"Europa dell'educazione: libertà dell'insegnamento e di scelte educative" è stato il tema di un convegno nazionale organizzato a Padova da Fidae (scuole cattoliche) e Agesc (genitori cattolici). La riflessione si è svolta sabato 24 maggio al tero Verdi di Padova. Vi hanno partcipato esponenti scolastici ed istituzionali, orientati nella loro proposta dalle introduzioni di Antonio Chiefari, presidente dell'Agesc, e don Giancarlo Battistuzzi, rettore dell'istituto Barbarigo di Padova. Una sessione del convegno è stata dedicata anche alle esperienze dirette europee con voci da Belgio, Francia, Grecia, Spagna e Irlanda. Nel dibattito sui contenuti nazionali è intervenuto tra gli altri il senatore Tino Bedin, parlamentare padovano esperto di questioni europee.
intervento di Tino Bedin senatore
Ringrazio del coinvolgimento in questa comune ricerca di come vivere, in libertà ed in Europa, l'insegnamento e l'educazione.
Il presidente Antonio Chiefari e il rettore del Barbarigo don Giancarlo Battistuzzi hanno bene riassunto le esigenze della scuola cristianamente ispirata; hanno anche indicato gli impegni per le persone, come me, impegnate nelle istituzioni repubblicane. Condivido le esigenze, accetto gli impegni nella consapevolezza - del resto emersa in molti degli interventi - che rispondere alle esigenze e onorare gli impegni è oggi più agevole dopo la serie di riforme che sono state adottate nella scorsa legislatura: mi riferisco alla legge di parità (che fonda giuridicamente il sistema nazionale di istruzione), alla legge sull'autonomia delle istituzioni scolastiche, alla riforma del Titolo V della Costituzione con la costituzionalizzazione delle scuole.
Da parte sua mons. Bruno Stenco ha proposto alla comune riflessione una ulteriore dimensione della libertà: la libertà dell'insegnamento e delle scelte educative come libertà di umanizzare la cultura europea. È in particolare questa suggestione di mons. Stenco che approfondirò.
Ho due motivi per un mio particolare interesse a questa ricerca.
Ritengo quella europea la dimensione più adeguata a molta parte della vita e particolarmente delle speranze dei padovani e dei veneti, che più direttamente rappresento in Parlamento. È il primo motivo. Non si tratta solo di diventare "più europei". Nella convinzione che molte delle cose che abbiamo costruite, che molti nostri comportamenti facciano bene non solo a noi, ma alle persone e alle famiglie che vivono la comune cittadinanza europea, almeno altrettanto impegno serve per mettere "più Italia" (nel mio caso "più Veneto", "più Padova") in Europa.
Il servizio pubblico delle scuole materne di comunità. Tra queste realtà positive da tenerci care non solo per noi, non solo in Veneto, ho sempre messo la scuola materna di comunità. È il secondo motivo del mio interesse diretto per questa giornata.
Ho raccontato di scuole materne da giornalista per molti anni sul mio settimanale diocesano. Da giornalista e ora da parlamentare ho conosciuto le suore e i parroci; ho provato ammirazione per insegnanti che impegnano in cattedra più della loro professionalità; ho condiviso la passione di genitori pronti ad investire in queste scuole molto di più di una retta mensile. Per questo ho seguito e seguo da parlamentare tutto quello che le istituzioni devono fare per realizzare la responsabilità educativa dei genitori e l'autonomia non solo organizzativa ma didattica delle comunità; con la responsabilità educativa e con l'autonomia didattica si favorisce infatti la concretezza di una libertà non individuale, ma comunitaria.
Non che gli altri gradi scuola non meritino attenzione e impegno. Ne dirò fra poco, in particolare di un settore.
Ma le scuole materne di comunità hanno una caratteristica speciale nella nostra regione: sono la gran parte delle scuole materne. Esse svolgono cioè un servizio pubblico generale. Lo fanno fin dall'inizio: non tanto per supplenza, non solo perché sia mancato o manchi lo Stato, ma perché le comunità locali hanno sentito di doversi preoccupare direttamente dei figli a quell'età; hanno sentito di potersi organizzare da sole. Queste scuole sono una delle espressioni della cittadinanza della formazione. "Tutti in classe" è da sempre il fine e lo stile del loro servizio.
È un punto che mi permetto di proporre alla comune ricerca.
Il sistema pubblico integrato di formazione si è già realizzato nei fatti e si sta realizzando di diritto in questo settore della scuola italiana proprio per la caratteristica delle scuole materne di comunità: il loro essere uno strumento della comune cittadinanza e non una semplice offerta in un mercato dell'educazione.
Davvero la concorrenza è un valore nell'educazione? La loro esperienza dimostra che la parità scolastica non può e non deve essere strumento né offrire pretesti per la privatizzazione della formazione dei bambini e dei ragazzi. Il sistema formativo di ispirazione cattolica in Italia è tutto tranne che privatistico.
Le scelte compiute dall'Ulivo con la parità scolastica danno valore comunitario a ciascuna delle offerte formative.
Sono scelte opposte a quelle che pure questa mattina abbiamo sentito proporre e che sono incentrate sulla concorrenza. Davvero nella formazione dei giovani la concorrenza è un valore? Davvero "mettere sul mercato" l'educazione sarà un vantaggio per i singoli cittadini e per la comunità nel suo insieme?
Nella scuola dell'infanzia si sono aperte in questi anni e sono destinate a svilupparsi nuove sfide. Vengono da iniziative a volte individuali a volte di piccoli gruppi di insegnanti privati che si propongono ai genitori come alternativa, certamente più costosa ma apparentemente più flessibile, per una "custodia" dei bambini. Più recentemente, in provincia di Padova, la sfida è proposta da aziende che si dichiarano pronte ad organizzare la scuola dell'infanzia in cambio della stabilità della manodopera femminile locale, in ciò utilizzando non le loro risorse, ma gli incentivi previsti dalla legge finanziaria statale.
Le une e le altre sono iniziative che nascono e si sviluppano come risposta ad una esigenza di organizzazione di vita familiare prima che educativa. Rispondono alla situazione di lavoro di entrambi i genitori, prima che alla formazione dei bambini.
Si tratta di iniziative che interrogano le istituzioni repubblicane, ma che interrogano anche le scuole paritarie. Ad esempio dobbiamo chiederci se le domande che escono dalla riflessione delle vostre associazioni siano direttamente applicabili a queste iniziative; se si possa parlare di libertà di insegnamento, se siano portatrici di una scelta educativa. Detto più direttamente: queste "scuole di mercato" devono essere messe in condizione di "fare concorrenza" alle scuole del sistema pubblico integrato, che hanno invece altre finalità?
Il tempo pieno non è un privilegio. Collegando questa domanda alle condizioni di vita delle famiglie, faccio una solo apparente digressione.
Riflettendo sulla libertà di insegnamento e di scelte educative, come state facendo voi non solo in questo convegno, credo poi che non si possa eludere il tema della scuola a tempo pieno. So che è un tema dibattuto, in particolare tra i genitori e nelle comunità. So anche che è però un tema del nostro tempo, della vita quotidiana: su di esso la scuola paritaria e le altre scuole del sistema pubblico integrato sono chiamate non a farsi concorrenza ma a pretendere paritariamente che il tempo pieno non sia pagato dalle famiglie come un privilegio, ma sia organizzato come uno strumento di cittadinanza e quindi con le risorse di tutti.
Faccio solo un esempio. Dal punto di una comunità educante nella scuola a tempo pieno si affronta insieme un problema che tutti conosciamo: i compiti a casa, che rappresentano un potente fattore di diversità tra i ragazzi. Il tempo pieno serve anche a far lavorare insieme i bambini nel pomeriggio, garantendo a tutti le medesime opportunità di capire allo stesso modo.
Se c'è dunque un'area essenziale alla quale destinare finanziamenti (attraverso l'autonomia degli istituti, che possono garantire l'adeguamento più pertinente alle situazioni che i docenti si trovano davanti), questa è la scuola a tempo pieno. Ed anche solo se servirà a risolvere i problemi pratici delle famiglie giovani (come quello di chi per andare a prendere il figlio a mezzogiorno e mezzo deve assentarsi dal posto di lavoro), questo sforzo economico pubblico va fatto per non condannare la donna ad arrangiarsi o a non lavorare.
Insieme - comunità e istituzioni repubblicane - sono chiamate a rispondere a questa esigenza esistenziale dei genitori, non per paura della concorrenza, ma per affermare appunto i valori di libertà di insegnamento e di scelta educativa.
So che condividete questa impostazione. Il 12 marzo scorso, commentando l'approvazione della delega scolastica, la presidenza nazionale della Fidae ha ribadito che considera "la piena parità scolastica un contributo a migliorare il sistema scolastico complessivo, stabilendo tra le varie scuole un confronto ed una collaborazione per offrire agli studenti, alle comunità familiari e sociali un servizio di qualità".
Uno strumento del bene comune europeo. La libertà educativa e di insegnamento passa oggi attraverso una serie di scelte che l'intera comunità deve fare a favore di un diritto soggettivo, dal quale scaturisce un diritto della società nel suo insieme.
Dal 2001 ha una base costituzionale più solida anche se non specifica. Nel nuovo Titolo V l'autonomia delle istituzioni scolastiche è entrata per la prima volta nella Costituzione. La scuola, tutta la scuola, è un soggetto costituzionalmente protetto, autonomo tra stato, regioni, province e comuni. L'organizzazione scolastica, il progetto educativo, i percorsi scolastici appartengono alle istituzioni scolastiche. Qui è la Repubblica. Qui è l'articolo 33 della Costituzione che sancisce la libertà individuale e collegiale dei docenti. Qui sono gli articoli 30 e 31 che tutelano i diritti e indicano i doveri delle famiglie.
Bisogna che questa base costituzionale non sia intaccata, sia perché fonda diritti e prospettive in Italia, sia perché è un buon contributo che anche in questo settore finalmente possiamo dare all'Europa.
Il sistema formativo è infatti considerato uno strumento per realizzare il bene comune anche dall'Europa.
Molto è cambiato nei vent'anni di Europa con cui Fidae ed Agesc si confrontano in questa giornata.
Vent'anni fa, l'Europa a cui la scuola di ispirazione cristiana guardava era soprattutto una comunità di Stati e di Popoli che per la maggior parte avevano - ed hanno - legislazioni più vicine alla aspettative dei genitori e degli insegnanti che voi rappresentate. L'Europa era importante come riferimento e come esempio.
Oggi l'Europa è ancora questo, ma anche nel settore della formazione è qualcosa di più di allora. Oggi c'è l'Europa della conoscenza. Oggi non sono solo i singoli stati dell'Unione a fare da riferimento: è l'Unione europea un motore della formazione dei suoi cittadini.
Tre anni fa a Lisbona i capi di stato e di governo hanno previsto che per l'intera Europa si dovesse definire l'obiettivo della società basata sulla conoscenza competitiva e dinamica, in grado di realizzare uno sviluppo sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e con maggiore coesione sociale. Si è definita a Lisbona una strategia globale che, per quanto riguarda istruzione e formazione, ritiene indispensabile: un sostanziale aumento annuale degli investimenti in risorse umane; il dimezzamento entro il 2010 del numero dei giovani tra i diciotto e i ventiquattro anni che hanno assolto solo il livello più basso degli studi secondari (quindi un innalzamento, non un abbassamento della scuola di base); l'istituzione di partenariati tra scuola, istituti di formazione, imprese e centri di ricerca, per apprendimenti polifunzionali (quindi, non per binari separati, ma, appunto, per apprendimenti polifunzionali); la priorità all'apprendimento lungo tutto l'arco della vita; l'integrazione della promozione dell'inclusione nelle politiche scolastiche.
Silenzio sul pluralismo nella delega scolastica. A me pare che per le famiglie italiane sia desiderabile una scuola che risponda a queste finalità. I progetti nazionali - quelli del governo e quelli delle opposizioni - devono essere misurati rispetto a queste finalità. Sono finalità non private, non mirano al successo individuale, ma alla crescita della società europea.
Sono dunque finalità pubbliche e le scelte politiche nazionali si misurano e si misureranno anche nella capacità di far partecipare più soggetti a questi obiettivi.
Sono finalità che in parte sono per ora solo enunciate anche nella recente legge delega approvata dalla maggioranza del Parlamento sulla organizzazione della scuola italiana. Esse sono riassunte nell'articolo 1, che di fatto segnala anche gli strumenti attraverso i quali raggiungerle. Strumenti che esigono risorse finanziarie. È singolare che in questo articolo programmatico non si faccia cenno alla partecipazione del sistema formativo non-statale. Sottolineo la lacuna senza intento polemico, ma solo per evitare il rischio che questo silenzio continui nella stesura dei decreti delegati, nei quali saranno indicati gli aspetti economico-finanziari dei vari punti della delega.
Bisognava ricordare nella legge, occorrerà non dimenticare nei decreti che la delega agirà in un periodo in cui, come previsto dal comma 7 della legge 62/2000, a chiusura del triennio sperimentale di applicazione di questa prima legge di parità, dovranno essere adottate tutte le azioni necessarie al completamento della parità scolastica in Italia.
Non lo si è fatto. Eppure gli spunti non mancavano e non mancano proprio nella delega: penso alla formazione del personale e alla sua valorizzazione; alla spese contro la dispersione scolastica; all'apprendimento lungo tutto l'arco della vita.
L'originalità cattolica nella formazione professionale. Torno alla partecipazione della scuola di ispirazione cattolica all'Europa dell'educazione: essa passa attraverso la possibilità che ad essa sia offerta di entrare da protagonista pubblico nella Strategia di Lisbona anche sul piano dei contenuti.
Come ho fatto per la scuola materna, permettete un'altra suggestione. C'è infatti - relativamente all'apprendimento lungo tutto l'arco della vita - un altro settore della scuola di ispirazione cattolica che ha in Italia esperienze e capacità certamente uguali se non superiori alla scuola dipendente da istituzioni pubbliche: mi riferisco alla scuola professionale.
Essa ha realizzato, particolarmente nella seconda metà del secolo scorso, una scuola adeguata alla società, avendo in mente non la distinzione dei percorsi formativi, non la separazione o l'esclusione, ma il contrario: l'integrazione della maggior parte dei giovani italiani nel percorso di cambiamento che la democrazia italiana consentiva.
Anche qui - come nel caso della scuola materna - l'esperienza della formazione professionale di ispirazione cattolica può aiutare il sistema complessivo del servizio pubblico. Su questo settore infatti si è svolto uno dei più accesi confronti in Parlamento nel corso del dibattito sulla legge delega per la scuola. Il punto del contendere è stato il rischio di "separazione" - specie se anticipata nel tempo - tra esperienze formative, al punto che si determino delle esclusioni definitive.
L'ottica centrata sull'allievo (prima che sulla produttività) e la finalità dell'inclusione sociale, che caratterizzano la scuola cattolica di settore, sono le risorse attraverso le quali è possibile evitare questo rischio.
Naturalmente la scuola paritaria deve poter partecipare a pieno titolo a questo processo; all'intero processo. La pari dignità tra i due canali formativi dipenderà, ad esempio, dalla completezza del percorso della formazione professionale, che vada dalla qualifica al diploma professionale superiore; un percorso integrale, comprensivo del primo grado di istruzione secondaria.
Il nuovo campo della formazione continua. La partecipazione della scuola professionale paritaria all'intero percorso della formazione professionale è indispensabile anche per qualificare, umanizzandoli, i contenuti della formazione lungo tutto l'arco della vita: una delle nuove frontiere della cittadinanza attiva nella quali più che le istituzioni, più che le imprese è necessario che operi la comunità. Si tratta di un servizio potenzialmente molto ampio: all'inizio di questo mese, il 5 maggio, il Consiglio Educazione dell'Unione europea lo ha messo tra i cinque parametri in tema di formazione da raggiungere entro il 2010 un tasso messo di partecipazione alla formazione permanente del 12,5 per cento della popolazione in età lavorativa (tra i 25 e i 64 anni).
Questa formazione non può essere ridotta solo ad aggiornamento professionale. Essa deve essere lo strumento con il quale un numero crescente di cittadini sono protagonisti nella società della conoscenza; perché nella società della conoscenza i lavori sono cangianti e polifunzionali, difficili da padroneggiare con una specifica specializzazione da tempo fordista; perché nella società della conoscenza, tanta conoscenza è necessaria e tanta conoscenza cambia nel tempo.
Infine la formazione professionale è un campo di verifica e di cittadinanza anche per un altro dei passaggi che nel suo complesso la società italiana sta vivendo. Oggi la formazione professionale è, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, materia di esclusiva competenza delle Regioni. Ma l'istruzione professionale è stata finora gestita dallo Stato. Come integrare l'istruzione professionale statale con la formazione professionale regionale? È probabilmente il banco di prova più difficile per questo settore. La partecipazione di un sistema comunitario di formazione - quale è quello di ispirazione cattolica - potrà facilitare una soluzione che metta al primo posto la scuola rispetto alla rivendicazioni tra istituzioni repubblicane.
La prima verifica con i finanziamenti. Questa ampia alleanza dell'intero sistema pubblico di formazione (istituzioni repubblicane e istituzioni paritarie) è indispensabile in queste settimane e in questi mesi perché l'approvazione della legge delega sulla scuola ha lasciato aperto il problema del finanziamento.
Il governo ha novanta giorni di tempo dall'approvazione per predisporre il piano finanziario a sostegno della delega stessa. Questo piano dovrà quantificare il costo un termini di personale e di investimenti per ognuno dei decreti previsti dall'articolo 1 della legge. Li elenco: le nuove discipline, la riconversione dei docenti, la formazione in servizio ed iniziale del personale, lo sviluppo e la valorizzazione dell'autonomia scolastica, l'istituzione del servizio nazionale di valutazione del sistema, lo sviluppo e l'alfabetizzazione nelle nuove tecnologie informatiche, la valorizzazione della professionalità insegnante, l'autoaggiornamento dei docenti, l'orientamento contro la dispersione scolastica, lo sviluppo dell'istruzione e formazione tecnica superiore, la promozione dell'apprendimento lungo tutto l'arco della vita, la sicurezza degli edifici e l'edilizia scolastica. Si tratta di diversi miliardi di euro per la scuola e la formazione da trovare e spendere nei prossimi anni.
Come ho detto prima, sono soldi che devono essere destinati all'intero sistema pubblico di formazione. Mi auguriamo, ci auguriamo che il "silenzio" su questo punto all'articolo 1 sia l'implicita conferma della politica iniziata nella scorsa legislatura, a cui ora dare piena attuazione proprio attraverso la compartecipazione della scuola della società al progetto della riforma della scuola italiana.
Il cardinale Camillo Ruini proprio il 19 maggio scorso non ha mancato di sottolineare sia questo tema del finanziamento, sia quello da me già ricordato della formazione professionale. "Della più grande importanza - ha detto il presidente dei vescovi italiani - sono ora i decreti attuativi, per determinare in concreto i contenuti degli insegnamenti e gli sviluppi di tutta l'opera formativa. Contestualmente si richiede il massimo sforzo per assicurare alla riforma i finanziamenti indispensabili, con gradualità ma senza rinvii che finirebbero per paralizzarla. Altro obiettivo non rinunciabile è quello di garantire l'innalzamento del livello della formazione professionale, la cui competenza resta affidata alle Regioni".
Il richiamo del Cardinale Ruini non è solo una memoria per il futuro. Dieci giorni fa, il 14 maggio, il Consiglio nazionale della Scuola cattolica si è visto costretto a rendere "noto all'opinione pubblica che non è ulteriormente tollerabile la situazione di gravissima difficoltà connessa ai tagli alle voci di spesa già impegnate in base alla legge e al ritardo nelle erogazioni dei fondi previsti per le scuole non statali facenti parte del sistema nazionale dell'istruzione".
Un investimento nella società plurale. Lo so che in situazioni di difficoltà finanziarie non è facile resistere alla tentazione di tagliare o rimandare gli investimenti nella scuola per far fronte a problemi che sembrano più urgenti. Si tratta di un errore che l'Italia non può permettersi. Per raggiungere i nostri obiettivi dobbiamo mettere spendere nella scuola; dobbiamo offrire ai nostri cittadini una buona formazione permanente. È chiaro che se non cominciamo a investire nel futuro resteremo indietro.
Dentro questo futuro che è la nostra vita di europei, di italiani c'è una sfida che mi piacerebbe fosse colta dalle scuole della società, perché è nella nuova società italiana che questa sfida nasce. Nella scuola che invita "tutti in classe", ci sono alunni che non hanno le nostre tradizioni, la nostra etnia, quasi sempre non hanno la nostra religione; hanno e avranno sempre più la nostra cittadinanza. Nelle scuole materne di comunità questi bambini già crescono giocando con i nostri figli. È avvenuto spontaneamente, naturalmente. Forse l'intero sistema delle scuole della società potrebbe essere coinvolto in un progetto che considera l'accoglienza la premessa e non già il risultato. L'Europa ci aiuta proprio in un ambito che l'Italia può considerare prioritario per la sua collocazione. Mi riferisco alla cooperazione educativa euromediterranea , che la Commissione europea ha di recente rafforzato con alcuni strumenti (Euromed Giovani, Euromed Heritage e Tempus Meda). Anche in questo caso mettendo quel di più di comunità che il sistema formativo di ispirazione cattolica ha come caratteristica.
24 maggio 2003
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