di Tino Bedin senatore Margherita-L'Ulivo
La politica di genere non è stata in questi anni nell'agenda della Destra di governo. Non se ne è stupito nessuno. I temi delle Pari Opportunità sembrano però annotati per "l'anno del poi" anche nell'agenda dell'opinione pubblica e in quella delle priorità dello stesso centrosinistra. Questa è invece una novità.
La convinzione che si respira e che arriva ai cittadini è: le questioni della Parità, i temi della vita delle donne sono importanti, ci interessano, ma adesso c'è dell'altro da fare; di Pari opportunità può interessarsi una società tranquilla e in crescita, non una società insicura sul proprio futuro e impegnata ad evitare il declino economico. Le Pari Opportunità sono vissute come una sfida bella, ma non decisiva; hanno lo stesso destino della Cooperazione allo sviluppo o del Disarmo nucleare: appassionano, ma se ne può anche fare a meno.
Una direttiva e una legge costituzionale. Questa "presa di distanza" non si è ridotta neppure in passaggi rilevanti in cui l'attuale legislatura ha incrociato per scelta o per necessità il tema della Parità.
Alla fine di maggio di quest'anno il governo ha approvato il decreto legislativo che recepisce nel nostro ordinamento giuridico la direttiva europea 2002/73/Ce sull'attuazione del principio della parità di accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e nelle condizioni di lavoro. Non c'è stato praticamente dibattito pubblico attorno a questo provvedimento del governo, né nella fase di valutazione da parte del Parlamento né successivamente alla sua approvazione. Eppure nella precedente legislatura si era a lungo discusso, sia in Parlamento sia nella società, ad esempio delle molestie sessuali sul posto di lavoro, che la direttiva europea del 2002 sancisce definitivamente come discriminazione e vieta esplicitamente perché comportamento indesiderato, connesso al sesso di una persona, avente lo scopo o l'effetto di violarne la dignità e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
Anche l'unica legge votata nel corso della legislatura in tema di Parità non ha in concreto prodotto effetti. Si tratta di una legge importante, perché ha modificato la Costituzione: mi riferisco alla Legge costituzionale 1, del 30 maggio 2003, con cui si è integrato l'articolo 51 della Costituzione. Ora questo articolo così recita: "Tutti i cittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini". La modifica è nell'ultimo periodo.
In oltre due anni dalla promulgazione della legge la Repubblica non ha promosso proprio nulla, se non qualche disegno di legge che non è stato votato in nessun ramo del Parlamento. Ma per questo ritardo non si trova esecrazione o almeno un po' di scandalo nell'opinione pubblica, neppure in quella più attenta ai diritti civili e alla cittadinanza.
Un approccio corretto per il centrosinistra. Come ho detto, questa è l'unica legge sulla Parità in cinque anni. Il centrosinistra che si propone per il governo dell'Italia nei prossimi cinque anni avrà quindi anche in questo settore molto terreno da far recuperare alla società italiana. Non sarà facile, non tanto per i ritardi accumulati, quanto per la convinzione diffusa che non si tratti di una questione di attualità e per la tendenza ad inglobare il tema della Parità nel tema delle politiche familiari ed in quello più generale dell'ammodernamento dello Stato sociale; quasi che la Parità sia una questione da affidare ai servizi sociali.
In questo contesto è importante che la Margherita del Veneto, nell'ambito degli approfondimenti sull'apporto da offrire al programma di governo dell'Unione abbia individuato fra i temi quello delle Pari Opportunità. Anche se il gruppo non è particolarmente frequentato - a conferma del basso grado di attualità percepito - è meritorio che se ne parli qui a Lignano. La condizione delle donne è infatti uno degli elementi essenziali ed innovativi dello sviluppo che possiamo proporre alla società italiana.
Per non sprecare il "capitale umano" femminile. IInvestire il "capitale umano" è una delle condizioni perché l'Italia sia competitiva e partecipi alla più generale sfida europea che ha come obiettivo la nascita della Società della conoscenza. Se si guarda alla situazione attuale delle donne in Italia risulta del tutto evidente lo "spreco" di capitale umano già in atto e destinato ad accumularsi se non si procede rapidamente. Le donne italiane hanno accresciuto negli ultimi vent'anni le possibilità di raggiungere i titoli di studio superiori ed oggi esse ottengono diplomi e lauree più frequentemente degli uomini. Solo che il prodotto di questo investimento sia personale e familiare che collettivo nella formazione femminile è ancora utilizzato in misura inferiore rispetto al prodotto dell'investimento sui maschi.
Far partecipare un numero crescente di persone (che statisticamente comporta soprattutto un numero crescente di donne) alla sfida economica italiana, significa avere a disposizione più capitale umano, valorizzando adeguatamente l'investimento formativo che su ragazzi e ragazze la comunità ha fatto.
Servono dunque leggi, programmi finanziari, contratti sindacali, che nell'ambito di un progetto condiviso di sviluppo accrescano negli anni il livello di occupazione femminile.
Nell'ambito della "Strategia di Lisbona", cioè del progetto di sviluppo economico e sociale comune, l'Unione Europea si è posta fin dal 2000 un obiettivo-quadro ambizioso: per il 2012 il 60 per cento delle donne delle donne deve avere un lavoro in Europa. Un programma di legislatura tra il 2006 e il 2011 in Italia dovrebbe mettere a disposizione norme e risorse perché l'Italia contribuisca positivamente all'obiettivo europeo, sapendo che da noi si parte più indietro della media continentale. La parità di accesso alle professioni in Italia è infatti ancora molto lontana: per il World economic forum, per citare uno studio di quest'anno, nella lista sulla disparità fra i sessi l'Italia è al quarantesimo posto su 53 paesi, secondo le misure degli indicatori di retribuzione, accesso al lavoro e qualità della vita. Davanti alle italiane ci sono le donne argentine, cinesi e russe.
I fondi europei, in particolare con l'iniziativa Equal, costituiscono una base economica significativa, cui aggiungere risorse sia nazionali che regionali e locali.
In particolare le amministrazione provinciali potrebbero costituire il punto di riferimento per programmi territoriali, mirati non solo sulle amministrazioni pubbliche ma anche sulle medie e piccole imprese del Veneto, con il coinvolgimento delle banche locali. L'amministrazione provinciale di Venezia ha - ad esempio - attivato il progetto "Ponti" per le pari opportunità nei territori e nelle imprese, che copre un periodo tra il 2005 e il 2007. Pensato per "l'ideazione e la sperimentazione di nuove pratiche di lotta alla disuguaglianza e all'esclusione in ambito lavorativo", il progetto "Ponti" potrebbe costituire la base per iniziative di distretto promosse anche in altre realtà del Veneto.
Meno ostacoli collettivi, più disagi personali. Al conseguimento dell'obiettivo della piena valorizzazione di tutto il capitale umano disponibile non bastano però le politiche attive del lavoro femminile.
Lo conferma la vita delle ultime generazioni di giovani donne italiane, che entrano nel mondo del lavoro con una frequenza abbastanza vicina a quella dei loro coetanei, ma che tuttora restano al lavoro molto meno degli uomini. Il miglioramento delle opportunità lavorative sta andando di pari passo con un forte innalzamento dell'età del matrimonio e con un sensibile calo del tasso di fecondità. In sintesi: per le giovani donne ci sono meno ostacoli collettivi al lavoro, ma più disagi personali.
Possiamo continuare a far pagare individualmente alle singole donne questo costoso "abbonamento" alla parità di lavoro? Direi di no.
Innanzi tutto non si tratta di un "destino" cui rassegnarsi. Complessivamente in Europa le donne occupate si sposano ed hanno figli alla stessa età, se non prima, delle donne non occupate. Addirittura il tasso di fecondità tende ad andare di pari passi con il livello di occupazione femminile: in famiglia il lavoro femminile produce anche le risorse economiche e psicologiche per realizzare il desiderio della genitorialità.
In secondo luogo il prolungarsi del "disagio personale" determina la fuoruscita precoce dal lavoro di una parte delle donne. Così allo "spreco" di una formazione non del tutto utilizzata socialmente, si aggiungere il sottoutilizzo dell'investimento sia personale che collettivo nella pratica del lavoro.
In terzo luogo una risposta politica e collettiva al "disagio personale" delle giovani donne lavoratrici aiuterà il superamento nella cultura e nei fatti della consistente asimmetria tra le donne e gli uomini nella divisione del lavoro di cura. L'ultimo dato di cui disponiamo risale al 2002: allora solo un decimo (il 10,9 per cento) dei mariti italiani occupati dichiarava di svolgere almeno 10 ore settimanali di attività domestiche; da parte loro più della metà (il 55,7 per cento) delle donne occupate dichiarava di dedicare al lavoro domestico più di 34 ore settimanali.
L'asilo nido non è assistenza sociale. Il superamento di questo diffuso, generalizzato "disagio privato" delle giovani donne italiane, può essere il filo conduttore delle nuove politiche di welfare di cui l'Italia ha bisogno. La proposta del centrosinistra agli italiani potrebbe essere questa: aggiorniamo e modifichiamo lo Stato sociale non perché le risorse non bastano, non perché pensiamo che una serie di bisogni vadano privatizzati, ma perché insieme dobbiamo passare dalla società di individui alla società di coppia.
Le mense, gli asili nido, le detrazioni per le collaborazioni familiari, l'autonomia della vita anziana contribuiscono direttamente all'accesso e alla permanenza delle donne nel lavoro, nella politica, nella società. Invece il welfare attuale affida di fatto solo alle donne la gran parte del lavoro di cura familiare. Lavoro aggiuntivo nel caso delle donne occupate. Quelli che ho descritti non sono dunque interventi da "assistenza sociale", ma condizioni preliminari per il raggiungimento di diritti di cittadinanza e di sviluppo economico generale.
A nessuno viene in mente di considerare una strada come un "servizio sociale" per far uscire dall'isolamento un certo numero di cittadini. Tutti consideriamo le strade, le ferrovie, come elementi indispensabili in una società della comunicazione e della mobilità. Così è anche un asilo nido: è indispensabile alla società di coppia, è un investimento per valorizzare donne e uomini di questa società.
In tema di asili-nido, un'annotazione: l'approccio che ho descritto giustifica la circospezione con cui guardare alla politica degli asili-nido aziendali promossa dalla Destra a livello nazionale attraverso incentivi finanziari e concretizzata dalla Regione Veneto. La circospezione nasce dalla constatazione della loro utilità, ma anche dalla consapevolezza che diventano immediatamente strumenti di fidelizzazione all'impresa, riducendo la libertà della coppia, invece che aumentarne le opportunità.
È un'altra dimostrazione che con le Politiche di Parità non si costruiscono soluzioni di nicchia, non si soddisfano solo bisogni individuali e progetti di minoranza. Piuttosto le Pari Opportunità diventano il volano per l'ammodernamento complessivo del sistema economico e sociale italiano.
L'apporto femminile nelle istituzioni. Lo possono essere anche del sistema politico. Si tratta di un capitolo che mi limito ad accennare, anche se la presenza paritaria di donne ed uomini nelle istituzioni è la condizione per accelerare le politiche economiche e sociali, che ho descritte. La società di coppia si configura meglio e prima attraverso l'apporto della coppia: a partire, ad esempio, dall'organizzazione degli orari della città, solo per citare un intervento concreto, alla portata di molte amministrazioni locali.
Le amministrazioni locali possono dotarsi di uno strumento molto efficace per aprirsi all'apporto femminile nella progettazione del Comune: mi riferisco al Bilancio sociale, che con il suo contenuto di verifica ben si addice alle capacità femminili. Attraverso poi la concretezza delle cifre consente l'apporto di molteplici professionalità femminili e una partecipazione non immediatamente partitica ma comunitaria alla politica.
Come ho detto, alla riforma dell'articolo 51 della Costituzione non ha fatto seguito nessuna decisione operativa. Probabilmente non ne saranno prese da qui alla fine della legislatura. Occorrerà allora che i partiti del centrosinistra e l'Unione nel suo insieme assumano un'iniziativa autonoma ma chiaramente politica per chiedere e consentire a moltissime donne di misurarsi nelle istituzioni repubblicane.
La strada delle "quote di genere" è oggi quella più praticabile. So che ci sono obiezioni; so che qualcuno sostiene che il problema non si risolve con le "riserve". Ci sono insomma obiezioni anche fondate. Ma la domanda non è se le quote di genere sono buone o no. Allo stesso tempo non è neppure una questione statistica, anche se le cifre sono eloquenti: nell'attuale Parlamento le donne rappresentano l'11 per cento dei deputati e l'8 per cento dei senatori; percentuale che ci colloca al settantesimo posto nella classifica dei parlamenti del mondo e al ventinovesimo dei parlamenti d'Europa.
La questione essenziale è: possiamo continuare a rinunciare anche nelle istituzioni all'apporto di una parte decisiva della nostra società? Penso che concordiamo nel dire che non è possibile. E allora una strada va percorsa. Indicando anche il traguardo: utilizzare le quote per due o tre elezioni, finché si riduce il divario, Poi donne e uomini cammineranno sulle loro gambe.
Lignano Sabbiadoro, 17 settembre 2005 Il testo raccoglie sia lo schema della relazione che risposte al dialogo con i partecipanti al Gruppo di Lavoro sulle Pari Opportunità nell'ambito di "Margherita In Forma 2005"
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