TINO BEDIN
Ripensare il bene comune
Dopo aver considerato flessibili le persone
e rigide le regole del mercato

Ora stiamo vedendo che la regola del primato della persona non consente eccezioni

dialogo di Tino Bedin con una suora

Da qualche anno, nel nostro Paese, si va diffondendo un crescente disinteresse per la politica. È percezione condivisa da molti che il mondo politico sia lontano dalla quotidianità della gente comune e che viva sempre più di una sua autoreferenzialità. Quale è la sua valutazione, senatore Bedin?
L'agenda delle istituzioni è effettivamente un'agenda politica e non un'agenda civica. I problemi (e le possibili soluzioni) figurano all'ordine del giorno del Parlamento non quando si presentano, ma quando la politica li ritiene interessanti per sé. La valorizzazione delle autonomie territoriali, per citare un tema di attualità, è stata affrontata non quando la società lo chiedeva, ma solo ora che è funzionale ai successi elettorali di un partito.
Questa situazione non è tuttavia figlia solo del personale politico. Per una serie di spinte sia culturali che economiche che individuali, si è progressivamente ridotta l'attività politica al compito di "organizzare" le istituzioni, cioè ad una funzione tecnica. Contemporaneamente l'insieme della società si "liberava" dalla politica.
Le conseguenze che viviamo sono due: il personale politico si autorganizza per assolvere al suo mandato tecnico e per conservarsi "il lavoro" (come qualsiasi altra categoria di professionisti); i cittadini non ricorrono alla politica per la loro vita quotidiana. Mi pare che a soffrirne sia la democrazia, che non può sopravvivere nella sola dimensione formale, ma si alimenta e si rinnova se ha anche la dimensione sostanziale della partecipazione dei cittadini.

Senatore Bedin, Tocqueville un giorno disse che l'individuo è il più grande nemico del cittadino. Tradotto ai nostri giorni ciò potrebbe significare che sia proprio l'individualismo imperante a provocare un ritiro nel privato. Tuttavia è lecito chiedersi se sia troppo semplice ricondurre tutto ad un atteggiamento egoistico, senza considerare altre variabili di contesto, ben più influenti e significative. Mi riferisco, in particolare, al clima di incertezza e precarietà che pervade ormai ogni aspetto della nostra vita individuale e collettiva. Del resto, come è possibile progettare insieme e insieme agire se siamo isolati e frammentati dall'insicurezza circa il nostro futuro esistenziale, professionale, familiare…?
La precarizzazione è il maggior problema civile della società italiana. Essa è subita nella condizione lavorativa dei giovani, ma travolge l'insieme della vita delle persone (autonomia familiare, età genitoriale, progettualità finanziaria, tempo a disposizione per la comunità). L'individuo di cui parla Tocqueville avrebbe tutto l'interesse a vivere questa situazione da cittadino. Eppure essa non diventa un problema politico: non lo diventa né per i cittadini né per il personale politico.
L'egoismo qui non c'entra, come non c'entra in molti altri casi. C'entra piuttosto la disponibilità da parte dell'opinione pubblica ad accettare l'insufficienza delle soluzioni "di mercato" che sono state sostituite alle soluzioni "politiche", dopo che la società, come dicevo, si è "liberata dalla politica". Si è pensato, per restare nella situazione di cui stiamo parlando, che la competitività potesse essere garantita rendendo più "flessibili" le persone e considerando quindi "rigide" le regole del mercato. Si è pensato che un bene comune (la prosperità economica e l'occupazione relativa) potesse essere raggiunto adattando le persone al mercato e quindi facendo un'eccezione rispetto alla regola del primato della persona. Ora stiamo vedendo che questa regola non consente eccezioni. Ora - non a livello nazionale ma a livello locale - c'è chi si sta impegnando a "far competere" attraverso la creazione di condizioni di serenità, sicurezza e speranza delle persone che vivono e producono in un territorio specifico.
È un bel terreno sul quale coltivare la nuova politica, anche per i cittadini. Se ci si mobilità per una discarica, se si fanno comitati per un elettrodotto, perché non impegnarsi per la propria vita?

Fare politica significa riflettere ed agire a favore del "bene comune", eppure, oggi, qualsiasi discorso di "buona società"e di "bene pubblico" sembrano essere stati sostituiti da un'altra logica, quella di "vita buona", di "diritti individuali". Ecco che allora si comprendono i ridimensionamenti del welfare, lo smantellamento delle reti di protezione per le fasce più deboli… Come è possibile rilanciare il tema della polis quale luogo di assunzione di responsabilità a favore di tutta la collettività? E' pensabile una Solidarietà senza Stato? Quali, secondo Lei, le strade che ciascuno di noi può intraprendere nel sostenere un improrogabile risveglio etico?
La solidarietà è un elemento (e una finalità) della democrazia sostanziale. Uno Stato senza solidarietà (così come senza sussidiarietà o senza legalità) è al di fuori della Costituzione italiana e al di fuori del percorso che l'Occidente ha compiuto nel secolo scorso. Lo Stato sociale non è solo una modalità di riduzione delle disuguaglianze. Lo Stato sociale serve a dare attuazione ai diritti di libertà e di cittadinanza. Salute e istruzione, genitorialità, invecchiamento sono nomi della libertà e della cittadinanza, non solo spunto per servizi collettivi.
Ma anche la solidarietà ha bisogno delle istituzioni democratiche (lo Stato, i municipi, le autonomie scolastiche); ne ha bisogno non tanto per esprimersi, quanto per affermarsi come valore indisponibile, legato non alla volontarietà delle persone ma all'obbligo di una comunità. Solo le istituzioni sono obbliganti.
Certo non basta. Le istituzioni devono essere anche "impegnative", cioè determinare non solo obblighi, ma impegno personale. Il cammino per arrivarci in questo caso è lungo ed in parte ignoto.
La riduzione della politica a "professionalità" (da cui ha preso avvio questo nostro colloquio) è coincisa con il venir meno delle "evidenze etiche comuni"; credo che in parte ne sia stata originata. Questo è quello che c'era e che ragionevolmente non ritorna. Davanti a noi sta invece la necessità di una democrazia che si fonda su un'etica pubblica, che riscopre o riscrive il proprio patto non solo su obiettivi ma su valori, che fa della propria Costituzione il "libro della cittadinanza".

Tutti gli studi che si sono occupati della globalizzazione hanno sottolineato che uno dei suoi effetti più macroscopici è certamente lo svuotamento del potere dello Stato, da un lato limitato dalle più potenti logiche economiche e finanziarie, dall'altro dall'affermarsi di organizzazioni sopranazionali che ne hanno rimodellato le competenze. Quali, secondo Lei, i rischi di questo impoverimento? Quali i compiti che uno Stato non può assolutamente demandare a scapito dell'integrazione e della concordia politica e civile?
Anche a livello sovranazionale abbiamo bisogno di darci una Costituzione; ne abbiamo bisogno come cittadini, non solo come Stati. La prima Costituzione europea sottoscritta a Roma il 29 ottobre corrisponde a questo bisogno. Non essendo più solo un Trattato, è la premessa per evitare che una cessione di sovranità si trasformi, come in gran parte avviene negli organismi multilaterali, in una riduzione del controllo democratico e quindi in un'ulteriore "professionalizzazione" della politica. Ora il Patto europeo è anche fra cittadini e soprattutto riguarda direttamente la cittadinanza. L'Unione Europea non è più una delega di sovranità statale, ma una dimensione diversa di espressione della sovranità popolare. Questo non solo riduce il rischio di impoverimento della sovranità dei cittadini, ma ne è addirittura un rafforzamento perché noi europei ora disponiamo di uno strumento democratico competitivo con le forze economiche e politiche del mercato globale. Ci siamo cioè attrezzati per vivere da persone nella globalizzazione. Il risultato dipenderà dalla partecipazione di ciascuno.

5 gennaio 2005


5 gennaio 2005
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