Cari cittadini,
il ritiro del contingente italiano dall'Iraq va deciso subito ed attuato secondo le procedure di sicurezza dei nostri militari. È l'unica scelta che l'Italia ha per contribuire a portare la stabilità in quel paese. È l'unica scelta che le nostre Forze armate hanno diritto di chiedere al loro governo per continuare ad esercitare nel mondo il ruolo per cui sono addestrate: essere strumento di pacificazione, di equilibrio, di sicurezza.
È una scelta che l'Italia deve fare in autonomia. Il "precedente spagnolo" ha certamente il suo peso, specialmente in vista di un'azione comune europea. Ma l'Italia ha in sé sufficienti ragioni per una scelta politico-militare, che non è un "ritiro" dalle difficoltà, ma la premessa per un impegno nuovo.
Il vero interesse di americani, iracheni ed italiani. La maggioranza dell'opinione pubblica americana si è ormai convinta che la strada intrapresa con la guerra all'Iraq porta al baratro. Di questa realtà non deve essere convinta l'opinione pubblica europea ed italiana: milioni di cittadini italiani ed europei hanno proclamato la loro contrarietà ad azioni militari ancor prima che la guerra fosse dichiarata. In ogni caso, se si vuole essere davvero "alleati dell'America" occorre prendere atto che sono proprio gli americani che ritengono ingiustificata la guerra.
Anche avere a cuore i veri interessi degli iracheni comporta il ritiro italiano. La presenza di una forza di occupazione non crea pacificazione in Iraq. Al contrario, lo scontro si sta estendendo ed imbarbarendo, per cui ogni giorno in più di presenza straniera allarga il solco tra Occidente e popolazione irachena e crea motivi di contrasto fra gli iracheni stessi. È l'occupazione militare straniera che sta destabilizzando l'Iraq, in quanto ha tolto legittimità ad ogni struttura dello stato iracheno e sposta lo scontro dal piano politico a quello militare.
Nemmeno gli interessi dei cittadini italiani sono salvaguardati dalla presenza militare italiana in Iraq. L'occupazione dell'Iraq non ha bloccato il terrorismo. Contrariamente a quanto avveniva in Afghanistan, che effettivamente costituiva la base logistica di strutture terroristiche, l'Iraq non alimentava il terrorismo. Dopo l'occupazione angloamericana l'intero territorio iracheno, privo di un effettivo controllo di sicurezza, è a disposizione del terrorismo internazionale, sia per azioni dirette che come base per incursioni nel resto del mondo.
In queste condizioni è venuta meno per tutte le imprese, a parte quelle legate all'economia di guerra direttamente gestite dai più stretti collaboratori del presidente americano Bush, l'opportunità di partecipare ad un grande e promettente mercato. Al di là delle conseguenze economiche per anche per l'Italia, annoto che questa condizione impedisce agli iracheni di usufruire di una "compensazione" economica rispetto alla riduzione della sovranità nazionale.
Irresponsabilità della Destra. In questa condizione è del tutto irresponsabile la dichiarazione più volte fatta dal presidente del Consiglio sulla permanenza in Iraq delle nostre truppe anche dopo il 30 giugno, data di un possibile passaggio di poteri dall'amministrazione americana ad un governo iracheno.
Questa dichiarazione unilaterale di Berlusconi, senza consultare il Parlamento, non solo mette ulteriormente a rischio la vita degli ostaggi, proditoriamente tenuti prigionieri da forze irregolari, ma toglie all'Italia qualsiasi ruolo internazionale sia nei confronti degli Stati Uniti che nella ricerca di una posizione comune europea. La subalternità non può essere più evidente: Berlusconi evidentemente ha già ricevuto da Bush "l'ordine" di restare e lo anticipa all'opinione pubblica come se fosse una decisione dell'Italia. Era già successo prima della missione in Iraq: molti mesi prima del voto in Parlamento italiano gli americani ci avevano chiesto di inviare i nostri carabinieri. Cosa che la Destra italiana ha puntualmente votato.
La missione militare italiana è illegale. Se invece il governo di Destra vuole raggiungere gli obiettivi per cui ha inviato i militari italiani in Iraq, deve ora ritirarli. Il ritiro non è motivato dal fatto che i nostri militari non siano stati capaci di raggiungere quegli obiettivi, ma semplicemente perché l'esperienza ha dimostrato che quegli obiettivi non erano raggiungibili partecipando alla coalizione degli occupanti, come fin dall'inizio avevano avvertito quanti, come me, hanno votato sempre contro ogni ipotesi di presenza italiana in Iraq. Ritirare il contingente italiano non significa sconfessare le nostre Forze armate, ma prendere atto che essi non possono svolgere quella missione di pace che la maggioranza parlamentare ha loro affidata.
Poiché è cambiata la sua natura, la missione italiana è ora illegale, perché non ha nessun mandato parlamentare. Il "teatro" è oggi di una guerra vera e propria, con bombardamenti americani sulle città. Non è questo il mandato parlamentare dato dal Parlamento al nostro contingente. Del resto, in base alla Costituzione, nessun mandato parlamentare può consentire ai nostri militari di partecipare ad una coalizione di guerra, la cui catena di comando per di più non è in Italia.
Una svolta radicale, non di parole. La decisione immediata e la successiva attuazione del ritiro del contingente italiano non riguarda solo l'Italia. Essa è la premessa per una svolta radicale in Iraq.
Questa svolta radicale deve tenere conto dell'insieme delle situazioni sul tappeto.
Sulla data, ad esempio, non è possibile costruire un autentico spartiacque. Davvero è immaginabile che il 30 giugno cambi qualcosa nel comando effettivo in Iraq? Proprio oggi, 25 aprile Marc Grosman, sottosegretario di Stato americano, ha dichiarato: "Fino al 31 gennaio 2005 rimangono in vigore le norme stabilite da Paul Bremer, il nuovo governo provvisorio non potrà emettere né leggi né decreti senza l'accordo del comando americano né avere il controllo della sicurezza". Questa dichiarazione al Congresso degli Stati Uniti è stata confermata dal segretario di Stato Colin Powell.
Anche sul ruolo dell'Onu occorre essere chiari. Non basta mettere il casco dell'Onu ai soldati che ci sono già. Non basta cambiare il nome della "Coalizione dei volonterosi" in "Forza multinazionale" per cambiare la situazione irachena. Bisogna che ci sia l'impegno di nuovi paesi. Il ritorno immediato del contingente italiano corrisponde anche a questa esigenza: esso favorisce l'avvicendamento con paesi che in nessun maniera hanno preso parte alle operazioni in Iraq e quindi possono sia rispondere direttamente alle Nazioni Unite, sia essere considerate dagli iracheni come forze a loro disposizione e non a disposizione degli americani.
L'effettivo trasferimento della guida militare all'Onu è condizione previa di una svolta vera in Iraq. E all'Onu deve essere data anche la gestione economica a cominciare dallo sfruttamento delle risorse petrolifere.
Riconciliare l'Italia. Tutto questo significa riconoscere gli errori della guerra. Anzi riconoscere che la guerra è un errore. Credo che molti italiani lo abbiano ricordato oggi 25 aprile non riferito ad altri, ma alla propria esperienza personale e familiare.
Il coraggio del governare passa anche attraverso questi gesti, specialmente quando riconoscere l'errore significa riconciliarsi con i propri cittadini. Significa riconciliare l'Italia con i cittadini che nel mondo hanno bisogno di pace e di sicurezza. L'Italia, grande potenza umanitaria, non potenza militare, ha un suo specifico compito da svolgere, con i nostri militari, con i nostri volontari, con la nostra diplomazia. Ritirare il contingente militare è la condizione per fare questa grande Italia.