Il virus Ebola è soprattutto una tragedia africana. Mentre i riflettori dell'informazione si sono progressivamente orientati sugli Stati Uniti e sulla Spagna (con digressioni sulla Germania e anche sull'Italia), è in Africa Occidentale che l'epidemia ha ucciso ed uccide persone a centinaia e che sta innescando effetti collaterali altrettanto e forse ancor più micidiali per la popolazione.
Intanto, oltre che paure, sull'altra sponda dell'Atlantico e del Mediterraneo il virus Ebola sta alimentando ricerche sia scientifiche sia profilattiche: è diventato di attualità, pur non essendo una novità. Ebola viene infatti da lontano: sia nello spazio che nel tempo.
Sono passati quasi quarant'anni da quando si è fatto tragicamente conoscere nella Repubblica Democratica del Congo: non aveva ancora un nome e così gli hanno dato il nome del fiume Ebola, lungo il quale ha provocato 280 morti. Ha continuano periodicamente a colpire il centro e l'ovest dell'Africa, sempre particolarmente micidiale nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche in Uganda.
In questi quarant'anni non sono stati messi a punto medicinali o vaccini di contrasto e prevenzione. Tra le incongruenze che l'attuale epidemia sta facendo diventare notizie, c'è che non esiste in Africa un centro di ricerca di alto livello specializzato in malattie tropicali. La dipendenza tecnologica e scientifica dall'Europa e dal Nord America è totale in questo settore. Neppure la Cina che nell'ultimo decennio è diventata il principale partner commerciale del continente africano ha ritenuto di investire nel settore della salute e della ricerca.
La ragione è che Ebola è micidiale soprattutto per i poveri. L'indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite è una lista di 187 paesi, che comincia con quelli più sviluppati. Partendo invece dal basso troviamo al 183° posto la Sierra Leone, al 179° la Guinea, al 175° la Liberia: Ebola è esploso in tre fra i paesi più poveri del mondo. Le case farmaceutiche non hanno quindi interesse ad investire nella ricerca. I ricercatori trovano più interesse (e soddisfazione) a dare risposte alla loro società di appartenenza piuttosto che alla società africana.
Una sanità pubblica globale. Serve un sistema di sanità pubblica globale che promuova la lotta alle malattie "trascurate" (ci sono anche la malaria e la tubercolosi). Serve, ma non c'è.
Lo vediamo in queste settimane. Nell'Africa occidentale teatro dell'attuale epidemia di Ebola l'Organizzazione Mondiale della Sanità non è riuscita a fare tutto quello che era necessario e nei tempi richiesti dall'emergenza. Ha fatto molto, ma non abbastanza e quando è in gioco la vita non basta fare "abbastanza". Nei rispettivi territori si sono mossi gli Stati occidentali e qualche vantaggio arriverà anche all'Africa. "Attualmente, l'Occidente accorda una grande attenzione a Ebola perché la malattia, attraverso la globalizzazione potrebbe arrivare anche da noi. E se tra due anni scoppiasse un nuovo virus, ci sarebbe di nuovo questa reazione di panico. Ma occorrerebbe occuparsi del problema in modo continuativo", ha commentato Marleen Temmerman, ginecologa, direttrice del dipartimento Salute riproduttiva e ricerca dell'Oms.
Giovanni Putoto, medico padovano, responsabile Programmazione di Medici con l'Africa Cuamm, guarda avanti: "Epidemie come questa sono la chiara dimostrazione che la salute globale non è uno sfizio accademico. Affrontarle con le comunità e le istituzioni locali, è un dovere morale e anche un atto di intelligenza perché questi problemi riguardano tutti noi".
Protezione sanitaria di base. La sfida più impegnativa e prioritaria non è comunque rappresentata dal virus Ebola e dalle epidemie: né per il presente, né per il futuro.
In questo momento l'epidemia di Ebola sta infatti non solo facendo vittime dirette ma procura danni gravissimi anche con le conseguenze indirette. L'esperienza sul posto di Giovanni Putoto in Sierra Leone basta per farsi un'idea della situazione generale.
"Le poche risorse esistenti sono assorbite dall'epidemia a scapito dei servizi sanitari di base. Nelle aree colpite dal contagio, e non solo, le campagne di vaccinazioni materno-infantili appaiono compromesse. Le madri si rifiutano di far vaccinare i bambini perché temono che siano avvelenati; le donne hanno paura di presentarsi agli ospedali e preferiscono partorire in casa non assistite; in molti casi, i bambini affetti dalle patologie più comuni come la malaria, la polmonite e la diarrea non vengono trattati. Una parte consistente del personale non si presenta in servizio; il sistema di approvvigionamenti di farmaci va in panne per mancanza di trasporti; il sistema informativo sanitario locale è paralizzato".
In queste condizioni è prevedibile che il numero di morti per parto o per malattie darà elevato: le statistiche non lo aggiungeranno alle cifre di Ebola, anche se ne sono la diretta conseguenza. Ed è corretto che non siano aggiunte: si tratta infatti di vittime di sistemi sanitari che non sono in grado ancora di gestire le situazioni normali e che quindi tracollano appena c'è un emergenza.
L'inadeguatezza del sistema è all'origine di uno dei tragici paradossi che l'epidemia di Ebola ha fatto scoprire: le prime vittime sono state (e sono destinare ad essere) proprio tra il personale sanitario, perché le procedure di salvaguardia e di isolamento non sono standardizzate e prima che la malattia sia riconosciuta gli operatori sanitari ne diventano vittime. Il tragico paradosso è che il sistema sanitario si indebolisce proprio nel momento del maggior bisogno.
Mentre si sta cercando di bloccare Ebola, la sfida vera è quella di garantire in Africa occidentale e altrove nel pianeta i servizi di base di protezione e promozione della salute. Questa è la vera prevenzione delle epidemie: delle morti che provocano e del panico che diffondono.
Senza contare che società sane sono anche più stabili. E in un tempo in cui si sta generando la terza guerra mondiale diffusa è anche questo un risultato che riguarda tutti, sulle due sponde del Mediterraneo, sulle due sponde dell'Atlantico.
5 ottobre 2014