Le conoscenze scientifiche sulla spremitura del pianeta da parte dell'uomo sono diffuse. C'è anche una consapevolezza culturale, esistenziale. Il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo, in occasione della Giornata di preghiera per la salvaguardia del Creato del 1° settembre, ha scritto: "L'attuale imperativo categorico per l'umanità è di vivere senza distruggere l'ambiente. Mentre tuttavia sul piano personale e tra molte comunità, gruppi, movimenti e organizzazioni si mostra grande sensibilità e responsabilità ecologica, le nazioni e gli operatori economici non sono capaci, nel nome di pianificazioni geopolitiche e della legge propria della economia, di prendere le corrette decisioni per la protezione del creato e coltivano la illusione che ciò che riguarda una catastrofe ecologica mondiale è una ideologizzazione dei movimenti ecologici e che l'ambiente naturale ha la forza di rinnovarsi da sé stesso. La domanda cruciale, tuttavia, rimane: Quanto la natura sopporterà le discussioni e le conferenze infruttuose, l'ulteriore ritardo nell'assumere azioni risolutive per la sua protezione?".
Opinioni pubbliche abbagliate. La domanda del Patriarca Bartolomeo non riceverà una risposta tanto presto e Sua Santità lo sa bene, essendo il primo firmatario della enciclica conclusiva del Sinodo ortodosso a Creta nel 2016, nella quale si osserva che "la conoscenza scientifica non fa muovere la volontà etica dell'uomo, il quale, anche se conosce i pericoli, continua ad agire come se li ignorasse".
Sulle ragioni della miopia generale è intervenuto sabato 5 settembre l'economista Stefano Zamagni; sono ragioni economiche: "I miei colleghi pensavano che le risorse naturali fossero illimitate"; sono ragioni etiche: "Solo l'11 per cento della popolazione è disponibile a cambiare stili di vita e il concetto di consumatore socialmente responsabile è praticamente sconosciuto". Zamagni era tra i relatori al convegno nel Ferrarese della Conferenza episcopale italiana per la Giornata mondiale del Creato.
Le opinioni pubbliche, dunque, non ignorano i pericoli delle estrazioni di materie prime e delle emissioni di gas serra, ma intanto ne vivono gli appariscenti vantaggi e non ci rinunceranno facilmente, perché sembra a loro che arrivino direttamente a ciascuno.
L'ultimo Rapporto "Global Resources Outlook 2019" incrocia i dati di allarme con i dati economici mondiali: nel quasi mezzo secolo preso il considerazione il prodotto interno lordo mondiale è passato dai 18,9 trilioni di dollari Usa del 1970 ai 76,5 trilioni del 2016 (misurato a prezzi costanti del 2010) e la spinta alla crescita è venuta proprio dalla corsa all'estrazione di risorse naturali, che ha trainato importanti investimenti in infrastrutture e la crescita della classe media e dei livelli di vita nei Paesi in via di sviluppo ed in quelli emergenti, specialmente in Asia. Si è infatti registrata una seppur modesta redistribuzione geografica della ricchezza: i Paesi ad alto reddito che nel 1970 detenevano l'80 per cento del prodotto interno lordo mondiale, nel 2016 ne detenevano il 65 per cento; è vero che nello stesso periodo gli abitanti dei paesi ad alto reddito sono scesi dal 23 al 16 per cento della popolazione globale, ma la somma finale resta positiva. Apparentemente.
Lo scambio ecologicamente diseguale. Il segno "+" è solo un artificio contabile: nella partita del dare e avere non figura infatti che esso è stato ottenuto grazie ad un aumento fortissimo del credito ecologico che la parte più povera della popolazione mondiale vanta nei confronti della minoranza più ricca. Si tratta in gran parte di un credito inesigibile, perché è costituito da risorse naturali non più reintegrabili e da milioni di persone costrette ad abbandonare la loro terra senza nessuna prospettiva di farvi ritorno.
Ecco un esempio di come continua a crearsi questo credito ecologico.
Il 21 settembre scorso Oxfam Italia ha pubblicato sul proprio sito una sintesi del rapporto "Disuguaglianza da CO2", realizzato dalla Organizzazione non governativa in collaborazione con lo Stockholm Environment Institute. La ricerca analizza la quantità di emissioni per fasce di reddito tra il 1990 e il 2015, periodo in cui le emissioni di CO2 in atmosfera sono più che raddoppiate. Una delle constatazioni è questa: il 10 per cento più ricco ha consumato un terzo del nostro "budget globale di carbonio" (global 1.5C carbon budget) mentre la metà più povera della popolazione solo il 4 per cento. In altre parole, l'ammontare massimo di anidride carbonica che può essere rilasciata in atmosfera senza far aumentare la temperatura globale sopra 1,5 gradi centigradi - considerato dagli scienziati il punto limite oltre il quale si verificherebbero catastrofi climatiche - è stato già consumato per più del 30 per cento dal 10 per cento della popolazione più ricca del pianeta.
In un video postato su Twitter l'1 settembre scorso Papa Francesco mette questo debito ecologico contratto dai ricchi verso i poveri sullo stesso piano della spremitura del pianeta e per entrambi chiede di pregare. Ne parla anche nel messaggio per la stessa Giornata per la salvaguardia del Creato, nel quale invita a non "dimenticare la storia di sfruttamento del Sud del pianeta, che ha provocato un enorme debito ecologico, dovuto principalmente al depredamento delle risorse e all'uso eccessivo dello spazio ambientale comune per lo smaltimento dei rifiuti. È il tempo di una giustizia riparativa".
Del resto, i due fenomeni sono contestuali. Ecco qualche altro dato del Rapporto "Global Resources Outlook 2019". Nei Paesi ad alto reddito si consuma in media l'equivalente di 27 tonnellate pro-capite di materie prime all'anno, il 60 per cento in più rispetto ai Paesi a reddito medio-basso e oltre tredici volte il livello del gruppo dei Paesi a basso reddito (due tonnellate pro-capite annue). Intanto dal 1970 ad oggi la quota di materie prime estratte è calata sia in Europa (dal 20 al 10 per cento del totale mondiale) sia negli Stati Uniti (dal 19 al 10), mentre è cresciuta nella regione Asia-Pacifico, la più popolosa del pianeta (dal 24 al 60).
Niente di nuovo, comunque. Dalla "scoperta" dell'America alla prima rivoluzione industriale, dal colonialismo all'ambientalismo a casa propria, il Nord del mondo ha messo a carico del Sud del mondo molti dei suoi problemi, in uno scambio ecologicamente diseguale sia per il diverso potere contrattuale delle due parti, sia per la diversa percentuale di ricchezza che ciascuna delle due parti può ricavare. Il traffico internazionale di rifiuti, citato anche da Papa Francesco, può essere assunto come paradigma di questa diseguaglianza ecologica.
Un nuovo diritto costituzionale. Poiché, però, la terra è una sola, chi si indebita con lei finisce per indebitarsi con sé stesso, perché non siamo i padroni, ma parte della "terra, indicata nella Scrittura come adamah, luogo dal quale l'uomo, Adam, è stato tratto", ha appena ricordato Papa Francesco. Ed ha aggiunto: "La disintegrazione della biodiversità, il vertiginoso aumento dei disastri climatici, il diseguale impatto della pandemia in atto sui più poveri e fragili sono campanelli d'allarme di fronte all'avidità sfrenata dei consumi". Succede così che a trovarsi con un non desiderato credito ecologico siano anche gli abitanti giovani e gli abitanti futuri del Nord del mondo: anche la loro terra è impoverita in modo irreversibile.
In Italia figli ed eredi sono giuridicamente tutelati per quanto riguarda i beni loro destinati. Diventa allora indicazione politica concreta e non solo suggestione intellettuale la proposta dell'economista Stefano Zamagni durante la celebrazione nazionale della Giornata del Creato che la Cei ha organizzato a Jolanda di Savoia nel Ferrarese: "Bisogna inserire il concetto di debito ambientale nella Costituzione: basta un articolo, ce l'hanno altri Paesi, i primi furono i tedeschi con Adenauer. Noi ci stracciamo le vesti, tuttavia un Parlamento normale legifera, in modo che ogni provvedimento successivo sia vincolato al rispetto delle generazioni che ci seguiranno. Altrimenti siamo degli ipocriti".
27 settembre 2020