Si può fare a meno dei giovani. Non occorre che lavorino. Infatti uno su tre - secondo l'ultimo dato dell'Istat - è escluso dal mercato del lavoro. Gli altri possono scegliere tra Co.co.co. e Co.co.pro., Collaborazione occasionale, Associazione in partecipazione, Lavoro occasionale accessorio, Voucher, Dottorato di ricerca, Assegno di ricerca, Medici in formazione specialistica, Tirocini e Stage, Pratica Professionale, Lavoratori autonomi senza dipendenti e monocommittenti, Professionisti con partita Iva individuale, Iscritti alla Gestione Separata INPS. Sono i molti nomi del lavoro atipico: "atipico", appunto perché quello "tipico", cioè normale, sarebbe il lavoro subordinato.
Altri ancora non entrano nelle statistiche perché hanno finito di studiare e non hanno cominciato a lavorare: ne hanno contati oltre due milioni e stanno come gli Ebrei nel deserto. Avessero un'altra età, li chiamerebbero "esodati" e sindacati ed imprese almeno ne discuterebbero, come stanno facendo con gli adulti che sono stati buttati nella terra di nessuno tra lavoro e pensione.
Dei giovani non si discute, perché se ne può fare a meno.
Scarseggiano il lavoro e i giovani. O sono i giovani che possono fare a meno del lavoro? "Bamboccioni" li ha etichettati cinque anni fa un professore che pure è stato un bravo ministro. "Sfigati" ha rincarato un altro professore che è tuttora viceministro. L'uno e l'altro comunque intendendo che se non avessero la propensione a rimandare volontariamente l'ingresso nel mondo del lavoro, a preferire le attenzioni della casa paterna e materna, a contare sulla famiglia d'origine per il loro sostentamento, i giovani troverebbero un'occupazione.
Comunque sia - ma vedremo che si tratta in ogni caso di un dramma - il precario rapporto tra giovani e lavoro rischia di renderci ancora di più deboli nella grande transizione sia geo-economica sia geo-politica che per brevità governi ed informazione chiamano "crisi". Mano a mano che i tempi della recessione si allungano, mano a mano che si assottigliano e ormai spesso sono consumate le risorse sia familiari sia collettive accumulate nel tempo della crescita, mano a mano che la data della ripresa viene spostata in avanti, perché è prevalentemente una speranza e non ancora un risultato, le società nel loro insieme perdono fiducia. Il senso di impotenza cresce. Non basterà trovare un colpevole (la politica si presta magnificamente a questo ruolo). Non basterà sacrificare beni preziosi come il riposo domenicale.
Servirebbero più forze, che solo il lavoro e i giovani possono dare; ma sia l'uno che gli altri scarseggiano.
Il lavoro svalutato socialmente. Il lavoro scarseggia perché negli ultimi vent'anni è stato considerato sempre meno dal punto di vista economico; nella ripartizione della ricchezza che ha contribuito a creare ha avuto una fetta costantemente decrescente, a vantaggio della finanza. Così è stato svalutato anche socialmente.
Annotava un anno fa il sociologo Ilvo Diamanti: "La crisi del lavoro sul piano sociale è una crisi di senso e di identità, oltre che "materiale". Il lavoro ha dato senso e identità alla nostra società. Oggi, però, il lavoro non solo manca, ma, soprattutto, è incerto. I lavori manuali, anche quelli artigiani, li svolgono perlopiù - sempre più - gli immigrati. E poi, da tempo, abbiamo imparato che puoi fare soldi anche senza un lavoro chiaro e definito. C'è un sacco di gente che ostenta stili di vita e consumi "vistosi" ma non sai cosa effettivamente faccia. D'altronde, da tempo, abbiamo imparato che si può vivere bene anche senza produrre".
Nell'enciclica sociale "Caritas in veritate" Benedetto XVI inquadra il neo-umanesimo integrale nell'orizzonte del lavoro. E a Madrid nell'agosto del 2011, in uno dei discorsi alla Giornata Mondiale della Gioventù, il Pontefice ha reclamato "un lavoro degno" fra le aspettative dei giovani. E sull'aereo che lo portava da Roma a Madrid aveva dichiarato ad un giornalista: "Si conferma nella crisi attuale quanto è già apparso nella precedente grande crisi: che la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici ma una dimensione interiore e fondamentale. L'economia non funziona solo con una autoregolamentazione mercantile ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare per l'uomo".
Condividere e diffondere questa consapevolezza è la condizione per allargare il lavoro: il "lavoro degno" per tutti ed in particolare per i giovani. Il lavoro è degno quando è riconosciuto come fattore di cittadinanza, come strumento di partecipazione attiva alla vita della comunità, come luogo di realizzazione di sé e della libertà propria e familiare.
Se la crisi servirà a proporre e realizzare un nuovo e moderno equilibrio tra il successo delle imprese e la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici, essa sarà meno drammatica e soprattutto alimenterà la speranza.
Alimentare la speranza significa anche ritrovare i giovani.
Arriviamo tutti in ritardo. Li abbiamo lasciati, i giovani, alle prese con i nomi fantasiosi e i duri fatti dei lavori atipici.
Come i loro coetanei delle generazioni precedenti, i giovani non sono certo affezionati alla condizione dei loro genitori, non danno per scontata un'unica via per la loro affermazione, sperimentano più percorsi. Oggi i giovani appaiono disorientati nel periodo del loro inserimento nel mondo del lavoro proprio perché accettano il fatto che le strade che hanno davanti si sono moltiplicate e devono quindi usare maggiore discernimento.
Sapendo che da soli non ce la possono fare, si sono scelti - come le generazioni precedenti quando si sono trovate in difficoltà - anche un loro santo patrono: San Precario. Non è nel calendario, né ci sarà mai. Come molti patroni è un "santo collettivo", che ha il volto di migliaia e migliaia di persone in carne ed ossa.
Sono stati costretti a "votarsi ad un santo" dall'introduzione di regole di flessibilità lavorativa che sono state utilizzate non per innovare la produzione ma per farla costare meno. Il dramma nasce da qui. Il copione non è stato scritto dai "bamboccioni"; loro lo subiscono, sono costretti ad interpretarlo. Così si impoverisce la comunità.
Benedetto XVI l'aveva ben detto nel messaggio ai partecipanti alla Settimana sociale dei cattolici italiani: "Quando la precarietà del lavoro non permette ai giovani di costruire una famiglia, lo sviluppo autentico e completo di una società risulta seriamente compromesso".
Così arriviamo tutti in ritardo. I giovani arrivano in ritardo al passaggio alla maturità: anche statisticamente si innalza sempre più l'età nella quale si è catalogati giovani. I bambini arrivano in ritardo alla nascita, perché diventare genitori è un rischio. Gli adulti arrivano in ritardo alla vecchiaia perché si sentono obbligati all'attività di produttori e genitori.
La recessione è il tempo del futuro. Nella transizione geo-economica globale questi ritardi non sono più sopportabili. Per questo l'inserimento lavorativo dei giovani sta proprio in questi mesi ritornando nell'agenda politica ed economica. La prima risposta in agenda riguarda proprio la lotta alla precarietà e il sostegno all'inserimento lavorativo stabile pur in un contesto di flessibilità: ciò significa durata capace di creare competenze, remunerazione competitiva tra inserimento stabile e inserimento precario, eliminazione delle forme elusive di contratti atipici. Si tratta della condizione di partenza, quella che doveva essere assicurata fin dall'inizio contestualmente alla flessibilità.
Ma non è la condizione sufficiente per rendere i giovani protagonisti del lavoro (secondo la loro naturale vocazione). Altre sono necessarie e consentiranno di riorientare un'intera comunità, che sembra rassegnata al fatto che i figli staranno peggio dei padri e alla inesorabilità dello spostamento produttivo verso le economie a basso costo del lavoro. L'elenco è articolato e complesso. Mi limito a due sole citazioni:
a) i tipi di lavoro di cui la società italiana ed europea ha bisogno e la relativa formazione, in modo da evitare il disallineamento fra formazione scolastica e cambiamento del mercato del lavoro;
b) la conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro, per rendere concreti sia il patto fra generazioni sia il patto tra generi e distribuire in modo equilibrato ruoli e responsabilità in famiglia e nella società.
È velleitario introdurre queste sfide in un tempo di ristrettezze, visto che ad esse non si è prestata sufficiente attenzione in tempi più favorevoli?
Non solo non è velleitario, ma è necessario. Proprio la recessione è il tempo del futuro, perché impone di guardare avanti piuttosto che cercare di tornare indietro. Questo è il tempo specifico della "responsabilità per il futuro", di cui Benedetto XVI ha parlato ai giovani convocati a Madrid, aggiungendo: "Sappiamo che dobbiamo proteggere il nostro pianeta, il lavoro economico per tutti, e pensare che il domani è anche l'oggi. Se i giovani di oggi non trovano prospettive nella loro vita, anche il nostro oggi è sbagliato, è male". Non si può infatti fare a meno dei giovani.
25 aprile 2012