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Alla fine il Signore l'ha staccata dalla croce. La malattia alla quale Maria Grazia Giachè era inchiodata da quasi cinque anni era diventata insopportabile anche per lei, che pure sapeva credere e far credere nella vita. E il Signore allora le ha cambiato vita: nell'età in cui la vita terrena diventa matura, Maria Grazia è passata alla giovinezza dell'eternità.
Il funerale di una donna di cinquant'anni è sempre una costernazione. Lo è anche il suo nella chiesa di San Camillo de Lellis, la sua parrocchia. Una costernazione grande, diffusa di cui è immagine concreta la chiesa piena: siamo qui per lei; siamo qui per la sua famiglia. La presenza dice da sola che lo spirito di vita di Maria Grazia ha contagiato molti, al punto che non vogliamo arrenderci.
La liturgia è però una preghiera alla vita: la vita vera, quella che si imbatte nella difficoltà, nella tribolazione, nella morte, ma alla fine vince. La prima Lettura fa riecheggiare il termine biblico "tribolazione". È stata così l'ultima parte della vita di Maria Grazia. Il Vangelo è quello del chicco di grano: "In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna". Alla fine della liturgia funebre il "molto frutto" di Maria Grazia di materializza nella lettera alla mamma morta scritta da uno dei due figli e letta dal celebrante.
Anche la Preghiera dei fedeli è carica di dolore e di speranza. L'ha scritta e la legge Mariagrazia Lincetto: è una sua collega di lavoro fin dai tempi del Riab. Erano in tre al Raggruppamento delle istituzioni di assistenza e beneficenza di Padova: Maria Grazia Giachè, Simonetta Longhin (anche lei in chiesa tra le persone più care) e Mariagrazia Lincetto. È al Riab che ho conosciuto Maria Grazia, quando ne sono diventato presidente. Ciascuna delle tre aveva un suo ruolo, ma tutte facevano tutto in una piccola istituzione pubblica, che comunque aveva a che fare con persone fragili.
Maria Grazia si era presa come impegno in particolare le persone che abitano nella "Casa delle Vedove": un gruppetto di donne avanti con gli anni, sole, quasi tutte qualche acciacco. Era il loro riferimento non solo istituzionale; l'aspettavano e la ascoltavano, perché ogni volta lei parlava soprattutto della vita, indicava la strada oltre la malattia, oltre la solitudine, oltre le inevitabili incomprensioni di una comunità. Quando ha cominciato a diradare la presenza, è toccato a me ricordare le sue parole, il suo sorriso, la sua voce. Serviva.
Quando abbiamo unificato Ira e Riab ed è nata AltaVita, Maria Grazia Giachè e le sue colleghe sono passate alla nuova istituzione. Oggi pomeriggio nella chiesa di San Camillo, con me c'è il direttore generale di AltaVita Sandra Nicoletto. Avevamo fatto conto della sua competenza e delle sue attitudini per rafforzare AltaVita. La Provvidenza aveva però altri progetti per Maria Grazia. Ha potuto frequentare pochissimo il suo nuovo ufficio, quel tanto che bastava perché ci facessimo persuasi che l'attaccamento alla vita di Maria Grazia avrebbe avuto la meglio sulla malattia.
Invece oggi pomeriggio vediamo che la vita di Maria Grazia era già un'altra. Ce lo sta raccontando durante tutta la liturgia il coro che accompagna il funerale. Un funerale che diventa un'offerta, una "consegna", come insiste il celebrante. E uscendo mi porto dietro il canto all'Offertorio.
Nebbia e freddo, giorni lunghi e amari
mentre il seme muore.
Poi il prodigio antico e sempre nuovo
del primo filo d'erba.
E nel vento dell'estate ondeggiano le spighe
avremo ancora pane.
Nei filari dopo il lungo inverno
fremono le viti.
La rugiada avvolge nel silenzio
i primi tralci verdi.
Poi i colori dell'autunno coi grappoli maturi
avremo ancora vino.
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