IN POLITICA
L'Italia stabile tra il 1948 e il 1988
Cambiare governo per non cambiare partito
In una società complessa la politica da sola non crea stabilità; vi contribuisce ma non la determina

Nell'ambito del ciclo "A scuola di politica. Percorsi formativi tra storia, attualità e prospettive per il futuro", organizzato dalla Biblioteca Comunale di Asolo, giovedì 29 novembre a Casa Santa Dorotea, l'on. Tino Bedin, giornalista, ha tenuto una conversazione su: "L'Italia stabile, 1948-1988: cambiare governo per non cambiare partito".Ne pubblichiamo il testo.
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Conversazione di Tino Bedin

Siamo cresciuti noi, siete stati educati voi nella convinzione dell'instabilità della Prima Repubblica, derivante principalmente dal sistema elettorale proporzionale, e della necessità di porvi rimedio con il sistema elettorale maggioritario.
Quando qualche mese fa abbiamo sintetizzato il tema di questa serata, avevo pensato, da giornalista, ad un titolo che segnalasse la notizia che poteva emergere da un'analisi storico-politica di un tema assai vivo nell'opinione pubblica italiana, quello della stabilità.
Poiché il numero di governi è sempre stato utilizzato anche come "voto" insindacabile per la bocciatura del precedente sistema, ero partito da una constatazione: tra il 1948 e il 1953 all'inizio dell'era proporzionale Alcide De Gasperi riuscì a fare ben 4 governi; in un analogo arco temporale, tra il 1994 il 1999, all'inizio dell'era maggioritaria, di governi l'Italia ne ha avuti cinque. Con una differenza: tra il 1948 e il 1953 c'è stato un solo capo del governo; tra il 1994 e il 1999 si sono succeduti quattro presidenti del Consiglio.
Questo confronto sulla fase iniziale dei due diversi sistemi elettorali può, nelle intenzioni, favorire una riflessione libera da pregiudizi e consentire un'analisi storica, ma anche politica, capace di farci evitare le trappole dell'ideologia o dell'immediato interesse elettorale. Spero che questo sia ancora possibile, anche se rispetto a qualche mese fa, il tema invece di mantenersi di carattere storico ed istituzionale è diventato proprio in queste settimane di stretta attualità politica con tutti i rischi che un dibattito sull'attualità comporta.
Il rischio è che io vi parli e voi mi ascoltiate utilizzando e percependo le parole per il suono che oggi hanno in tv, più che per il senso che hanno nella nostra storia repubblicana.
Corriamo insieme questo rischio: ad esempio da parte mia il rischio di apparirvi un sostenitore del sistema proporzionale, mentre tutta la mia esperienza parlamentare si è realizzata nel sistema maggioritario, tanto che tra le ragioni della mia decisione di concludere quell'esperienza c'è stata anche l'abolizione del collegio uninominale, con la conseguente impossibilità per gli elettori di scegliersi il loro rappresentante in Parlamento, a cui chiedere conto continuamente delle scelte non solo in quanto portatore di una visione politica, ma soprattutto in quanto espressione di un territorio.

La chiave di lettura. Trattando di un quarantennio di vita nazionale, inserita per di più in un contesto europeo ed internazionale assolutamente influente sulla vita degli italiani sia come persone che come comunità, la nostra conversazione sarà costituita da una serie di osservazioni, più che da un'analisi organica.
Una serie di notizie, che aggiungono informazioni, ma che da sole non bastano a costruire una valutazione definitiva. Il giudizio non è comunque lo scopo di questa mia conversazione. L'obiettivo resta - se sarà possibile - proprio quello di allargare le informazioni, per non considerare come uniche quelle prevalenti.
Come chiave di lettura di queste notizie utilizzeremo il rapporto tra partiti ed istituzioni. Anche l'utilizzo di una sola chiave di lettura, proprio perché non è l'unica, evita di arrivare immediatamente alle conclusioni.
Ci sono altre chiavi e soprattutto altre porte attraverso cui entrare nella nostra storia repubblicana. Proprio il corso di formazione politica promosso dalla Biblioteca di Asolo ne indica alcune: oltre alla politica, ci sono le teorie sociali, c'è l'economia, c'è il territorio.
Vi auguro che fra i risultati di questa "Scuola di politica" ci sia in voi la consapevolezza che nella struttura democratica non c'è un portone principale attraverso il quale entrare nella vita istituzionale e comunitaria; ci sono tante porte che si affacciano anche su strade diverse. La sfida non è conoscere la strada da cui arrivare né indovinare la porta giusta; la sfida è mettere in comunicazione gli spazi cui si accede dalla varie porte. Questo eviterà che le istituzioni siano o siano vissute come un condominio. Una istituzione con tante porte e tante chiavi è davvero la casa comune.

Le date. Ho delimitato l'analisi ad un quarantennio. Anche questo è discutibile.
Per il 1948 non c'è discussione.
Il 1° gennaio entra in vigore la Costituzione. Cambia il Patto tra gli italiani e - aspetto che raramente viene citato - anche il Patto fra italiani e resto del mondo con quell'articolo 11: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
Per la chiave di lettura che abbiamo scelto, cioè il rapporto tra partiti ed istituzioni, il 1948 è l'anno delle elezioni politiche del 18 aprile, che segnano l'avvio del sistema politico italiano. Esse consacrano la conclusione del periodo precedente che era iniziato nel 1943 con la Guerra di Liberazione e che aveva portato alla scrittura della Costituzione: l'unità antifascista si era infatti definitivamente consumata nella seconda metà del 1947, con la divisione del mondo in due blocchi e la nascita del Cominform.
Per il 1988 invece può esserci una discussione.
Nel regime repubblicano molti riscontrano un segno di cesura nel 1992, a seguito dell'esplodere di Tangentopoli e del dissolvimento del sistema politico preesistente. Per questo molti fanno una distinzione fra Prima Repubblica (1948-1992) e Seconda Repubblica (1992).
Altri sostengono invece che questa bipartizione sia inesistente, essendo del parere che l'Italia sia in una fase di transizione tale per cui la Prima Repubblica non si possa ancora dichiarare conclusa (ne ha parlato all'inizio di questa Scuola il professor Paolo Feltrin).
Personalmente ritengo che una fase repubblicana si sia conclusa e che sia ragionevole ed importante individuarne il momento conclusivo o almeno discuterne, perché questa riflessione ci aiuterà soprattutto in futuro a chiarire meglio quando è cominciato il cambiamento e quindi ad accompagnarne ed arricchirne le speranze.
La storia, inevitabilmente, si scrive sempre dopo e saranno gli avvenimenti successivi che ci diranno dove un percorso è iniziato. Non lo possiamo fissare quando lo viviamo, neppure se si tratta di una rivoluzione. Nemmeno avvenimenti drammatici o simbolici a volte bastano per capire la vera direzione del futuro.
Per capire il futuro, ad esempio, più che il 1992 per Tangentopoli, forse è importante storicamente il 1994: fine della Dc, nascita di Forza Italia come primo partito non costituzionale, primo Parlamento eletto con il sistema maggioritario, entrata al governo di un partito escluso dal processo costituzionale cioè Alleanza nazionale.
Davvero una gran bella frattura.
Altrettanto e forse più importante è - come anno di conclusione, non di inizio - il 1988.
Ho scelto questa data perché nel 1989 cambia il mondo: c'è la Caduta del Muro di Berlino: evento per molti aspetti simbolico, ma anche politico.
Cambia l'Europa, nella quale l'Italia è stata protagonista assieme all'altra nazione sconfitta e divisa dalla seconda guerra mondiale: la Germania. Finisce il dopoguerra in Europa. Finisce la Guerra Fredda.
In Italia la Caduta del Muro segna la scomparsa della ragione per la quale nel 1947 era finita l'unità della forze antifasciste italiane.
Non a caso il 1988 è l'anno in cui il Pci cambia segretario: arriva alla sua guida Achille Occhetto, che pochi mesi dopo promuoverà il processo per il cambiamento di nome del Pci.
Il 1988 è dunque l'ultimo anno nel quale si perpetua quell'originale condizione della vita politica italiana iniziata con le elezioni politiche del 1948: una ripartizione predeterminata di ruoli o di governo o di opposizione tra i partiti, in buona parte derivante dalla situazione internazionale.
Aldo Moro era ben consapevole che una nuova fase della politica italiana sarebbe iniziata solo superando quell'originalità. Quando fu ucciso, nella primavera del 1978, egli stava lavorando ad un progetto enorme: fare dell'Italia, il paese che aveva il più forte Partito comunista, il luogo del superamento della logica dei blocchi. Ci stava provando dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino. Non glielo hanno lasciato fare.

Stabilità dei partiti. La stabilità dei partiti "fondatori" della Repubblica è uno degli elementi caratterizzanti i primi quarant'anni della nostra Costituzione.
Si tratta di una stabilità prima di tutto culturale, direi istituzionale.
I partiti che avevano scritto e votato la Costituzione si sentono da una parte stretti tra loro da quel vincolo, dall'altra si considerano gli unici "veri" partiti repubblicani.
Lungo molti decenni c'è stata la tendenza a considerare, se non illegittimi (perché sarebbe un atteggiamento anticostituzionale), di sicuro "estranei", quasi "usurpatori" e quindi pericolosi, tutti i partiti nati fuori dall'esperienza costituzionale. Si tratta di una tendenza che in anni recenti si è manifestata ad esempio nei confronti della Lega Nord e poi di Forza Italia. L'assenza di un radicamento costituzionale portava a non legittimare una rappresentanza istituzionale e politica.
I partiti "fondatori" hanno registrato poi una stabilità elettorale e parlamentare.
Pur con qualche episodio mai definitivo di crisi, la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito socialista, il Partito socialdemocratico, il Partito Repubblicano ed il Partito Liberale hanno attraverso quattro decenni senza contraccolpi decisivi.
È prevalente una valutazione di forte frammentazione politica della società italiana frutto di una società complessa ed eterogenea, con la complicità del sistema elettorale proporzionale.
Anche in questo caso occorre forse superare il fastidio del numero dei partiti (i sette che a livello nazionale hanno sempre avuto rappresentanza parlamentare tra il 1948 e il 1988) e tutti gli altri.
Se dal numero dei partiti si passa al numero dei voti, si vede che gli elettori italiani hanno manifestato una stabilità straordinaria nei primi quarant'anni di Repubblica.
A parte le elezioni proprio del 1948, decisive per la storia d'Italia in cui tra la Dc e la Sinistra (Pci + Psi) si registrò un distacco di oltre 18 punti percentuali (48,5 a 31), possiamo vedere due fenomeni:
- già nelle elezioni 1953 la differenza tra le due aree assume le caratteristiche della staffetta: 40,1 a 35,3 nel 1953; 42,3 a 36,9 nel 1957; 38,3 a 39,1 nel 1963; 39,1 a 35,8 nel 1968; 38,7 a 38,6 nel 1972; 38,7 a 44 nel 1976; 38,3 a 41,6 nel 1979; 32,9 a 41,3 nel 1984; 34,3 a 40,9 nel 1987;
- all'inizio e alla fine del ciclo che abbiamo considerato le due aree messe insieme raccolgono tra il 79,5 e il 75,2 dell'intero elettorato; due italiani su tre sono rimasti stabilmente all'interno di queste aree politiche, cioè all'interno dell'area centrista e dell'area di sinistra non antagonista.
La frammentazione dell'elettorato di cui si parla riguarda quindi meno di un quarto dei voti.
Questa stabilità elettorale non si è evoluta in alternanza, sia per la situazione internazionale, sia per lo spirito dei partiti costituenti che al di là dei ruoli hanno continuato a vivere, memori dell'era fascista quello che con felice espressione il presidente dell'Assemblea Costituente Umberto Terracini, definì il "Complesso del tiranno". Tutti erano sostenitori di un sistema che preferiva fotografare le forze in campo piuttosto che incoronare dei vincitori: sarebbe stato deciso dalla mediazione parlamentare chi avrebbe avuto l'onere e l'onore di governare e nessuno avrebbe mai comandato del tutto, come nessuno sarebbe mai stato escluso del tutto da una parte del processo decisionale o da quello di controllo.
Questo spirito era così radicato che il tentativo di tutti i leader del Pci, da Palmiro Togliatti a Achille Occhetto, passando per Enrico Berlinguer, è stato quello di giungere al governo attraverso la collaborazione con gli altri partiti di massa (cattolici e socialisti) e quelli laici minori (Pri, Psdi).
Aldo Moro, praticamente alla vigilia del rapimento e dell'assassinio il 28 febbraio 1978 aveva presentato ai gruppi parlamentari della Dc la scelta obbligata della Solidarietà nazionale, perché il paese, questo paese, in queste condizioni, non sopporta "che si conduca fino in fondo la logica dell'opposizione".

La mobilità dei governi Con queste convinzioni, gli stessi risultati elettorali sono stati vissuti come una occasione per aggiornare la linea politica, piuttosto che come motivo di cambiamenti radicali. Piuttosto di giungere a fratture insanabili sia all'interno dei singoli partiti che tra i partiti "costituzionali", si è scelta la strada di formare nuovi governi con geometrie e programmi politici nuovi.
Dentro questa stabilità di partiti si è addirittura riusciti a praticare la diversificazione delle soluzioni politiche.
A grandi linee si possono individuare nel periodo al nostro esame quattro grandi fasi: centrismo (1948-1960), centro sinistra (1960-1976), solidarietà nazionale (1976-1979), pentapartito (1979-1988, e poi fino 1992).
Non si è trattato della "degenerazione" della partitocrazia, ma della applicazione di una convinzione politica ed istituzionale. I partiti che avevano combattuto il fascismo e scritto il patto repubblicano dovevano rimanere a garanzia di quel patto e del non ritorno del fascismo. Infatti la stabilità dei partiti, a cui deve adeguarsi - se necessario - la struttura del governo, costituisce una caratteristica che si evidenzia fin dall'inizio dell'esperienza democratica italiana. Ho già ricordato che Alcide De Gasperi tra il 1948 e il 1953 riuscì a fare ben 4 governi; ma altri quattro ne aveva presieduti tra il 1946 e le elezioni politiche del 18 aprile 1948. Sono stati complessivamente 41 i governi entrati in carica e dimissionari sono stati tra il 1948 e il 1988: si è superata la cadenza di un anno, un governo.
I presidenti del consiglio sono stati 18. Sei hanno guidato un solo governo, in genere per un periodo molto inferiore all'anno. Ciò significa che mediamente 12 capi di governo hanno governato per almeno tre anni, pur con compagini diverse.
Cambiare governo non significava cambiare ruolo dei partiti. Non vi era, infatti, alcun rischio, soprattutto per la Dc, di essere estromessa dal governo. Anzi in molte occasioni tutti gli altri partiti si "affidavano" alla Dc consentendole di esprimere tutto il governo: i "monocolori Dc" sono stati ben 9 nel quarantennio che siamo esaminando.
Per i partiti socialisti e laici brevi periodi di opposizione (magari alla vigilia delle elezioni o all'indomani di consultazioni elettorali risultati non soddisfacenti) venivano considerati salutari per ricostruirsi un'identità autonoma con la quale presentarsi di fronte a militanti ed elettori facendo dimenticare i troppi compromessi durante la collaborazione di governo.
Lo stesso Partito Comunista, almeno per trent'anni, è stato attore protagonista di questa scelta: da una parte ritagliando per sé il ruolo di oppositore per definizione a livello nazionale, con il quale per la forza numerica comunque occorreva arrivare ad accordi; dall'altra gestendo sia un forte potere istituzionale nelle amministrazioni locali (nelle quali applicava scelte contenutistiche anche di tipo nazionale, pensiamo alle politiche per l'infanzia, a quella per l'edilizia abitativa pubblica), sia un forte potere politico attraverso le organizzazioni di massa sia sindacali che professionali: altro luogo nel quale comunque si svolge una parte della vita politica nazionale (la Dc aveva speculari riferimenti in questi settori).
Per stabilizzare definitivamente il sistema dei partiti "costituzionali" negli anni Settanta inizia il processo per superare "l'originalità" costituita dal Pci, dando vita alle coalizioni di Solidarietà nazionale (1976-1979). Il Partito Comunista non entrerà mai al governo con ministri propri, ma nell'estate del 1977 vota a sostegno del governo Andreotti, dopo che il Pli aveva abbandonato la maggioranza, e nel marzo 1978 è a pieno titolo nella maggioranza di governo, dando la fiducia al IV governo Andreotti (ancora una volta un monocolore Dc, ossia solo con componenti democristiani). Per coinvolgere il Pci, pur senza farlo entrare nel governo, molti processi decisionali avvengono in Parlamento, che diviene quasi un esecutivo.
Il processo si interrompe (non si conclude però il lungo percorso repubblicano in questa direzione) nel gennaio del 1979, quando il Pci chiede di entrare al governo. La Dc preferisce un passaggio elettorale, per misurare preventivamente le forze rispettive, ma alle elezioni politiche che avvengono pochi mesi dopo il Pci esce sconfitto e i dirigenti rinunciano a far cambiare ruolo al partito.
La scelta a priori degli unici partiti destinati alla composizione delle maggioranze governative ed il ruolo egemone svolto dalla Dc hanno portato non all'instabilità, ma all'esatto opposto: hanno sempre governato gli stessi partiti e quasi sempre gli stessi uomini. Il vero prezzo pagato è stato lo scarso ricambio della classe politica governativa.

Partiti nazionali. Dc e Pci contemporaneamente antagonisti e indispensabili.
In una democrazia dell'alternanza, è indubbiamente un paradosso che il maggiore partito di opposizione determini la stabilità partiti-istituzioni. Lo è meno in una democrazia costituzionale e parlamentare, che sente di aver bisogno di tutte le proprie forze.
Dc e Pci contemporaneamente partiti di massa, che riuscivano a fare sintesi politica di istanze diverse.
In qualche modo partiti-unici, rassicuranti e forti. Partiti nazionali, radicati ma non localistici; culturalmente orientati, anche ideologici, ma non escludenti.
Tra gli analisti della storia repubblicana prevalgono coloro che equiparano la posizione del Pci a quella del Msi, in base a quella che il presidente emerito della Corte Costituzionale Leopoldo Elia ha sintetizzato nella formula della "conventio ad escludendum". Né l'uno né l'altro avevano titolo a governare: il primo per i rapporti esterni, il secondo per i rapporti con il passato.
La successione dei governi dà indubbiamente ragione a questi analisti e l'opportunità di questa "conventio ad escludendum" era certamente una convinzione diffusa tra gli italiani. Ma la vita politica non si esaurisce nel governo nazionale. E nella politica italiana il Pci non è mai stato escluso e non si è mai escluso: la Costituzione, il governo delle regioni, la gestione dell'economia e del sindacato, il rapporto con la Chiesa cattolica, l'impegno nel settore della cultura, il radicamento nella scuola e nell'università rappresentano una continuità di partecipazione che ha influenzato la stabilità italiana.
Se questa visione ha un fondamento, anche il periodo della solidarietà nazionale cambia prospettiva. Anzi cambia prospettiva il periodo seguente, che non è possibile definire autonomamente ma piuttosto come la lunga pausa di un processo politico interrotto ma non cancellato dall'assassinio di Aldo Moro e della sua scorta e dalla successiva decisione del Pci di cambiare posizione dentro l'alleanza della solidarietà nazionale. Appena è stato possibile infatti quella prospettiva si è trasformata nella proposta politica dell'Ulivo ed ora si compie con la nascita del Partito Democratico. In questa sequenza la fase della Solidarietà nazionale che abbiamo datata tra il 1976 e il 1979 potrebbe essere prolungata fino al 2006, cioè alla data delle ultime elezioni politiche che hanno portato ad un fatto istituzionale definitivo: la nascita dei gruppi parlamentari dell'Ulivo. Da qui in avanti potrebbe essere (come stiamo vedendo in queste settimane) tutta un'altra storia. Ovviamente questo significherebbe considerare tutti i fenomeni che si sono succeduti negli anni Ottanta e Noventa come episodi volti o a ritardare o ad accelerare un percorso inevitabile.
Consideriamola per ora solo un'ipotesi.
Del resto la classe politica italiana nel suo insieme e fin dalla Costituzione si era assunta il compito di integrare nella repubblica le masse popolari: quelle cattoliche innanzi tutto, che dovevano superare l'antagonismo con lo Stato risorgimentale, e le masse socialiste e comuniste, che dovevano superare l'antagonismo con uno Stato capitalista.
Già prima delle elezioni del 1948 De Gasperi aveva realizzato l'alleanza con liberali, repubblicani e socialisti di Saragat. Non era solo per ragioni elettorali. La Dc voleva sfuggire all'alternativa guelfo-ghibellina, voleva essere un partito nazionale, capace di far partecipare i cattolici alle istituzioni con laicità ed autonomia. La struttura amministrativa del Pci nelle Regioni Rosse si fondava anche su una classe imprenditoriale che veniva coinvolta ed era protagonista, accanto alla classe operaia. Fin dal tempo della Costituzione ma anche nella pratica il Pci non è mai stato anticattolico e non solo per la presenza al suo interno di una corrente, certo minoritaria ma costante, di ispirazione sociale cristiana. Quella scelta era frutto nella consapevolezza di essere un partito nazionale.
Finché la Dc ed il Pci ci sono stati, la continuità politica nella nostra Repubblica è rimasta. Erano loro che assicuravano l'adesione alla Repubblica. Voi sentite che uno dei rimpianti di quegli anni era la presenza di grandi sezioni locali di partito, luoghi di confronto, di mediazione, di partecipazione e di protagonismo. Oggi c'è la tv. Non si può più fare. In parte è vero. Il fatto è che è venuto meno il partito nazionale, il partito di comunità.
La spiegazione che lo storico Pietro Scoppola fornisce è piuttosto illuminante: il fascismo aveva insegnato agli italiani a partecipare alla politica attraverso il partito unico, un partito capace di organizzare tutti gli aspetti della vita individuale e della società civile; gli italiani stavano forse inconsciamente ripetendo lo stesso rituale (l'unico rituale di cui avevano una qualche conoscenza) in una situazione di pluripartitismo. Gli italiani dunque non vennero organizzati dentro alle istituzioni democratiche, ma vennero organizzati nei partiti, intesi come corpi organici di valori, di esperienze, di senso di appartenenza: solo tramite i partiti si perveniva allo Stato.
Si tratta di un'esigenza tuttora viva, che comunque la tv non può surrogare.
Con l'elezione diretta dei sindaci (1993) c'è stato il tentativo di cambiare riferimenti: dal partito alla istituzione civica. Si è parlato del Partito dei Sindaci. Non ci si è riusciti.
Un altro strumento poteva essere il Collegio parlamentare uninominale, capace di legare strettamente un senatore o un deputato al territorio che l'ha espresso ed anche a sostituirsi ai partiti nella capacità di rappresentanza e di mediazione.
Ora si ritorna all'esperienza dei Partiti nazionali: contenitore politici sufficientemente ampi da doversi impegnare non solo nella rappresentanza di interessi ma anche nella loro mediazione interna; in grado cioè di assicurare la stabilità in quanto essi stessi per sopravvivere devono essere stabili. Va in questa direzione in Partito democratico ed altrettanto ha immediatamente proposto Berlusconi con il Partito del Popolo. Nella duplice e speculare decisione si può leggere una conferma della tesi che vado sostenendo e cioè che la stabilità assicurata dal sistema dei partiti nazionali, rispetto a quella assicurata dai poli contrapposti è maggiore. È infatti in nome della stabilità e della governabilità che si ritorna al passato, al proporzionale, al sistema precedente.
Ovviamente - tutti dicono - non è un ritorno al passato; naturalmente bisognerà vedere se funziona meglio il sistema tedesco o quello spagnolo. Sta di fatto si prova ad abbandonare il sistema maggioritario e che si prova a ritornare là dove sembrava finita la Prima Repubblica.

Alla base della stabilità. Al di là di un giudizio se il confronto politico in atto sulle formule elettorali porterà ad un ritorno al passato o no, l'esperienza politica italiana suggerisce di non considerare la legge elettorale come un'impalcatura sicura su cui fondare la stabilità.
Risale già al 1953 l'idea di utilizzare la legge elettorale per far fronte alle difficoltà della politica. In quell'anno viene approvata una nuova legge elettorale che prevedeva, per le elezioni della Camera dei Deputati, un premio di maggioranza al partito o ai partiti apparentati che avessero ottenuto almeno il 50,01% di voti. Queste forze avrebbero ottenuto il 65% dei seggi, rendendo, così, più sicura la maggioranza a sostegno del governo. Questa legge fu in vigore solo per le elezioni del 1953, non scattando per pochi voti, ma venne subito dopo abrogata.
Anche la riforma elettorale con cui si è allestito il sistema maggioritario non è stata sufficiente: tanto che è stata cambiata dopo tre prove. La legge attuale, infine, non ha praticamente padri ufficiali e probabilmente (magari attraverso il referendum) sarà stata utilizzata una sola volta.
Proprio sulla base di queste esperienze, sarebbe forse opportuno che coloro che oggi sono impegnati nella ricerca di una comune base legislativa per le riforme e coloro che li seguono sui giornali e alla televisione, si chiedessero da dove nasce la stabilità. Nasce dal disporre di una maggioranza parlamentare sufficientemente ampia per attuare un programma? Nasce dall'avere lo stesso governo per cinque anni? Nasce dall'abituarsi a tenere in vita la legislatura per cinque anni? E se queste sono le basi della stabilità, quale impalcatura elettorale bisogna allestire perché si formino e si consolidino?
L'esperienza degli anni della stabilità italiana dimostra che si tratta certo di strumenti necessari, ma non del fondamento della stabilità.
Il fatto è che in una società complessa la politica da sola non crea stabilità; vi contribuisce ma non la determina. Tanto meno può determinarla un sistema di elezione. La stabilità è piuttosto originata dalla ampia condivisione sociale di obiettivi, di strumenti di governo, di interessi prevalenti.
È quanto è avvenuto nei primi quarant'anni della nostra Repubblica italiana, appunto tra il 1948 e il 1988: l'apparente instabilità politica (statisticamente misurata dal numero di governi che si sono succeduti) ha accompagnato una stabilità programmatica nei settori decisivi, di cui la stabilità dei partiti è stata contemporaneamente premessa e garanzia.
Vediamo alcune di queste scelte che sono diventate stabili per la società e la politica italiane ed hanno dato loro stabilità. Ovviamente vado solo per titoli, ciascuno dei quali offre spunti in più direzioni.

Politica estera. Comincio dal settore nel quale maggiormente la stabilità quarantennale dell'Italia non è stata messa in discussione se non dopo lo spartiacque rappresentato dalla fine dei partiti nazionali.
Ancora prima dell'adesione alla Nato, va ricordato che l'Italia nel 1947 era stato il primo fra i paesi sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale ad essere ammesso al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale.
Stabilità atlantica. Contro il Patto Atlantico c'è stata una durissima opposizione del Pci. Inevitabile perché la fuoriuscita del Pci dal numero dei partiti destinati a governare originava dalla divisione del mondo in due blocchi. Ma una volta stabilizzato il ruolo dell'Italia sulla scena internazionale, l'Alleanza atlantica è diventata patrimonio comune.
Integrazione europea e guida da paese fondatore (De Gasperi, Spinelli). Qui le maggiori divergenze nella fase della Seconda Repubblica.
Politica di pace attraverso l'Onu e missioni internazionali delle nostre Forze armate. Mediazione mediterranea con attenzione al mondo arabo.

Politica economica. Il maggiore partito italiano, la Dc, si definiva partito interclassista (Ezio Vanoni) e prevedeva la collaborazione tra le varie classi sociali per realizzare un'economia sociale di mercato, cercando di conciliare le dottrine capitaliste e liberiste con una visione sociale dell'economia.
Ampliamento delle persone che hanno disponibilità della ricchezza nazionale. Alcide De Gasperi era già presidente del Consiglio quando scriveva: "Il regime democratico non vive senza l'impegno di tendere con tutti i mezzi verso la giustizia sociale. E questo esige sacrifici da parte di chi ha a favore di chi non ha, ed ha il diritto di avere".
La redistribuzione come diritto. La democrazia economica come elemento costitutivo della democrazia politica.
Lasciar fare alla piccola impresa unipersonale.
Redistribuzione della terra attraverso la riforma agraria e i patti agrari.
Possesso dell'abitazione (il Piano Fanfani per le case popolari appartiene al periodo degasperiano).
Riforma tributaria.
Scuola di massa.
Università di massa.
Presenza pubblica decisiva nell'economia
Reti dei servizi.
Creazione dell'Eni (già con De Gasperi).
Rilancio dell'IRI (De Gasperi) per essere presenti nei settori strategici.
Salvataggi delle imprese (Iri, Efim).
Incentivi alle grandi imprese (Fiat, Olivetti, Cirio).
Cassa del Mezzogiorno (De Gasperi).
Ampliamento del patrimonio di edilizia residenziale pubblica.
Ruolo decisivo del sindacato
Dalla contrattazione alla concertazione. Si tratta di una politica costosa. Quando la redistribuzione ha raggiunto la maggioranza dei cittadini è diventata insostenibile politicamente, proprio a partire dalle regioni in cui la redistribuzione è arrivata prima: la Lega nasce da qui ("egoismo" della Lega). Il dibattito sulla "società dei due terzi".

Politica costituzionale. La salvaguardia della Costituzione è stata al centro della stabilità politica. La struttura è rimasta integra: anche l'applicazione di norme costituzionali cogenti come l'ordinamento regionale è avvenuta senza intaccare la centralità dello Stato.
La riforma del titolo V della Costituzione è avvenuta successivamente alla fine della stabilità politica.

Questa è la stabilità. Si tratta di settori decisivi. Sono stati decisivi nei primi quarant'anni di Repubblica. Lo sono tuttora.
Anche con questa constatazione propongo di discutere su un'altra delle certezze che l'opinione pubblica, gli studiosi e molta parte della rappresentanza politica hanno: cioè che il sistema politico italiano abbia sempre avuto una estrema difficoltà di prendere decisioni; anzi che non sia proprio in grado di prendere decisioni.
Ma se guardiamo ai quarant'anni che stiano esaminando, ci accorgiamo che questa affermazione è vera solo in parte: quando hanno voluto, quando è stato necessario, governo e parlamento hanno saputo prendere decisioni importanti e di notevole rilevanza. Scelte che costituivano le attese della maggioranza dei cittadini, anche dei cittadini la cui espressione di voto era magari per l'opposizione; scelte a volte duramente contrastate dalla opposizione ma che una volta prese sono diventate patrimonio nazionale, proprio perché avevano questa caratteristica.
Questa è la stabilità:
- stabilità effettiva perché l'amministrazione si attrezza nel lungo periodo e non aspetta a vedere cosa succede con la maggioranza successiva;
- stabilità percepita, perché i cittadini si sono rassicurati che si va nella direzione buona, comune, sostanzialmente condivisibile.

Conclusione. Il tema della stabilità non è solo materia di confronto tra i partiti, è un'esigenza indubbiamente avvertita dall'opinione pubblica.
Le ragioni di questo interesse:
- fastidio di sentire la politica parlare di se stessa e non della vita delle persone e delle comunità; se la questione fosse risolta una volta per tutte a cadenza periodica e poi i telegiornali fossero riempiti da confronti sul funzionamento della scuola, sul peso della disabilità e via vivendo, l'opinione pubblica avrebbe la certezza che la politica passa in suo tempo a governare e non a guardarsi nello specchio delle agenzie di stampa e sentire la propria eco nel pozzo della tv;
- l'esigenza di vivere in una comunità che generalmente si riconosce come tale, che non è divisa a priori, che non ha tifoserie sempre all'erta; anche questo spirito nazionale è una aspettativa che la politica non soddisfa.
È quindi non solo riduttivo ma anche rischioso concentrare l'attenzione solo sulla riforma elettorale. Poiché è un tema tecnico, esso non appassiona l'opinione pubblica, se non una minoranza politicamente attiva; continuando a parlarne, si rischia di creare un rigetto ulteriore tra i cittadini.
Inoltre - ed è la preoccupazione maggiore - si sta trasformando il senso del voto e quindi il senso ed il valore della partecipazione dei cittadini.
Il principale scopo del sistema elettorale in una democrazia effettiva deve essere quello di assicurare il massimo di espressione delle indicazioni dei cittadini. Questa espressione deve poi tradursi in capacità di governo, proprio perché le indicazioni dei cittadini siano applicate. Oggi invece si parte dall'esigenza di governo e ad essa si vuole adattare il quanto è consentito di espressione dei cittadini.
Non è propriamente una prospettiva entusiasmante.
Non ho ovviamente la ricetta. Ho un'esperienza.
Per 12 anni anche chi non mi aveva dato il voto, dopo le elezioni si sentiva in diritto di domandarmi ragione delle mie scelte e delle mie attività per il territorio: questo atteggiamento è decisivo per lo sviluppo della democrazia e per l'esercizio della sovranità popolare. L'avervi rinunciato è stato un grave impoverimento della politica. Mi auguro che qualunque sia la soluzione che si troverà, questo stretto legame fra territorio ed eletti, questa rappresentanza istituzionale e non solo politica degli eletti siano valorizzati.

29 novembre 2007


21 dicembre 2007
po-021
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Tino Bedin