TINO BEDIN

Lettera dal Senato. 79 /8 febbraio 2004
Mentre la maggioranza non ha voglia di parlare dei nostri soldati

Il coraggio di scegliere la pace per l'Iraq
Il "no" al decreto che proroga l'intervento italiano è una spinta a ricominciare: con gli iracheni, con le Nazioni Unite, a fianco dell'America che vota contro la guerra

di Tino Bedin

Cari amici, ho votato "no" alla proroga dell'intervento militare italiano in Iraq. Il mio voto contrario è arrivato dopo che per tre ore e mezza (dalle 21 a mezzanotte e mezza di una sola seduta) nelle commissioni Esteri e Difesa del Senato maggioranza e governo avevano votato contro, senza discussione e senza motivazione, a tutti gli emendamenti migliorativi al decreto sulle missioni internazionali che avevo presentati. Stessa sorte era toccata a tutti gli emendamenti proposti dalle opposizioni.
Non c'era in discussione neppure un emendamento di senatori della maggioranza: tutto perfetto in Iraq, tutto uguale a sei mesi fa, nessun dubbio. La strage di Nassiriya è come non ci fosse stata. Il sacrificio dei militari italiani caduti e delle loro famiglie è citato per tuonare che non si può indietreggiare; viene anche utilizzato per zittire chi, come me, propone di cambiare la natura della nostra missione, per evitare che i militari italiani finiscano per essere confusi con gli occupanti e patiscano da questo giudizio altre conseguenze.

I militari schierati contro l'opposizione. La maggioranza non ha voglia di parlare dei nostri militari, perché accettare la discussione significherebbe farsi venire qualche dubbio sulla scelta di partecipare all'intervento unilaterale in Iraq, interrogarsi sulle ragioni della nostra presenza attuale, fare quello che persino gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno facendo: promuovere un'inchiesta sulle informazioni fasulle, ora che tutti ammettono che l'Iraq non aveva armi di distruzione di massa. Significherebbe andarsi a rileggere le sicurezze esposte in Parlamento da Berlusconi, da Frattini, da Martino a proposito di Saddam Hussein e chiedere loro chi li ha imbeccati.
Per i senatori della maggioranza meglio stare zitti e votare contro ogni cambiamento, contro ogni aggiornamento della missione; e votare il più presto possibile, di notte. Da parte sua il governo ha costruito per i parlamentari della sua maggioranza una trincea a difesa della quale non ha schierato né il ministro degli Esteri né quello della Difesa: ha schierato i militari italiani. Contraddicendo il comportamento tenuto sei mesi fa, il governo ha messo in un unico decreto sia l'intervento in Iraq che le altre numerose missioni internazionali. La finalità è fin troppo chiara: tutti i circa novemila militari italiani impiegati all'estero devono "difendere" la decisione del governo si stare in Iraq; votare contro il decreto significherebbe votare contro anche agli interventi in Kosovo o in Palestina. L'opposizione, pensano gli strateghi del governo, dovrà difendersi; magari battaglierà tra sé e non con la maggioranza.
Non è però una trincea sicura. Apre nuovi varchi alle "munizioni" di chi - come me - sei mesi fa ha votato "no" all'intervento. Votare contro il decreto significa tra l'altro votare contro un governo che utilizza persone generose quali sono i militari italiani all'estero non per dare una mano a popolazioni in difficoltà, ma per creare difficoltà alle opposizioni. Ho votato "no" al decreto per rispetto di tutti i nostri militari.

Un comando Onu per i nostri soldati. Al rispetto della "specializzazione in missione di pace" dei militari italiani erano del resto ispirati gli emendamenti da me presentati e che ripresentiamo per il dibattito nell'Aula del Senato.
Non ve li descrivo uno per uno. Hanno però due obiettivi: interrompere il legame tra l'Italia e le forze di occupazione; rilanciare concretamente il ruolo delle Nazioni Unite. C'è chi ci invita a prendere atto che i nostri militari "ormai" sono in Iraq. C'è chi mette in risalto la condizione della popolazione irachena in assenza di un potere efficace. C'è chi continua a dire che non bisogna lasciare soli gli americani (e non sai mai se lo dicano perché amano gli Usa o perché li temono). Credo che il bene dell'Italia, il bene dell'Iraq, il bene degli Usa si raggiungano con meno difficoltà e meno tragedie se si ricomincia da capo, in molti, insieme con gli iracheni. Per ricominciare una strada insieme, bisogna dichiarare che quella che si è intrapresa in maniera solitaria ed avventurosa è finita. È finito anche l'intervento italiano. Si vota "no" alla proroga. Si riparte.
Con un emendamento ho proposto che si stabilisca fin da subito e per legge che il contingente italiano è immediatamente a disposizione della Nazioni Unite; è stato bocciato, eppure significava: non abbandonare gli iracheni, spingere l'Onu a ritornare, garantire un nuovo status politico ai nostri militari. Ecco una strada concreta che abbiamo indicato per ripartire in molti, con gli iracheni.

In Afghanistan solo con l'Alleanza Atlantica. La necessità di ricondurre tutti i nostri soldati all'interno di missioni che abbiano un comando multilaterale non tocca solo il contingente in Iraq. Il governo con il decreto in discussione continua a tenere in vita anche la nostra partecipazione a "Libertà duratura", la missione in Afghanistan a guida americana. Attualmente i nostri militari sono presenti in Afghanistan anche con una missione guidata dall'Alleanza Atlantica. Abbiamo proposto di metterli tutti in quest'ultima missione. Non ci hanno dato retta. Anzi il decreto continua ad applicare ai militari in Afghanistan il codice penale militare di guerra, mentre lì c'è un governo legittimato da un'assemblea rappresentativa che ha tutto il diritto di essere rispettato come governo sovrano. Anche questo articolo del decreto merita un "no". E non contro il nostro impegno in Afghanistan, non contro la presenza dei nostri soldati: contro le condizioni in cui il governo mette i nostri soldati.
L'opposizione al decreto significa, nel caso dell'Afghanistan, sostegno all'Alleanza Atlantica. E rafforzare da parte italiana il ruolo della Nato in Afghanistan potrebbe rappresentare la proposta italiana anche per la fase transitoria in Iraq.

E se ad andar via dall'Iraq fossero gli americani? Il decreto proroga la presenza italiana fino al 30 giugno: con questa data lancia il messaggio che per allora il calendario immaginato dagli Stati Uniti, che prevede il passaggio di poteri agli iracheni, possa essere rispettato. Così ragionevolmente non sarà, perché la presenza di una forza di occupazione rende tragicamente difficile organizzare un minimo di transizione democratica. Non ci saranno infatti molto presto elezioni vere in Iraq. Non c'è neppure l'anagrafe: come si fa a fare le liste?
E a luglio ci ritroveremo in Parlamento un nuovo decreto di proroga.
A meno che molto prima del termine previsto da Berlusconi, Frattini e Martino, il presidente degli Stati Uniti non decida di... schierare i militari americani contro i democratici (copiando, in grande, Berlusconi); li richiami cioè a casa, dichiari che la missione è compiuta, assicuri il mondo che gli iracheni possono farcela benissimo da soli, anche senza votare. Importante è che votino gli americani e che votino per Bush, non per Kerry che la guerra l'ha vissuta in prima persona e quindi cerca di evitarla ai suoi concittadini.
Io voto "no" anche perché partecipo alla campagna elettorale di John Kerry.
Quest'ultima ragione non l'ho messa nella mia dichiarazione di voto contraria, sia perché ormai era mezzanotte e mezza e la maggioranza, silenziosa sui militari, rumoreggiava sull'opposizione, sia perché quella di stare con John Kerry è una scelta mia, personale. A voi lo dico, perché molti tra noi desiderano "stare con gli americani", con i valori della Costituzione americana, nella quale non c'è la "democrazia da esportazione". Molti tra noi, ormai tanto tempo fa, hanno cominciato pensato alla loro comunità "convinti" da JFK che ci sia sempre "una nuova frontiera".

Tino Bedin

Padova, 8 febbraio 2004


14 febbraio 2004
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