EUROPEI

L'ANALISI
La scommessa della Convenzione:
superare la paralisi
di leader privi di idee

La Dichiarazione di Laeken è un capolavoro di ambiguità, che riflette perfettamente l’ambivalenza dei governi europei

di Andrea Bonanni
Corriere della Sera, 18 dicembre 2001

BRUXELLES - Giuliano Amato, con un filo di amara ironia, lo ha definito «un documento beethoveniano», per lo slancio con cui è proteso al futuro. Ma che cos’è veramente la Dichiarazione di Laeken, con le oltre cinquanta domande sull’avvenire dell’Europa a cui la Convenzione, guidata tra l’altro dallo stesso Amato, dovrà, se ci riesce, dare risposta? «È un grande esercizio di ipocrisia. In quelle domande c’è di tutto: l’inferno e il paradiso dell’Europa a venire. Tutto dipende dalle risposte che verranno date», commenta sotto garanzia di anonimato uno dei capi di governo che ha partecipato alla sua redazione. Se non di ipocrisia, la Dichiarazione è certo un capolavoro di ambiguità, che riflette perfettamente l’ambivalenza con cui la maggioranza dei governi europei guardano oggi all’Europa. Da una parte, infatti, le questioni sollevate potrebbero aprire la strada a una Costituzione europea, ad una difesa e a una politica estera più integrate, a un superamento del metodo intergovernativo, a un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e della Commissione. Dall’altra la Dichiarazione potrebbe essere il cavallo di Troia per la rinazionalizzazione di molte politiche, per una riduzione della Commissione a segretariato del Consiglio, per una messa sotto tutela del Parlamento europeo da parte dei parlamenti nazionali, per uno smantellamento del «corpus» legislativo comunitario sostituito da leggi-quadro di incerta applicazione. Dopo aver cercato due volte senza successo, prima ad Amsterdam e poi a Nizza, di far nascere l’Europa politica, è come se i capi di governo si volessero ora in qualche modo liberare della responsabilità morale di prendere una decisione sul futuro del Continente. I leader europei lanciano da Laeken una serie di domande a cui loro per primi, negli ultimi dieci anni, sono stati manifestamente incapaci di rispondere. Non bisogna però commettere l’ingenuità di credere ad una improvvisa remissione del potere. La decisione finale è e resta saldamente nelle mani delle capitali. La Convenzione avrà solo il compito di fornire alcuni indirizzi di fondo. Poi la Conferenza intergovernativa tradurrà queste indicazioni in una modifica dei Trattati con la piena libertà di disattenderle e anche di stravolgerle. Se i capi di governo hanno deciso di passare la mano almeno nella fase dell’elaborazione teorica, non è per generosità democratica, ma perché si trovano in una situazione di paralisi delle capacità di elaborazione politica. Romano Prodi, ed altri con lui, hanno interpretato il deludente risultato del vertice di Nizza come una riprova della inconcludenza del metodo intergovernativo. C’è del vero nella loro denuncia. Ma forse, più banalmente, non è tanto il metodo intergovernativo ad essere incapace di produrre idee e visioni, quanto i governi e soprattutto i loro leader. Blair, Schröder, Chirac, Jospin, Berlusconi, Aznar: nessuno di questi uomini ha nei propri cromosomi una visione dell’Europa temprata dalla personale esperienza di quali spaventose tragedie possano venire dalla mancanza di Europa. Non a caso hanno affidato la guida della Convenzione a uomini che, per età o per formazione, appartengono alla «vecchia guardia» europeista. La stessa di Mitterrand, Kohl, Gonzales, Ciampi, Delors: l’ultima generazione in grado di concretizzare, con la moneta unica, un grande sogno europeo. Gli uomini che oggi guidano i principali Paesi dell’Unione hanno tutti, chi più o chi meno, scoperto l’Europa solo una volta arrivati al governo. E da quel momento hanno fatto del proprio meglio per gestire una realtà tanto complessa quanto ineludibile, ma di cui non avvertono il fascino. Non amano l’Europa, ma con pragmatismo hanno accettato il fatto che non ne possono fare a meno. Per alcuni di loro, l’obbligo di abbracciare una scelta europeista ha comportato addirittura una sofferta revisione delle proprie convinzioni più intime. Non sono né euroscettici, né euroentusiasti: sono, semplicemente, euro-realisti. Questo, di per sé, non deve essere considerato un fatto negativo. Anzi è la riprova che l’Europa è divenuta ormai una realtà talmente presente e importante nella vita politica quotidiana da affermare la propria logica evolutiva senza bisogno di grandi ideali e di visioni messianiche. Per capire che l’Europa esiste, non occorre leggersi il manifesto di Ventotene o le memorie di Schuman: basta mettersi la mano in tasca e contare gli euro. Il problema è, adesso, capire dove questa Europa debba andare. I Quindici di Laeken, manifestamente, non lo sanno. O, se lo sanno, non hanno il coraggio o la forza per dirlo. Toccherà alla Convenzione compiere quel primo passo che i governi, nel loro realismo, non sono più capaci di fare.

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19 dicembre 2001
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