TINO BEDIN

Lettera dal Senato. 85 / 6 giugno 2004
L'annuncio agli italiani, preceduto dal discorso il Senato

La "svolta" italiana in Iraq:
Berlusconi ripete Bush
Manda i militari ad esportare la democrazia e agli iracheni chiede di riconoscere la "guerra preventiva"

di Tino Bedin

Cari amici, la conferenza stampa di Berlusconi a conclusione della visita di Bush a Roma ha reso evidente agli italiani la "svolta" che la Destra italiana ha compiuto nella gestione della presenza militare in Iraq. Berlusconi ha annunciato agli italiani che le nostre truppe resteranno in Iraq fino allo stabilimento della democrazia. Cambia molto, se non tutto per i nostri militari e per la gestione della crisi. Spero che attorno a questo cambiamento ci sia finalmente attenzione e dibattito, visto che finora non c'è stato.
Il quadro della presenza militare italiana in Iraq è infatti profondamente mutato già a partire dal 20 maggio. Da due settimane la cornice politica sia della situazione presente che della situazione immaginata per il futuro non è più quella all'interno della quale la Destra ha inviato i nostri soldati nell'operazione Antica Babilonia.
All'inizio c'era l'operazione umanitaria: tremila militari per far da scorta agli aiuti e alla Croce Rossa. Osservammo che erano troppi, ma non fummo ascoltati e comunque così fu presentata agli italiani.
All'inizio fu la distinzione proclamata nei confronti della guerra preventiva, pur con tutte le giustificazioni per gli Stati Uniti. Così l'operazione Antica Babilonia si giustificava perché la guerra era finita e servivano pacificatori.
Oggi il contingente italiano ha invece la stessa finalità degli altri contingenti impegnati in Iraq. Oggi il governo italiano riconosce la pratica della guerra preventiva.
I due passaggi sono contenuti nel discorso di Berlusconi al Senato il 20 maggio. Discorso che ha assunto in conclusione il valore di un mandato parlamentare, perché la mozione della maggioranza lo ha fatto proprio come indirizzo. Più presa a misurare i piccoli distinguo all'interno del centrosinistra o a valutare l'angolo della "svolta" in corso, l'informazione non ha sufficientemente analizzato queste due svolte all'incontrario rispetto al voto parlamentare precedente.

Esportatori di democrazia. La democrazia tipo-esportazione è in cima ai pensieri del presidente degli Stati Uniti Bush e diventa, con il discorso di Berlusconi del 20 maggio in Senato, ufficialmente la finalità della missione militare italiana. Dismesso l'aiuto umanitario, il governo di Destra non affida più ai nostri militari il compito di portare agli iracheni salute, sicurezza e sviluppo, ma la democrazia occidentale.
Ecco alcuni passaggi del discorso del presidente del Consiglio: "Abbiamo agito ogni giorno nella convinzione - a cui restiamo fedeli - che il principio dell'autogoverno, sancito dalla Carta dell'ONU, si fondi sull'effettiva possibilità che ogni popolo sia libero di scegliere il proprio Governo attraverso il metodo della democrazia. La coalizione internazionale che ha abbattuto il regime dispotico di Saddam Hussein ha agito per rendere praticabile quel principio. I Governi degli Stati Uniti, del Regno Unito, del Giappone e degli altri Stati membri della coalizione stanno onorando con i fatti l'impegno preso con il loro ruolo di membri delle Nazioni Unite ed il Governo italiano ritiene che il nostro dovere e il nostro onore sia restare fino in fondo dalla parte di chi, assumendosi sacrifici e rischi, difende i princìpi della Carta dell'ONU. Arretrare oggi significherebbe rinunziare a quei princìpi e lasciar credere che i diritti dell'uomo possano essere calpestati impunemente".
Si resta in Iraq invocando gli iracheni. Ma il "Financial Time" ha pubblicato una inchiesta dalla quale emerge che mentre a ottobre solo il 20 per cento degli iracheni chiedeva il ritiro delle forze di occupazione, ai primi di maggio, prima che fossero diffuse le notizie delle torture, a chiedere il ritiro era più del 50 per cento. Oggi saranno molti di più e non sono certo tutti terroristi.

Avvallo della guerra preventiva. Si resta in Iraq invocando l'Onu. Ma stare con l'Onu non è aderire alla teoria della democrazia tipo-esportazione. Stare con l'Onu significa per il governo italiano ritornare alla posizione che (di malavoglia ma inevitabilmente, per fortuna dell'Italia) esso dovuto tenere nella fase iniziale del conflitto: quella della non partecipazione alla guerra.
Oggi c'è bisogno di un passo indietro degli americani; di un governo iracheno effettivamente sovrano; della sostituzione delle attuali truppe di occupazione con una forza militare di pace Onu; del passaggio alle Nazioni Unite della guida sia politica che militare in Iraq. Fino ad ora questo non c'è.
Questo cambiamento non però è nei piani dell'Amministrazione Bush; non nemmeno nei piani del governo italiano.
Un'Amministrazione, quella americana, che vorrebbe al massimo fare come un Afghanistan: tenersi il controllo del territorio e limitare il ruolo di una forza multinazionale a guida Onu alla sola salvaguardia dell'Onu stessa. Caschi blu carabinieri di se stessi.
Ecco come parla al Senato il 20 maggio il presidente del Consiglio italiano: "Il Governo italiano, quello degli Stati Uniti, tutti i Governi della coalizione sono certi che dopo il 30 giugno il Governo iracheno di transizione farà proprie le ragioni di principio che hanno guidato la coalizione sia nella sua fase militare (alla quale l'Italia non ha partecipato), sia nella successiva fase di stabilizzazione e di avvio della ricostruzione e chiederà alla forza multinazionale, che sarà allora messa in campo grazie all'ONU, di portare a termine il suo lavoro".
Il nuovo governo iracheno dovrebbe come primo atto riconoscere la liceità dell'invasione e dell'occupazione. Questo dice Berlusconi, appena rientrato dall'incontro con Bush. Questo desidera il governo americano: avere l'avvallo della guerra preventiva da chi l'ha subita, come dichiarazione ufficiale di resa.
Berlusconi durante la conferenza stampa si è lodato, attribuendo a se stesso il presunto cambiamento di linea di Bush. La verità è opposta: è Berlusconi che ripete le parole di Bush. Basta leggere la proposta americana alle Nazioni Unite.

I limiti della proposta di risoluzione degli Stati Uniti. La risoluzione anglo-americana è incardinata essenzialmente su due punti: riconferma del controllo politico militare da parte delle truppe di occupazione; richiesta all'Onu di assistere il nuovo governo iracheno nella preparazione delle elezioni del 2005. Ma non affida alle Nazioni Unite alcuna altra responsabilità.
Al tempo stesso - secondo gli anglo-americani - il Consiglio di Sicurezza dovrebbe confermare la presenza di "truppe multinazionali", soprattutto americane, sotto un "comando unificato", anche questo in pratica americano. Questa forza internazionale dovrebbe avere l'autorità di usare tutti i mezzi necessari per mantenere la sicurezza e la stabilità in Iraq, compresa la prevenzione del terrorismo. Il mandato di questa forza dovrebbe essere rivisto dopo 12 mesi o su richiesta del governo iracheno ad interim.
All'atto pratico questa risoluzione anglo-americana pretende la legittimazione e la perpetuazione dell'occupazione del paese. Molti governi, a cominciare da quelli che non hanno voluto partecipare alla guerra, hanno sollevato obiezioni.
Un documento presentato il 27 maggio dai cinesi, con il sostegno di Russia, Francia e Germania, propone cambiamenti sostanziali alla proposta anglo-americana. Ad esempio, si propone che al governo da insediare il 30 giugno si debba conferire "la piena sovranità su questioni politiche, economiche, di sicurezza, giustizia e diplomazia". Inoltre si propone che il mandato per una forza militare multilaterale in Iraq termini entro il gennaio 2005, quando cioè si dovrebbero tenere le elezioni, e che il governo provvisorio sia consultato per le operazioni militari, fatta eccezione solo per le misure di autodifesa.

Poco attento alla sicurezza. Mentre accampa presunti meriti diplomatici ed è ben attento a negare il nostro coinvolgimento nella guerra, il governo ha fatto inviare carri armati e blindati a Nassirija. Non rappresenta questo fatto una escalation della presenza italiana nel teatro di guerra? Perché gli armamenti necessari non sono stati mandati prima? Era necessario che morisse il giovane Vanzan? Non l'hanno fatto prima perché non volevano riconoscere che c'era una guerra in corso. Ma è possibile che per ragioni politiche si possa mettere a rischio la vita dei militari italiani?
Sembra quasi che si vogliano nascondere le cattive notizie... Questo crea difficoltà e tragedie per gli italiani.
Non si sono messi in guardia gli italiani in Iraq. Ora di fronte all'assassinio del cuoco italiano in Arabia Saudita, non sono si è registrato un ritardo nelle informazioni fornite dal governo, ma soprattutto il governo italiano non spiega perché non ritenga opportuno invitare gli altri italiani presenti in Arabia Saudita a ritornare in patria così come ha fatto l'amministrazione americana per i cittadini di quel paese.
Un governo che vuole dire la verità deve assumere iniziative precise per tutelare la vita dei civili che si trovano in zone di conflitto o a rischio di terrorismo.
Il presidente del Consiglio è invece venuto in Parlamento a chiedere che siano gli italiani a fare una svolta rispetto alla loro scelta plebiscitaria per soluzioni pacifiche e rispetto alla Costituzione. La stragrande maggioranza degli italiani non è disponibile a questo avvallo a posteriori del tragico errore della guerra e delle colpevoli omissioni del governo italiano.
Ecco i risultati della più recente inchiesta pubblicati proprio questa settimana, l'1 giugno, da Renato Mannheimer sul "Corriere della sera". «Gli oppositori alla permanenza dei soldati rimangono la maggioranza. E ancor più sono quanti ritengono oggi che l'azione bellica contro l'Iraq sia stata un errore (più del 70%, una parte consistente dei quali è però oggi favorevole alla presenza delle truppe). L'orgoglio di essere italiani - annota ancora Mannheimer - è assai diffuso. La fiducia verso le forze armate si è accresciuta. E, in generale, il sentimento di italianità è presente con intensità medio-alta in tutti gli strati sociali. Al tempo stesso, molti italiani, anche a seguito della guerra in Iraq, si professano, per così dire, "pacifisti". Nella gran parte dei casi, non viene percepita una incompatibilità tra "italianità" e "pacifismo": spesso chi si sente "italiano" si dichiara al tempo stesso "pacifista" e viceversa».
È questa una delle anime dell'Italia che la Destra non riesce ad interpretare e a trasformare in scelte di governo.

Tino Bedin

Padova, 6 giugno 2004


6 giugno 2004
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