SALUTE
La competenza professionale e la capacità affettiva in casa di riposo
Non aiuterà a guarire, ma aiuterà a vivere
Assistenza alla vita nella sua interezza, in modo che si viva la malattia e che si "viva" anche la morte

L'Istituto di Riposo per Anziani di Padova ha dedicato un convegno al tema "L'assistenza al paziente anziano tra etica ed accanimento terapeutico". Il convegno si è svolto sabato 17 novembre 2007 presso il Quartiere Residenziale dell'IRA in via Beato Pellegrino 192 a Padova. Hanno messo a confronto la loro esperienza e la loro professionalità: Renzo Pegoraro (Fondazione Lanza), Oreste Terranova (Chirurgia geriatrica), Fabio Tamellini (Divisione Geriatrica), Alessandro Predonzani (legale), Gian Antonio Dei Tos (Comitato di Bioetica Regione Veneto). Il convegno è stato coordinato da Renzo Zanon ed introdotto da Tino Bedin, presidente dell'IRA.
Pubblichiamo l'introduzione del senatore Bedin
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Introduzione di Tino Bedin presidente dell'Ira

Vecchiaia e malattia sono due fasi della vita che frequentemente coincidono. All'Istituto di Riposo per Anziani di Padova la sovrapposizione è ormai quasi totale, sia per la crescente età delle persone che vengono qui a risiedere, sia per i mutamenti organizzativi del sistema sanitario.
L'istituzionalizzazione degli anziani non è fenomeno generalizzato a Padova e in Veneto. Rappresenta una scelta obbligata nei casi in cui la persona molto vecchia, in fase avanzata di malattia, gravemente non autosufficiente, non può più essere seguita a casa dalla famiglia, dai servizi domiciliari, dall'accompagnatore personale. Sono questi gli anziani che vengono affidati all'IRA oggi e vi rimangono definitivamente.
Negli ultimi anni, poi, la riorganizzazione dell'assistenza ospedaliera, giustificata con la necessità di razionalizzare la spesa sanitaria attraverso l'introduzione del sistema di pagamento a prestazione, ha riservato all'ospedale il ruolo di fornitore di cure solo nella fase acuta della malattia.

Non trattare la vecchiaia come malattia terminale. Sempre più spesso, sempre più normalmente, quindi, l'IRA si trova a dover accompagnare persone per le quali la vecchiaia costituisce una fase della vita definita non più dagli anni che separano dalla nascita, ma dagli anni che approssimano alla morte.
Poiché non è una situazione specifica dell'IRA ma generale, cresce il rischio che la vecchiaia in sé, almeno da una certa età in poi, sia considerata (e trattata) come una malattia terminale. È un rischio che l'IRA vuole superare sia finalizzando la propria missione alla qualità della vita dei residenti, sia interrogandosi ed interrogando sulle capacità scientifiche ma anche sulla saggezza della Medicina.
Per quanto riguarda l'Istituto di riposo per anziani, la sfida è caratterizzare le nostre residenze in modo che siano sempre più dimore della vita nella sua interezza, in modo che vi si viva la malattia e anche la morte. Questo è possibile solo con le competenze professionali e con le capacità le affettive, emotive, spirituali di coloro che si prendono cura delle persone che vi risiedono. L'accompagnamento consapevole della vita nella sua interezza ha bisogno della partecipazione attiva e affettuosa di operatori sanitari, che si affiancano ai famigliari.

Rischio della limitazione delle cure. Anche per la Sanità, le sfide sono altrettanto impegnative e decisive.
Cito una sfida scientifica. La rivoluzione demografica che da cinquant'anni sta interessando il mondo occidentale non ha ancora trovato adeguate risposte non solo sia dalla politica (basti pensare ai temi del pensionamento) ma anche dalla scienza: vedi l'incertezza che ancora circonda la malattia di Alzheimer oppure le malattie cerebrovascolari, per citare solo due patologie di rilevanza epidemiologica e che di fatto vengono trattate con terapie poco più che sintomatiche.
Aggiungo una sfida organizzativa. In un'epoca di razionalizzazione delle risorse sanitarie ed assistenziali il rischio di discriminare il malato anziano è pericolosamente concreto. Alcune recenti proposte culturali, ma anche legislative, in particolare dell'Europa del Nord vanno in questa direzione. Atteggiamenti e pregiudizi della cultura sociale verso la vecchiaia, rischiano di riflettersi nella stessa Medicina con conseguenze rischiose: succede che persone anziane sono state escluse dai trial clinici, che in vari contesti si pratica di fatto una limitazione delle cure, che le decisioni cliniche a volte si basano sul criterio dell'età cronologica.
Infine è ben presente una sfida deontologica. Se la vecchiaia è intesa come malattia, la risorsa tecnologica è spesso individuata come unica possibilità terapeutica. Pur nel difficile equilibrio tra inadeguatezza ed accanimento, i pazienti anziani e i loro familiari si chiedono se è possibile ai medici esercitare una medicina di elevato livello senza inseguire la guarigione a tutti i costi e senza ricorrere necessariamente al tecnicismo esasperato.

Rivedere i tradizionali obiettivi della Medicina. Abbiamo scelto quest'ultima sfida come filo conduttore del convegno che l'IRA dedica all'assistenza al paziente anziano tra etica ed accanimento terapeutico: in altre parole, la proporzione e l'utilità delle cure misurate con l'aspirazione ad un'assistenza sanitaria qualificata umanamente, per la quale la durata della vita non è l'unico criterio di successo.
Etica e Medicina si confrontano, ma la questione è fondamentalmente antropologica, esistenziale. Riguarda la vita: la vita degli anziani, certamente, e di questo si occupa il convegno dell'IRA. Riguarda anche - e forse ancor più drammaticamente - la vita delle persone che hanno a cuore gli anziani, o perché ne sono familiari o perché ne condividono per lavoro la condizione. Il convegno è pensato anche per loro, perché non si sentano soli di fronte a domande decisive.
Sicuramente l'aspetto più difficile e contraddittorio, soprattutto per gli obiettivi di "guarigione" tipici della formazione professionale, è quello di assistere una persona il cui stato di salute declinerà inarrestabilmente. Questa difficoltà è accresciuta dai progressi delle tecnologie biomediche, che possono far sentire la morte di un paziente come la sconfitta del suo terapeuta, cioè sempre meno come parte inevitabile della vita e sempre più come un fallimento del trattamento terapeutico.
Ci sono molti che per questa sfida auspicano una legge al posto del confronto. La motivazione è duplice: la persona malata e incurabile esige di essere tutelata da una medicina ostinata; a sua volta, il personale sanitario domanda di essere tutelato da eventuali incriminazioni penali per mancata assistenza a persona in pericolo, per non aver fatto quanto era possibile per salvare la vita del paziente.
Non ritengo che il ricorso al legislatore sia una via adeguata. La questione dell'accanimento terapeutico è indecifrabile a causa della diversità dei casi definiti dal medesimo termine. Nessun legislatore, nessun giurista potrà codificare la situazione di operatori professionali e familiari che si trovano a vivere nella contraddizione di fornire conforto e migliorare la qualità di vita mentre si preoccupano della morte. Questa contraddizione è quotidiana per chi svolge la propria attività professionale con gli anziani: nella quotidianità assistenziale di una casa di riposo, più che altrove, si richiede di rivedere i tradizionali obiettivi della medicina, indirizzati alla guarigione del paziente.

L'ultima decisione di Giovanni Paolo II. In "Memorie di un vecchio felice" (Longanesi, 2005) il giornalista Piero Ottone cita dei versi di Goethe, in cui il poeta, contemplando il mondo addormentato, si rivolge al viandante dicendogli: "Aspetta ancora un poco, / presto / riposerai anche tu".
"Quando si traducono in accanimento terapeutico, le tecnologie mediche - commenta Piero Ottone - diventano un pericolo. La morte è terribile quando si è nel pieno delle forze, ricchi di energie e di progetti. Ma quando ci si spegne lentamente, come una fiammella che si fa sempre più tremula, quando si è veramente arrivati al termine dell'esistenza, allora può apparire un sospiro di sollievo, come quando ci si infila tra le lenzuola morbide del proprio letto dopo una giornata faticosa".
"Se mi portate al Gemelli avete modo di guarirmi?", chiese il 30 marzo 2005 Giovanni Paolo II. La risposta fu no. Allora replicò: "Resto qui, mi affido a Dio". Forse, attaccato a una macchina, il Papa sarebbe sopravvissuto oltre il 2 aprile. Ma ai medici disse: "Al Gemelli mi possono fare cure per guarire? No? Allora, grazie ma io resto nel mio appartamento".
Anche tenere pronte le lenzuola morbide immaginate da Piero Ottone; anche sentire l'IRA come la propria casa è una cura, è un aiuto. Non aiuterà a guarire, ma aiuterà a vivere.

17 novembre 2007


18 novembre 2007
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Tino Bedin