RASSEGNA STAMPA

Il Mulino
maggio-giugno 2008
di Giuseppe Berta

Estratto
La socialdemocrazia al tramonto

Nel settembre 2007, a Bournemouth, al suo primo congresso del Labour party in veste di premier, Gordon Brown pronunciava un elogio dei successi economici conseguiti dalla nazione sotto la guida laburista, esaltando la «stabilità economica» come un valore in sé, l’unica base che possa garantire il servizio della comunità: «Dieci anni fa, prima che i laburisti arrivassero al governo, nel G7 eravamo settimi per reddito pro capite. Ora, con la più lunga fase di crescita economica della nostra storia, siamo secondi soltanto agli Usa e precediamo Germania, Francia, Italia, Giappone e Canada».
Ancora più esplicito il discorso che Brown tenne, poco tempo dopo, alla conferenza annuale della Confederation of Business Industry (Cbi), dove assegnava al suo paese la missione di essere «uno dei grandi leader globali» del Ventunesimo secolo. Il premier si congratulava, in apertura, con chi dirigeva le imprese inglesi per la capacità di affrontare la sfida competitiva. La grande crisi finanziaria dei subprime, esplosa il mese precedente, non aveva indotto il premier inglese a mutare opinione circa il fatto che il compito di ogni governo fosse di riconsiderare quanto era in suo potere fare allo scopo di sostenere il business (to support business).
C’è un’ambiguità forse voluta nell’espressione usata da Brown. Sostenere il business può voler dire operare per impedire la caduta del ciclo economico, ma anche – semplicemente – per impedire che le imprese e le attività economiche del Regno Unito regrediscano. Perché infatti il governo si propone di appoggiare fin dove può la propria business community, aiutandola a cogliere le opportunità della globalizzazione.
Nessuno potrebbe dubitare che l’appoggio recato dall’esecutivo laburista agli operatori della finanza, dei servizi e dell’industria sia pieno e leale e che la globalizzazione sia in se stessa un processo benefico, di cui occorre prendere la guida. Anzi, il sodalizio fra il governo e l’attività economica deve diventare ancora più stretto, se si vuole far fronte alle nuove condizioni.
È insomma una macchina possente quella dell’economia contemporanea, che va fatta girare a pieno regime nel modo migliore. E la globalizzazione, del resto, è la sua cornice naturale, la leva della produzione della ricchezza. Brown parla di una dinamica economica che va utilizzata fino in fondo, premendo sul pedale del cambiamento. L’economia ha bisogno di un’accelerazione continua e il governo la deve favorire. Non c’è posto, in questo schema, per dubbi sulla natura della globalizzazione, sulla sua direzione di marcia: per produrre ricchezza occorre stare continuamente al passo col mutare delle circostanze entro cui si svolge il processo economico.
L’«età globale» esige che si scrivano storie di successo, che hanno per protagoniste le nazioni capaci prima delle altre di interpretare i bisogni del cambiamento.
Di fronte alla Confindustria britannica, Brown evoca scenari grandiosi di trasformazione del lavoro, in grado di determinare uno stacco fra le epoche storiche. In dieci anni, dice, occorrerà procedere a sostituire i 6 milioni di posti di lavoro non qualificati ancora esistenti, minacciati da un’irreversibile obsolescenza. Al più ne potranno sopravvivere mezzo milione, mentre il numero dei lavoratori ad alta specializzazione deve salire, nello stesso torno di tempo, almeno da 9 a 14 milioni. Questa è l’unica strategia possibile dinanzi al mutamento che impone la globalizzazione, destinata a stroncare il lavoro senza qualità e senza istruzione. Per raggiungere standard di vita più elevati non resta che acquisire migliori standard di competenza e di formazione.
Il paradigma keynesiano caro alla vecchia socialdemocrazia è quindi sepolto. La sua inattualità è quella medesima del principio secondo cui toccava al processo economico di creare posti di lavoro. Oggi è in vigore un paradigma affatto diverso: «Una volta il problema era la disoccupazione, nel mondo nuovo è l’occupabilità (employability». Di qui lo slogan attuale, cui il New Labour ha aderito completamente e che la sua leadership ha ripetuto in tante occasioni: education, education, education. In un mercato del lavoro reso il più fluido possibile, ciò che conta sono gli skills dei lavoratori, meglio: la loro capacità di incrementare incessantemente le loro competenze, facendole evolvere in sintonia con la domanda di mercato. La frontiera su cui si gioca l’efficacia del governo nel tutelare la posizione dei lavoratori consiste nell’offrire loro nuovi livelli di apprendimento, così da renderli idonei a presidiare il mercato e a trarre vantaggio dal cambiamento, per innalzare la loro qualificazione professionale e i loro redditi.
Per il New Labour la questione consiste nell’adattare la società al sistema economico, giudicato nella sostanza immodificabile.
Come è stato osservato, il laburismo abdica nella sostanza al rapporto dialettico con il capitalismo che ha caratterizzato i momenti migliori della sua storia lungo il Novecento.
Da un lato, infatti, nel passato esso ha cercato di cogliere i lati fondamentali dell’evoluzione capitalistica, mentre, dall’altro, ha cercato di correggerli, infondendo nelle sue tendenze di fondo degli elementi ispirati a una logica diversa, senza peraltro rinunciare a un obiettivo di efficienza complessiva.
È stato così negli anni Trenta, dopo la grande crisi e il crollo elettorale del Labour Party; ma soprattutto negli anni Quaranta, quei sei anni (1945-51) trascorsi in office, destinati a lasciare un segno permanente. Ed è avvenuto ancora così, sebbene in forma alquanto più opaca, negli anni Sessanta, ma prima ancora c’era stata la ricerca di un nuovo rapporto col capitalismo, espresso in libri notissimi come Contemporary Capitalism (1956) di John Strachey e, soprattutto, il testo classico per eccellenza del laburismo dell’età affluente, The Future of Socialism (1956) di Tony Crosland, ancor oggi rivendicato dai leader laburisti come un segno d’innovazione.
Un segno d’innovazione dentro un solco socialdemocratico che oggi è tuttavia quasi scomparso.
Perché intanto quella traccia si è persa. Si ha un bel rifarsi a quella stagione revisionista, una delle più vitali culturalmente per i laburisti, ma – nonostante Gordon Brown abbia pagato il proprio omaggio rituale a Crosland – di essa resta in piedi poco o nulla. Perché al suo centro vi era l’immagine di un managed capitalism, di un capitalismo regolato, dal funzionamento metodico, pronto non soltanto a generare ricchezza, ma a rientrare in uno schema per la sua redistribuzione.
Proprio quanto è venuto meno alla fine del Novecento, allorché il Labour è tornato al governo, traendo vantaggio dall’esperienza del periodo thatcheriano, considerato come un punto di svolta non più reversibile. Il laburismo rimodellato da Blair (ma anche da Brown) si basa sull’accettazione dei cardini del «turbocapitalismo» di fine secolo, senza distinguere più, com’era invece nella sua tradizione, fra finanza e industria, scommettendo semmai sull’espansione di una service economy che appare come il retaggio più durevole della storia economica britannica degli ultimi due secoli.
Certo, non parla il linguaggio dei valori vittoriani che Margaret Thatcher aveva cercato di rilanciare all’inizio della sua esperienza di governo, quando più forte e dirompente era la carica ideologica dei nuovi tories, che aveva rimpiazzato lo stile sobrio, cauto e rassicurante dei conservatori alla Edward Heath. Ha introdotto in sua vece un’enfasi crescente sulla responsabilità sociale, piuttosto che sulla coesione; parla col linguaggio dei diritti e dei doveri individuali; ha mandato in soffitta il collettivismo e il comunitarismo d’antan delle unions, che da tanto ormai hanno cessato di essere l’azionista di riferimento del Parliamentary Labour.
Come i tories, il laburismo si rivolge da anni non a un elettorato aggregato e distinto, non alle constituencies di una volta, ma al votante e al cittadino individuale, a cui promette, sicuramente, un ventaglio di garanzie sociali, ma che non si rifanno in alcun modo all’ispirazione socialista di un tempo. Soprattutto, gli promette accesso all’istruzione e maggiore sicurezza, difesa dalla criminalità diffusa e stabilità. Nulla, in definitiva, che appartenga in maniera troppo marcata al lascito del laburismo, affinché la sua matrice culturale risulti la più sfumata possibile.
D’altronde Brown, ponendosi in pieno nella scia di Blair, omette nei suoi discorsi, anche nei passaggi più retorici, ogni rimando a un socialismo che è ormai parola espunta dal lessico del laburismo.
La stessa socialdemocrazia è diventata nel frattempo una meno marcata «democrazia sociale», che potrebbe benissimo discendere dal social liberalism di fine Ottocento - primi del Novecento, cioè dell’età in cui il laburismo era ancora una costola del liberalismo.
Il messaggio politico è divenuto intanto compiutamente individualistico: la prospettiva dell’emancipazione si giocherebbe, se ancora la si invocasse, nella sfera della formazione, con l’incremento della capacità del lavoratori di valorizzare le proprie competenze. Ma le organizzazioni collettive, a cominciare dal movimento sindacale, non ha più nulla da dire a questo proposito: l’education ricade sul governo che ha il compito di mettere a punto adeguate strategie e strumentazioni educative e formative e, poi, sui singoli, che hanno il dovere di mettere a frutto le opportunità dell’istruzione loro offerte. (...)

Un mese dopo il congresso laburista di Bournemouth, anche i socialdemocratici tedeschi dovevano tenere il loro congresso (ad Amburgo, 26-28 ottobre 2007). Il loro programma adopera toni che non hanno più cittadinanza presso il laburismo: per esempio, la globalizzazione soffre di contraddizioni, che la politica deve correggere: «La nostra risposta alla globalizzazione deve essere un’Europa sociale».
Il segreto per emendarne i contrasti più gravi è indicato nel criterio della sostenibilità dello sviluppo, che «vada di pari passo con il dinamismo economico, la giustizia sociale e la saggezza ecologica». Visto da questa angolatura, il tenore di vita delle società avanzate «supera i limiti di inquinamento che la terra può sopportare» e l’ascesa di una parte del mondo ai consumi appannaggio dell’Occidente ne rivelerà il carattere insostenibile.
Sulla globalizzazione, la Spd getta uno sguardo critico: «Il capitalismo globale accumula grosse quantità di capitale che non producono necessariamente nuovo benessere. I mercati finanziari sfrenati producono speculazioni e aspettative che si oppongono a un’economia sostenibile».
Non tutto è bene nel mondo del capitalismo globalizzato: i socialdemocratici tedeschi temono l’eliminazione dei posti di lavoro e non pensano che il loro mestiere stia nell’avvertire per tempo i lavoratori, esortandoli a darsi da fare per non diventare obsolescenti.
Però, però... All’atto pratico, quando il discorso deve essere un po’ meno vago, si accenna alla «varietà delle forme di lavoro». Si parla di «qualifiche e conoscenza (che) diventano sempre più importanti. Nascono nuove attività creative. Il normale rapporto di lavoro tradizionale, a tempo indeterminato e con orari definiti, sta perdendo rilievo. La vita lavorativa di molte persone è […] un alternarsi di lavoro dipendente, non-occupazione, fasi di lavoro in famiglia e lavoro autonomo». Per la Spd, occorre che questi «cambiamenti, non di rado vissuti come una coercizione», non si risolvano in «ansia e paura» per i lavoratori. Essa così nutre «la convinzione che la società si (possa) plasmare e non (debba) capitolare di fronte al cieco operato della globalizzazione».
Di qui la necessità di rivalutare «l’esperienza storica che ci insegna come la politica socialdemocratica può avere successo solo se va di pari passo con l’impegno socialdemocratico delle persone, dei sindacati, dei movimenti e dei network di collaborazione per la pace, per l’ambiente, per la donna, per i diritti dei cittadini e per un mondo non omologato e non globalizzato».
A questa retorica socialista, che non abbandona neppure l’immagine di un «movimento operaio» in cui la socialdemocrazia è incorporata, fanno seguito alcuni criteri, come il riconoscimento del merito, con «una distribuzione del reddito e del patrimonio adeguata» al valore delle persone, ma corretta altresì dal principio che «la proprietà implica degli obblighi». Il tracollo del socialismo di Stato sovietico non si è riversato sul socialismo e sul suo orizzonte, costituito dalla «democrazia sociale». Quanto al mercato, «è un mezzo necessario e superiore ad altre forme di coordinamento economico».

Che la globalizzazione la si accetti così com’è, o che se ne denuncino i limiti e le contraddizioni, auspicandone il superamento, il risultato finale non cambia: per reggere al cammino impetuoso del cambiamento non resta che rafforzare la posizione individuale di mercato dei lavoratori, incrementando e arricchendo le loro risorse professionali e la capacità di costante apprendimento.
Al dunque, le terapie dei laburisti e dei socialdemocratici non differiscono quanto alle prescrizioni di fondo: non rimane altro da fare che puntare tutto sullo sviluppo della conoscenza, su quei lineamenti un po’ inafferrabili della società della conoscenza che dovrebbe costituire il frutto maturo e anche il lievito del mondo globale. Con un linguaggio più efficientista i laburisti, con un’intonazione retorica che tiene ben presente la tradizione socialista i socialdemocratici, entrambi i partiti finiscono col dire la stessa cosa. E cioè che esiste una sola via per vincere l’insicurezza e la precarietà economica, quella di potenziare le facoltà di apprendimento dei lavoratori, per renderli meno disarmati sia di fronte alla trasformazione globale che dinanzi alle fluttuazioni di mercato.
Su tutto il resto, è silenzio o quasi.
Ma conta poi davvero che, da una parte, ci si tuffi completamente nel mondo nuovo dell’economia globale, per trarne tutto il vantaggio possibile per le imprese e per la nazione, e che, dall’altra, si abbia cura di ricordare le vecchie categorie e gli stilemi del «movimento operaio», se poi le strategie economiche e sociali non divergono? Forse è quasi più apprezzabile il pragmatismo laburista, che ha relegato in soffitta le icone, nella persuasione della loro inutilità, rispetto al linguaggio politicamente corretto della Spd, che invece le icone le rispolvera (o magari è costretta a farlo, davanti alla concorrenza della Linke). Ad Amburgo i socialdemocratici hanno scelto di recitare un credo intessuto di evocazioni storiche che hanno il torto di essere inerti. Hanno preferito sospendere il giudizio fra il percorso che ha realizzato il loro movimento e un presente che mette in discussione in blocco tutta la loro storia (...) Il modello sociale europeo appartiene ormai a tutti, alle forze di sinistra o di centrosinistra (o che si pongono di fatto al di là dell’alternativa classica fra destra e sinistra, come il New Labour) come ai partiti di impianto più liberale o cristiano-democratico o anche conservatore.
Questa non è più una linea di demarcazione (come d’altronde sapeva già la Dc italiana alla metà degli anni Cinquanta, quando Ezio Vanoni spiegava in parlamento che in fondo i laburisti inglesi e la Cdu operavano nella stessa direzione, per costruire un’economia sociale di mercato). Ma allora su quel modello c’era un innegabile imprinting socialdemocratico, che oggi si è sbiadito fin quasi a svanire del tutto. Fu quello il capolavoro autentico conseguito dalla socialdemocrazia europea, che ha riversato in esso tutta la sua capacità di progettazione economica e sociale. Fino a compenetrarsi con esso, naturalmente.
Ma fino a consegnargli per intero la propria originalità, la sua stessa missione politica. In un certo senso in quella realizzazione ha speso tutta se stessa, le sue risorse di consenso, il suo radicamento sociale, le forme della partecipazione politica che ha attivato. Al punto di non riuscire in seguito a ritrovare una ragione sociale altrettanto robusta. (...)
Ma il modello sociale europeo non è più la costruzione coerente di qualche decennio fa, in nessuna parte del continente. È un composto in cui s’incastrano elementi eterogenei e spuri, dove l’elevata spesa pubblica e le garanzie sociali si mescolano a inserzioni di impronta più liberistica o efficientistica, derivanti da culture politiche non di stampo socialdemocratico.
Spesso abbiamo sottolineato come il New Labour e la leadership di Blair non sarebbero immaginabili senza la lunga e incisiva fase thatcheriana, di cui sono indiscutibilmente eredi e debitori. Se guardiamo al di là dei confini delle socialdemocrazie storiche, per esempio alla Spagna di Zapatero, sarebbe difficile riscontrare sul terreno sociale una cesura netta rispetto al governo di Aznar. Le diversità le dobbiamo cercare altrove: nel campo dei diritti civili, per esempio, o in quello della politica estera e degli impegni militari. Se teniamo per un momento fuori dalla visuale il laburismo, con la sua indefettibile lealtà atlantica, ci accorgiamo subito che le differenze politiche maggiori, a sinistra, si rilevano proprio in questi ambiti, mentre tendono a sfumare sul fronte dell’economia e della società.
Dobbiamo allora concludere che la caratterizzazione socialista è ormai svuotata di senso, un residuo del lessico politico novecentesco condannato a una progressiva inattualità? Anche a non voler ripetere, con un segno mutato, l’errore di Schumpeter, indicando ormai una sinistra permeata dei valori e degli abiti di comportamento del capitalismo, orientata a fondersi in un’indistinta area di «democrazia sociale», al presente la risposta non può che essere affermativa.

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3 luglio 2008
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Tino Bedin