È silenziosa la mafia. Così silenziosa che non solo in Sicilia, ma anche altrove in Italia - a Roma come in Veneto - sono in pochi che la vedono. Non uccide più, non organizza più attentati. È passato un quarto di secolo dalle stragi organizzate dalla mafia per fermare con il tritolo prima il giudice Falcone poi il giudice Borsellino: è storia, è doverosa commemorazione; non è più l'attualità.
Parla, però, la mafia. Parla nelle amministrazioni comunali; parla nei consigli di amministrazione delle aziende; parla in tedesco e in inglese, in spagnolo e in russo. Parla e si fa ascoltare al Nord e al Sud; nei paesi di Sicilia, Calabria, Campania e nelle grandi città europee ed americane.
Sono parole che feriscono istituzioni ed economia, democrazia e globalizzazione. Spesso sono ferite mortali, perché istituzioni decadono e aziende falliscono. Stragi di democrazia e stragi di lavoro segnano gli anni del "silenzio" della mafia.
Le amministrazioni comunali sciolte per mafia. Tra il 1991 e il 2017 sono state sciolte per mafia 290 amministrazioni comunali, proprio una strage: 101 in Campania, 98 in Calabria, 70 in Sicilia, 10 in Puglia. Nell'elenco compaiono anche comuni di Liguria, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. Nel 2017 gli scioglimenti sono stati 20; tanti quanti nel 1991 (anno di approvazione della legge 221 del 22 luglio) e nell'anno successivo. Segno che l'infiltrazione mafiosa scardina le difese che la democrazia allestisce di volta in volta. Ci sono comuni nei quali non si riesce ad eleggere il sindaco. In altri i sindaci provengono direttamente dalla mafia o dalla 'ndrangheta. Più stabilmente ormai la criminalità organizzata ha le proprie persone nella struttura burocratica delle amministrazioni e non c'è sindaco che tenga in questi casi. "È cambiato il rapporto tra mafia e politica: oggi i clan gestiscono direttamente la cosa pubblica", ha avuto modo di verificare Nicola Gratteri, procuratore capo a Catanzaro.
C'è una storia che i vecchi mafiosi fanno girare in Sicilia: nel 1860 Giuseppe Garibaldi chiese a Cosa Nostra l'autorizzazione a sbarcare con la sua spedizione dei Mille in Sicilia. La storia è falsa, ma la mafia la tiene viva da allora perché vuole confermarsi come potere, alla pari dello Stato, anzi prima dello Stato.
Oggi quella storia di Garibaldi sembra sempre più verosimile visto come la criminalità organizzata si sta prendendo gioco della democrazia e non con sotterfugi, ma apertamente e da tempo. Già dieci anni fa Pietro Grasso, che era allora procuratore antimafia, ammise: "In certi paesi come Africo, San Luca o Platì, è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi nelle comunità locali".
Da rurale a globale con lo stesso stile. Anche l'economia sta subendo una "strage diffusa" ad opera della mafia. Pure in questo campo c'è una leggenda, che fa il pari con la leggenda di Garibaldi nel campo del potere: è la leggenda che la mafia sia in grado di procurare lavoro, possa trarre fuori dalla loro miseria i meschini di Sicilia e i poveri di altrove. È vero il contrario; da sempre.
Alla fine dello scorso anno ha concluso la parte terrena della sua vita mons. Antonio Riboldi, religioso rosminiano della Brianza lombarda, che abbiamo imparato a conoscere cinquant'anni fa in Sicilia quando il terremoto sconvolse la Valle del Belice. Vi era arrivato come parroco di Santa Ninfa una decina di anni prima: "Non ci fu accoglienza festosa, anzi. Santa Ninfa, allora, sembrava dominata dalla mafia rurale che aveva nelle mani tutto il paese e non permetteva alcuno spazio di libertà, di pensiero e di azione. Si doveva solo piegare la testa e accettarne le leggi", raccontava proprio don Riboldi nel libro "I figli del terremoto", pubblicato nel 2009, precisando: "Cosa che fin dall'inizio non accettai, considerandola una grave offesa alla mia dignità". Diventa così un prete antimafia fin da subito, anche se la parola "antimafia" non era ancora stata inventata, ma il suo contenuto era ben chiaro a don Riboldi e da lui praticato: prendere le parti dei più deboli, che a Santa Ninfa erano i contadini ai quali il lavoro spezzava la schiena e i campieri e i baroni spezzavano la vita.
Lo stile della "mafia rurale" conosciuta da don Antonio Riboldi nella Valle del Belice si è conservato nella mafia globale di oggi, impoverendo le aree dove maggiore è il suo insediamento. Con caporalato e imposizione di manodopera controlla la produzione agricola. Attraverso la grande distribuzione può imporre ai produttori le sue regole. Speculazione edilizia ed abusivismo fanno rendere i terreni ancor più dell'agricoltura. Ancora i campi sono luoghi per discariche ed altri reati ambientali. In tutti i settori, al Sud come al Nord, l'imprenditoria mafiosa si è attrezzata con lasciapassare per accedere al credito bancario, per facilitare i rapporti con la pubblica amministrazione, per entrare nei consigli di amministrazione delle aziende, del sbaragliare la concorrenza negli appalti. I soldi servono anche a comprare fette di mercato legale, per poi uccidere il mercato rafforzando il monopolio e togliendo agli imprenditori e ai lavoratori ogni spazio di libertà e di azione: proprio come succedeva ai contadini di Santa Ninfa conosciuti da don Riboldi.
Né colpevoli, né vittime: "abituati". Le inchieste dei magistrati da tempo costituiscono un'antologia della penetrazione mafiosa nell'economia e anche una mappa dei percorsi che questa penetrazione ha seguito e segue e che porta sia nell'Italia del Nord sia all'estero in zone in cui riciclare e investire è più facile che al Sud. È insomma una realtà conosciuta, cui l'informazione dà il giusto spazio.
Anche l'opinione pubblica ne è consapevole. Non ne sembra però allarmata.
L'allarme e la tensione sociale che circondavano il fenomeno mafioso al tempo degli assassini di Piersanti Mattarella, Pippo Fava, Nonni Cassarà, Beppe Montana, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sembrano oggi affievoliti. Una piccola impresa che muore perché prosciugata dalla criminalità organizzata non rimbomba come un colpo di pistola. Un consiglio comunale che viene sciolto per mafia non genera l'esame di coscienza collettivo che ha accompagnato l'anatema di San Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi ad Agrigento: "Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l'uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione… mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita. Lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!".
Il processo mimetico che la criminalità organizzata ha compiuto in questi decenni sta producendo nell'opinione pubblica una "abitudine", che era stata disinvoltamente anticipata nell'agosto del 2001 dall'allora ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, quando disse pubblicamente che "con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi di criminalità ognuno li risolva come vuole". Ci fu indignazione, allora.
Oggi la Commissione parlamentare antimafia documenta nella sua ultima relazione la convivenza della mafia nei campi di calcio, con un ruolo di primo piano nella tifoseria. Ci è coinvolta la squadra più blasonata d'Italia, la Juventus: qui la 'ndrangheta "si è inserita come intermediaria e garante nel bagarinaggio gestito dagli ultras bianconeri; una infiltrazione che deve allarmare anche tutte le altre squadre e le istituzioni del calcio. I dirigenti della Juventus, che senza complicità consapevoli hanno sottovalutato il rischio, non sono colpevoli, ma neppure vittime". Né colpevoli, né vittime: "abituati", appunto, come tanta parte dell'opinione pubblica.
I no-vax dell'influenza mafiosa. La relazione è illuminante non solo là dove avverte che anche nel calcio, come in altri settori della vita sociale, "le mafie si insinuano in modo sempre più mimetizzato per creare consenso", ma anche là dove descrive il fenomeno inverso, cioè quello di una parte della società che assume atteggiamenti mafiosi: "La forza di intimidazione delle tifoserie ultras all'interno del territorio-stadio è spesso esercitata con modalità che riproducono il metodo mafioso; unitamente a ciò la condizione di apparente extra-territorialità delle curve rispetto all'autorità ha consentito ai gruppi di acquisire e rafforzare il proprio potere nei confronti delle società sportive".
La "contaminazione mafiosa" va dalle centinaia di migliaia di tifosi del calcio ad organizzazioni assai più piccole quali sono le quattro Obbedienze massoniche ufficiali in Italia, che contano in tutto 17 mila iscritti. Anche a queste la Commissione parlamentare antimafia ha dedicato attenzione, arrivando alla conclusione che Cosa nostra siciliana e 'ndrangheta calabrese "nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria", perché "consente di incontrare quella parte dirigente del Paese che è molto utile per riversare il suo denaro nell'economia legale. È una sorte di veicolo molto significativo e i mafiosi lo dicono esplicitamente". Senza "criminalizzare le Obbedienze", la Commissione parlamentare si chiede se esse "siano dotate di anticorpi".
La domanda non interroga solo la massoneria. Lo spiega bene Andrea Orlando, il ministro della Giustizia: "Nelle praterie digitali, oltre al linguaggio dell'odio, riemerge anche un linguaggio di apologie delle mafie. In paesi, quartieri del Mezzogiorno, abbiamo assistito a diverse manifestazioni popolari di solidarietà a boss mafiosi arrestati o di pubblico ripudio di quelli che hanno deciso di collaborare con la giustizia. E poi il muro di omertà e di paura che abbiamo visto alzarsi in molte realtà del Nord, nei territori della nuova penetrazione mafiosa, anche in quei comuni che sono stati sciolti per mafia: il silenzio davanti alle minacce agli amministratori pubblici e ai giornalisti, la crescita intollerabile di un'area grigia di complicità nella scarsa consapevolezza dell'opinione pubblica".
Insomma la società non sembra vaccinata dall'influenza mafiosa e in questo ambito l'area dei no-vax è molto estesa, perché prevenire questa influenza comporta una scelta culturale e sociale che mette in discussione non solo la mafia, ma un modello di rapporti personali e collettivi basato sul denaro. È l'essenza del modello mafioso: la parola che ogni giorno li muove e per cui agiscono è "soldi", pronunciata in tutti i dialetti italiani, anzi ormai sempre più spesso in inglese: "money".
Papa Francesco ci aveva avvertiti il 21 giugno del 2014 sulla Spianata di Sibari, in Calabria. Di quell'omelia nel giorno del Corpus Domini è rimasta nella memoria la conclusione dell'avvertimento: "I mafiosi non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!", ma l'avvertimento era nella premessa: "Quando all'adorazione del Signore si sostituisce l'adorazione del denaro, si apre la strada al peccato, all'interesse personale e alla sopraffazione; (…) si diventa adoratori del male, come lo sono coloro i quali vivono di malaffare e di violenza".
L'economia di carta si colora di grigio. La "teologia della liberazione" dalle mafie, che Papa Francesco propone ha bisogno di una consapevolezza, della quale ancora il Papa ci fa avvertiti: "Oggi non possiamo più parlare di lotta alle mafie senza sollevare l'enorme problema di una finanza ormai sovrana sulle regole democratiche, grazie alla quale le realtà criminali investono a moltiplicano i già ingenti profitti ricavati dai loro traffici: droga, armi, tratta delle persone, smaltimento di rifiuti tossici, condizionamento degli appalti per le grandi opere, gioco d'azzardo, racket" (21 settembre 2017).
L'economia di carta, che è la componente più pericolosa della globalizzazione (come milioni di cittadini hanno già dolorosamente sperimentato), offre i suoi "naturali" strumenti (poca trasparenza, facilità di movimento) all'economia grigia di derivazione mafiosa, che infatti se ne sta servendo a livello planetario. Le mafie sono così diventate un potente soggetto sovranazionale con la possibilità di condizionare non solo le singole democrazie, ma anche i rapporti tra gli Stati e le politiche planetarie.
La cooperazione giudiziaria internazionale è una scelta che non interessa solo gli esperti, ma tutti i cittadini. Europol ed Eurojust, solo per restare in ambito europeo, sono strumenti su cui i cittadini devono decidersi. I singoli Stati non possono contrastare adeguatamente mafie sempre più globali. Chi si ostinasse ad utilizzare strumenti locali ormai inadeguati finirebbe per essere complice.
21 gennaio 2018