Romero" e con la potenza della poesia riassume le ragioni per le quali la Chiesa lo sente come martire.

La condanna a morte. TI versi iniziali ci rimandano alla "condanna a morte", che mons. Romero stesso detta per se stesso il 23 marzo 1980 nell'omelia della messa domenicale nella cattedrale di San Salvador: "Vorrei rivolgere un invito particolare agli uomini dell'esercito... Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini; ma davanti all'ordine di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere […]. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può rimanere in silenzio di fronte a così grande abominazione [...]. In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo sempre più tumultuosi, vi chiedo, vi supplico, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione".
Per l'arcivescovo questo è Vangelo; è essere pastore per i poveri e per i potenti. Nei palazzi del potere salvadoregno è una dichiarazione di insubordinazione; peggio: un'incitazione all'insubordinazione. Romero deve morire. Subito. E deve essere chiaro che muore perché è un prete, perché predica il Vangelo.
Mons. Romero non abita in arcivescovado; gli bastano le stanzette del custode dell'ospedale per malati terminali "Divina Provvidenza"; la cappella dell'ospedale è la sua "cattedrale quotidiana". Qui celebra la messa anche lunedì 24 marzo 1980, ma non la conclude: mentre alza l'Ostia nella consacrazione l'assassino prende la mira e spara, lo colpisce alla giugulare. Mons. Romero muore sul colpo.

Le due messe mai finite. "Sacerdozio che tutte le vittime riassumi e consacri", canta padre David Maria Turoldo. Lo sanno bene anche gli assassini di Romero, che proprio per evitare che la sua bara diventi il "riassunto" di un popolo e la messa funebre diventi la celebrazione della santità provocano disordini durante il funerale. E neppure quella messa si è mai conclusa. La messa del martirio e la messa della santità si concludono sabato 23 maggio 2015, nella piazza della cattedrale di El Salvador.
È un debito che i salvadoregni e i latino-americani hanno con uno "dei migliori figli della Chiesa" perché seppe costruire la pace "con la forza dell'amore fino all'estremo sacrificio", ha affermato Papa Francesco nel messaggio inviato alla Chiesa del Salvador in occasione della beatificazione.
Per il Santo Padre mons. Romero "seppe guidare e proteggere il suo gregge in tempi di difficile convivenza, rimanendo fedele al Vangelo e in comunione con tutta la Chiesa". E il suo ministero episcopale "si è distinto per una particolare attenzione ai più poveri e agli emarginati". Al momento della morte, "mentre celebrava il Santo Sacrificio dell'amore e della riconciliazione, ha ricevuto la grazia di identificarsi pienamente con Colui che diede la sua vita per le proprie pecore".

Il 24 marzo è già una data speciale. "Chi ti ricorda ancora, fratello Romero?", domanda padre Turoldo. Oggi possiamo rispondere guardando non solo alla affollata piazza della beatificazione, ma anche indietro ai 35 anni passati. La piazza di oggi è la fotografia corale di migliaia di gesti continuati nel tempo, in America latina, nella Chiesa, nel mondo.
"Mi ha profondamente commosso vedere i contadini salvadoregni recarsi ancora oggi sulla tomba del loro arcivescovo, nella cripta della Cattedrale, e parlare con lui come se fosse presente fisicamente", testimonia mons. Vincenzo Paglia. "San Romero de América", lo chiamavano già.
E anche per i Papi era già santo.
Nella celebrazione giubilare del 2000 al Colosseo in ricordo dei martiri della Chiesa Giovanni Paolo II inserì anche il nome di Romero. E due anni dopo, il 19 novembre 2002, nella visita ad limina di alcuni vescovi salvadoregni, tra cui mons. Fernando Sáenz Lacalle, successore di Oscar Arnulfo Romero alla sede di San Salvador, disse chiaramente: "È un martire. Sì, monsignor Romero è un martire". Ne era così convinto che l'anno dopo durante la visita a El Salvador Giovanni Paolo II sfidò l'opposizione del governo e di parte dei vescovi, chiedendo di andare sulla tomba di mons. Romero. Su quella tomba stese le mani e disse: "Romero è nostro".
Tocca poi a Benedetto XVI nel 2007 avviare il percorso "romano" della beatificazione, che fin dal 1997 aveva concluso la fase diocesana. E uno dei suoi ultimi atti prima di annunciare le sue dimissioni, nel dicembre del 2012 è proprio lo "sblocco della causa".
Da parte sua Papa Francesco, con lo stile che lo caratterizza, nell'agosto della scorso anno aveva detto: "Adesso i postulatori devono muoversi perché non ci sono più impedimenti".
Da parte sua la Chiesa italiana ha scelto la data del 24 marzo (anniversario dell'assassinio di mons. Romero) per la Giornata in cui celebra i martiri contemporanei.
Le Nazioni Unite, laicamente, celebrano ogni 24 marzo mons. Romero come campione di diritti umani, per la sua compassione per le vittime della violenza e dell'ingiustizia.

Martire e carnefice, stessa fede? Tempo ne è comunque passato dall'assassinio. La Chiesa si è trovata a rispondere ad una domanda terribile: è possibile che un martirio per la fede sia inflitto da altri cattolici? Come è possibile che martire e carnefice abbiano la stessa fede? L'alternativa a questa domanda (e alla relativa risposta) era prendere atto di un assassinio politico, come ha sostenuto a lungo una parte della stessa Chiesa latino-americana.
Mons. Romero era un padre e un pastore, non un politico. Gli bastava il Vangelo per scegliere: "Quando assassinarono il mio braccio destro, il padre Rutilio Grande, anche i campesinos rimasero orfani del loro padre e del loro più strenuo difensore. Fu durante la veglia di preghiera davanti alle spoglie dell'eroico padre gesuita immolatosi per i poveri che io capii che ora toccava a me prenderne il posto ben sapendo che così anch'io mi sarei giocato la vita": così mons. Romero scrive nel 1979 a padre Bartolomeo Sorge, che come esperto della Santa Sede aveva partecipato alla Conferenza episcopale latino-americana di Puebla.
Gli basta il Vangelo per essere martire. "Sarà sempre così, Signore?".

23 maggio 2015


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10 luglio 2015
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Tino Bedin