Assemblea a Padova promossa da Ds e Sinistra Giovanile No alla guerra, siamo europei
Abbiamo sperimentato che la pace è più produttiva e dura a lungo
La Federazione provinciale dei Democratici di Sinistra e la Sinistra giovanle di Padova hanno organizzato il 7 febbraio una assemblea pubblica che ha offerto una serie di punti di vista di opposizione alla incombente guerra in Iraq. Tra i relatori anche il senatore Tino Bedin, parlamentare dell'Ulivo, che ha approfondito in particolare le reazioni dell'opinione pubblica e gli effetti negativi di una guerra sul futuro politico europeo. Riportiamo la relazione di Tino Bedin.
relazione di Tino Bedin senatore dell'Ulivo
Ho una ragione in più per dire "no alla guerra": devo dire "no" perché sono un parlamentare; sono chiamato cioè e parlare non a titolo personale, ma a nome delle persone che rappresento, quelle che hanno contribuito ad eleggermi ed anche le altre.
A queste persone l'Iraq fa paura, la guerra ancora di più, secondo il sondaggio realizzato da Eurisko per Repubblica e pubblicato il 4 febbraio, martedì scorso. Anche nel caso di un´azione supportata dai principali alleati, svolta sotto l´egida delle Nazioni Unite, solo il 28 per cento degli italiani interpellati sarebbe favorevole alla guerra. Una percentuale che scende sotto il 10 per cento in assenza di un pronunciamento favorevole del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Posizioni che si riscontrano, in modo piuttosto trasversale, nei diversi settori della popolazione.
L'Italia è già stata arruolata. Ritornerò su questo sondaggio. Per ora osservo che cifre così "schierate" sono già un elemento di valutazione chiaro per un parlamentare.
Dovrebbero esserlo anche per il Parlamento come istituzione e soprattutto per il Governo. Lo sono? A me pare di no. E lo dico ancora come parlamentare, in questo caso come membro della Commissione Difesa.
L'orientamento dei cittadini non è chiaro al governo: non tanto per le parole che ieri il presidente del Consiglio ha pronunciate in Parlamento. Purtroppo contano altre parole: sulle scelte compiute dall'Italia il parlamento ed i cittadini sono stati informati dal portavoce del dipartimento di Stato, da funzionari dell'ambasciata israeliana, da capo della spedizione militare americana in Afghanistan. Berlusconi ha riservato a loro gli annunci sgradevoli ed a sé qualche piccola ritirata.
Con questa tecnica l'Italia è già stata arruolata: prima attraverso l'invio di un contingente sotto guida americana in Afghanistan; poi con la concessione all'uso dello spazio aereo e delle basi militari, proprio nei giorni in cui la Nato si riservava (e continua a riservarsi) un'assistenza agli Usa e alla Turchia. Bastava aspettare la Nato, decidere assieme alla Nato sul supporto logistico alla deterrenza americana; bastava inviare nuove truppe italiane alla missione delle Nazioni Unite a Kabul. E non saremmo già arruolati.
Effetti collaterali: sta già diminuendo la coesione europea. Abbiamo invece un'altra ragione comune a tutti per "dire no" alla guerra: noi europei dobbiamo evitare che uno degli "effetti collaterali" di una guerra in Iraq sia l'indebolimento dell'Europa.
Il rischio di guerra è infatti accompagnato dal rischio di frattura e di arretramento nel processo di unità Europea.
Non si tratta solo di un rischio. Ci sono già tre fatti molto gravi.
Il presidente greco, presidente di turno dell'Unione Europea, si è visto respingere proprio dall'Italia la proposta di una riunione straordinaria dei capi di stato e di governo per dare una voce, se non comune, almeno non dissonante all'Europa. Non è consueto in diplomazia rifiutare un invito. Si fa in modo che l'invito non venga presentato. Lasciarlo arrivare e poi respingerlo, significa volere sottolineare il proprio ruolo alternativo.
In effetti - ed è il secondo fatto - l'Italia ha preferito perseguire assieme ad altri sette paesi una dichiarazione di solidarietà agli Usa anziché all'Onu: iniziativa grave sul piano politico, ma anche e soprattutto come messaggio.
Ed infatti il messaggio è stato subito colto da dieci paesi dell'Europa orientale, sette dei quali entreranno nell'Unione Europea a due riprese tra il 2004 e il 2007, che hanno sottoscritto questa settimana un appello per invocare "la solidarietà transatlantica per far fronte alla minaccia rappresentata dal legame fra terrorismo e dittatori in possesso di armi di distruzione di massa".
Lungo tutto il 2002, cioè lungo tutto il primo anno di circolazione dell'euro e di preparazione alla decisione dell'allargamento, Romano Prodi ha sostenuto che dopo l'euro è necessaria l'Europa Unita per fare del nostro continente un "giocatore globale": un soggetto politico nuovo e pacifico nel quale il mondo possa avere un riferimento ed un interlocutore.
La prospettiva della guerra sta addirittura facendo regredire - ed è il terzo fatto - delle scelte di politica estera e di politica militare cui pazientemente sia la Commissione che il Consiglio hanno portato l'Unione e su cui intanto la Convenzione europea - incaricata di scrivere la bozza del nuovo Trattato costituzionale dell'Unione - sta fondando una parte rilevante del futuro dell'Europa.
L'interesse strategico dell'Italia è multilaterale. Il governo italiano, anche per le specifiche responsabilità di membro attuale della Troika europea e prossimo presidente dell'Unione, deve impegnarsi a ripristinare una linea unitaria dell'Europa e a muoversi dentro questa linea unitaria.
L'interesse strategico dell'Italia consiste nel dare legittimità e forza ad una grande Europa, dotata, a partire dalle sei nazioni fondatrici, di strumenti di difesa e di politica estera credibili.
Lo deve fare per tenere ferma l'amicizia e l'alleanza con gli Stati Uniti, per fare in modo che l'Occidente continui ad essere la terra dei diritti individuali e collettivi, della pace, della tolleranza. Questa va a vantaggio di tutti: dell'Europa, degli Usa, di altri popoli.
L'alternativa è che il conflitto sempre più annunciato allenti o spezzi l'antico rapporto tra Europa e Stati Uniti. E questa frattura potrebbe ripercuotersi all'interno dell'Europa, riportandoci indietro di decine di anni e soprattutto determinando una nuova posizione di forza da parte della Russia proprio sul continente europeo.
Paradossalmente la decisione del governo italiano di stare comunque dalla parte di Bush in questa scelta tra la guerra e la pace, rischia di avere uno sbocco esattamente opposto a quello che - maldestramente - Berlusconi va raccontando all'"amico Putin" e cioè che l'Unione Europea potrà comprendere anche la Russia; il rischio è che la Russia torni ad essere polo di attrazione di una parte dell'Europa.
La vera priorità e la pace in Palestina. E c'è un effetto collaterale sull'Europa ancora più concreto, immediato. Riguarda il Mediterraneo.
Il Parlamento europeo ha votato il 30 gennaio scorso una risoluzione sulla situazione in Iraq che è totalmente condivisibile e che riflette il pensiero degli europei.
Al punto 9 "invita il Consiglio a compiere ogni sforzo per fermare la guerra in Medio Oriente; a tale riguardo invita la Presidenza del Consiglio e l'Alto Rappresentante per la PESC ad affermare chiaramente all'amministrazione Usa che una soluzione per il conflitto del Medio Oriente è la massima priorità per l'UE e che un'iniziativa internazionale forte e convincente per una celere applicazione del piano dettagliato proposto dal Quartetto (UE, USA, ONU e Russia) non può essere ulteriormente procrastinata".
Mi sembra particolarmente importante che nello scenario della guerra annunciata il Parlamento europeo indichi non nella guerra a Saddam, che pure va disarmato, ma nella fine della guerra in Palestina la autentica priorità per l'area.
Oltre alla ragioni umanitarie e politiche locali, c'è in questo orientamento una scelta vitale per l'Europa: qui nel Mediterraneo, l'Europa infatti può lavorare per far nascere attorno a sé quel "circolo di amici", come li ha chiamati Romano Prodi, che partecipino alla sicurezza, alla propsperità e alla solidarietà dell'Europa Unita pur senza farne parte. Entro il 2010 il bacino del Mediterraneo e l'Europa dovrebbero diventare una grande area di libero scambio: è un impegno già preso da tempo dall'Unione e che la presidenza greca e la presidenza italiana hanno detto di voler realizzare per la parte che loro compete.
Ma anche in questo caso: come farà un'Italia che ha scelto preventivamente la guerra in Iraq ad essere interlocutore credibile con il fianco sud del Mediterraneo?
Ma soprattutto: quale sarà lo scenario mediterraneo dopo una eventuale seconda guerra del Golfo? Sarà ancora possibile continuare una politica di coesistenza, che tra l'altro significa soluzione comune nella gestione degli spostamenti di persone?
Oppure - anche in questo caso - la politica italiana è cambiata al punto che nel governo c'è chi dice che occorre far entrare Israele nell'Unione Europea e indica così non la volontà di pacificare l'area ma di affermare un'identità contro altre identità?
L'Europa e l'Italia in Europa hanno invece bisogno di un Mediterraneo pacificato e amico: oggi per gestire positivamente il movimento delle persone, domani per avere appunto un circolo di amici con cui scambiare valori e prodotti, cultura e persone.
Il bisogno della "saggezza" europea. La pace è infatti il motore dell'Europa.
Torno al sondaggio di Eurisko per Repubblica; intanto con altre due cifre che riguardano l'Europa.
Gli italiani chiedono al proprio paese di schierarsi con l´asse franco-tedesco, nel tentativo di frenare la macchina bellica ormai in moto (66%). Allo stesso tempo, gli intervistati lamentano la mancanza di una posizione unitaria su scala continentale, cui tutti i paesi dovrebbero adeguarsi. Secondo il 62%, infatti, l´Unione europea dovrebbe, su temi di questo tipo, parlare con una sola voce.
Ecco l'altra cifra, sempre europea. Un'indagine internazionale condotta da Gallup nei giorni scorsi registra orientamenti simili a quelli di Eurisko in Francia, Germania, Spagna (qui il rifiuto della guerra, con o senza l´Onu, sale al 70%).
L'Europa a cui fa riferimento la maggioranza degli italiani e la maggioranza degli europei è quella che l'amministrazione americana ha definito "vecchia" e che Prodi ha definito "saggia".
Non se se interpretando questi dati, ma certo vi si adattato benissimo, Massimo D'Alema ha ieri alla Camera, commentando le comunicazioni di Berlusconi, osservato: "Dovere dell'Europa sarebbe oggi gettare sul piatto della bilancia di questa crisi la sua unità e la sua saggezza. Lei ha lavorato per minare l'unità dell'Europa e, certamente, non ne ha mostrato il volto più saggio; per questo motivo, signor Presidente del Consiglio, non siamo solidali con lei".
E Rutelli ha incalzato, rivolgendosi al capo del governo: "Lei è il promotore di un'Italia piccola, che contribuisce alla divisione dell'Europa e, dunque, a fare più piccola anche quest'ultima".
Non siamo disposti a rinunciare alla pace. C'è invece qualcuno che ritiene che a far "piccola l'Italia" siano gli italiani che non vogliono la guerra. Ilvo Diamanti - commentando i risultati del sondaggio - mette in evidenza il peso delle "donne, delle mamme, della casalinghe".
Commenta Diamanti: "il "pacifismo all'italiana", insomma ha profonde radici nell'insicurezza dei settori sociali che, più di altri, percepiscono l´impossibilità di "difendersi dal mondo", anche chiudendosi in casa. Coloro che temono per il presente e il futuro dei loro familiari, dei loro figli".
E se fosse invece che la gran parte delle mamme e dei papà italiani, oltre che ovviamente dei loro figli, sono nati e cresciuti nella pace che l'Europa si è assicurata? Se fosse che nella pace hanno visto cambiare le loro condizioni di vita rispetto a quelle dei loro genitori? Se fosse che sono così educati alla pace da non essere disposti a rinunciarvi e da chiedere che la politica si adatti a questa nuova condizione?
Se dicessimo no alla guerra, perché abbiamo visto che la pace funziona meglio e può anche durare a lungo ed è contagiosa? Se dicessimo no alla guerra solo perché siamo europei?
7 febbraio 2003 |