Giovedì 20 febbraio 2009 l'Istituto di Riposo per Anziani di Padova ha organizzato all'auditorium del Centro culturale Altinate a Padova un convegno sul tema "Viaggio nell'identità veneta con gli anziani per guida". L'iniziativa era incentrata sulla presentazione del volume "Le nostre radici. Viaggio a ritroso nell'identità veneta", scritto da Anna Artman e Giuseppe Jori con 29 interviste a persone che vivono nelle residenze del "Bonora" a Camposampiero, del Craup a Piove di Sacco e dell'Istituto di Riposo per Anziani a Padova.
Riportiamo la relazione del senatore Tino Bedin, presidente dell'IRA di Padova.
di Tino Bedin
Gli "autori" del libro "Le nostre radici. Viaggio a ritroso nell'identità veneta" hanno un'età sufficiente per essere considerati effettivamente le radici delle generazioni oggi economicamente attive: i loro figli hanno la maturità del tronco; i nipoti hanno la produttività dei rami e già molti pronipoti fanno da frutto e da fiore.
Dove ci portano queste radici? I loro racconti si diffondono in tutte le direzioni della vita. Per questa mia breve "lettura pubblica" ho scelto una di queste direzioni: il lavoro. La scelta nasce dalla consapevolezza che una delle caratteristiche della società veneta è la laboriosità e che il lavoro costituisce oggi come ieri un connotato della nostra identità.
Poiché a farci da guida in questa ricerca dell'identità sono gli anziani, è stato inevitabile connotarla soprattutto attraverso il lavoro femminile. È stato inevitabile perchè 24 dei 29 autori del libro sono donne, ulteriore conferma della prevalenza di genere che le donne esprimono nelle residenze protette così come nelle abitazioni familiari.
Ma al di là del rapporto demografico, l'esperienza di lavoro delle donne padovane ci consente di ricostruire con maggiore precisione l'identità sociale del Veneto.
La maggioranza delle nonne ha lavorato fuori casa
Una delle "rotture identitarie" della società, non solo veneta, viene infatti attribuita proprio al lavoro femminile. Da quando le donne lavorano non è più la stessa famiglia, non è più la stessa la stessa società, sostengono in molti.
E il ricordo evoca casalinghe e focolari. Arriva a fantasticare grandi case agricole in cui fratelli e cugini crescevano insieme.
È stato proprio così? Se nel viaggio nell'identità veneta accettiamo per guide le persone che vivono in Residenze per Anziani, arriviamo alla conclusione che si tratta di fantasie.
Innanzi tutto un dato statistico. Due su tre delle donne intervistate hanno lavorato fuori casa. Sedici su ventiquattro hanno potuto contare su un salario. Una diciassettesima può essere arruolata in questa maggioranza, perché lei ha fatto la casalinga per consentire al resto della componente femminile della famiglia di lavorare.
Il job-sharing per la polenta
Lei si chiama Rita, è nata a Padova il 18 settembre 1913; ha studiato fino alla terza elementare, «poi, dato che le mie sorelle ricamavano, sono rimasta a casa per aiutare loro. Ricamavamo di tutto: si cominciava dai fazzoletti, via, via, fino alle tovaglie che si usavano allora, lunghe anche tre, quattro metri».
Oggi questa suddivisione di ruoli si chiama job-sharing, lavoro condiviso. Allora era vissuto e praticato in Veneto senza bisogno della legge Biagi, ma secondo la legge del bisogno di far arrivare la polenta sulla tavola tutti i giorni.
L'altra caratteristica del lavoro delle donne è il lavoro a domicilio. Spiega ancora Rita: «C'era una signora che "dava fuori" il lavoro e lei poi, a sua volta, lavorava per una di Venezia. Andava a prenderne un certo numero a Venezia, poi la mistra prendeva quelle cinque, sei, sette tovaglie o tovagliette, le portava a casa, col filo e tutto; noi sceglievamo quelle che ci interessavano, le ricamavamo e contrattavamo i soldi: avevo una sorella che era bravissima!».
Diffuso nel settore tessile, il lavoro a domicilio ha costituito in molte famiglie l'evoluzione del lavoro condiviso anche in molti altri settori. Il familiare (padre, zio, figlio) che lavorava in fabbrica portava a casa per il resto della famiglia lavorazioni complementari, cui partecipavano donne e bambini. La "fabbrica diffusa" del Veneto, prima che nei laboratori dei sottoscala e dei garage, è cominciata in cucina.
Oggi è ritornata e si chiama telelavoro; il mouse ha sostituito l'ago, ma la radice è lì.
Nel settore tessile: dalla sarta o in fabbrica
Il lavoro di cucito è uno dei primi e più diffusi impieghi fuori casa per le donne padovane. Anche questo emerge dalla lettura del libro "Le nostre radici", tra le cui autrici sono numerose le sarte, pur con diverse esperienze.
Per Annita, una padovana che ora ha novant'anni passati, il lavoro di sarta è stato un'esperienza di tipo industriale ed è durato una vita: "«Ero svogliata e ho preferito andare a lavorare. Ho fatto trentadue anni in un maglificio in Zona Industriale a Padova. Facevo la sarta, tagliavo e allo stesso tempo aggiustavo le maglie rotte, stiravo, confezionavo». Erano in centoventi operai e, se fosse dipeso da lei, Annita avrebbe continuato a lavorare, «ma poi hanno fallito» ricorda; e non dice di essere stata così anche tra i protagonisti involontari della fine di una storia che con lei era cominciata: quella di produzioni affidate prevalentemente al lavoro femminile non specializzato e a costo ridotto e spostate dal Veneto quando le donne hanno avuto più preparazione e più eguaglianza.
Anche Maria è di Padova (è nata il 23 dicembre 1920) ed anche lei ha fatto la sarta. Racconta: «Dopo le elementari mi sono fermata, perché ho imparato a lavorare come sarta. A 9 anni già lavoravo da una brava sarta da donna in via San Giovanni di Verdara. Le mie amiche lavoravano in fabbrica e prendevano già 12 franchi. Io come praticante sarta prendevo invece 5 franchi, ma ero contenta perché avevo qualche "scheo". Anch'io lavorando potevo comperarmi qualche vestito come le mie amiche, altrimenti non me lo potevo certo permettere. Da questa sarta ho lavorato per ben 13 anni».
Il lavoro di sarta non si concludeva con il ritorno a casa, continuava per la famiglia, senza tanto badare alla moda. «La "moda" era che gli abiti di mio marito li rimodellavo per i figlioli e così pure le mie cose. In poche parole, come si suol dire in dialetto, "taconavo"».
L'anteprima dell'artigianato femminile
Le sarte da cui bambine e ragazze come Maria apprendevano il mestiere lavorando, erano a loro volta lavoratrici a domicilio, anteprima delle artigiane, orgoglio del Veneto contemporaneo. Il laboratorio era la cucina, era il tinello.
Ecco l'esperienza di Rosa, nata a Treviso il 5 Novembre 1914: «Dopo la mia uscita dall'ospedale, ho appreso questo mestiere di sarta. La sarta da cui andavo non aveva proprio un negozio però aveva diverse allieve. Non era proprio un negozio: era una stanza di casa sua, per questa attività. C'erano le forbici, il metro, la macchina da cucire, quella a manovella, ma aveva già comperato due macchine a pedale, le prime che venivano fuori. Era brava, perché, più tardi, i miei vestiti, quelli di mamma e della sorella li ho sempre fatti io, perché avevo imparato bene».
L'esperienza lavorativa di Rosa non si esaurisce però con il lavoro di sarta. È infatti una delle autrici del libro che hanno fatto esperienza di fabbrica, assieme a molte altre donne.
Continua così la sua vita: «A 19 anni mi sono impiegata a Rossano Veneto, prima in una fabbrica dove si facevano le munizioni, poi mi sono licenziata e sono andata in una filanda. Certo, si lavorava per preparare le munizioni, a Rossano. Non lo trovavo pericoloso. C'erano i tedeschi che ci guardavano, sorvegliavano il lavoro che si faceva all'interno di un capannone. Poi mi sono tolta da lì perché il lavoro era abbastanza duro, non "femminile". A Rossano c'erano tante filande. Ed anche a San Martino di Lupari, Tombolo, Cittadella, Rossano, Belvedere e Rosà, in tanti paesi. E tante erano le donne che lavoravano. Solamente due uomini vi stavano per la manutenzione. Facevo anche 10, 12 ore. Io stavo in ufficio: mi sono occupata sempre di paghe». La gran parte delle donne invece «preparavano i bozzoli in una caldaietta con l'acqua e alla sera avevano le mani… bollite».
Una paga sicura solo in fabbrica
Anche per Amalia, padovana, il lavoro di sarta è stato solo quello iniziale e già allora neppure l'unico. «Io ero sartina, nel laboratorio che si trovava dopo il campo d'aviazione, quello della Biasuzzi, rifinivamo giubbotti, tute, giubbe; ma neanche là è andata bene, perché non avevano molto lavoro. Per attaccare non so quanti bottoni ci davano un soldo, mamma mia quant'era dura! Poi andavo anche a fare il bucato con la cenere a 1 lira l'ora. La cenere distruggeva le mani…».
Una vita dura ma sopportabile finché la paga di Amalia integra quella del marito. Il marito muore prematuramente e allora «sono andata a lavorare in fonderia da Peraro». Una vita ancora più dura me necessaria ai quattro figli: «La più grande aveva 13 anni, gli altri tutti in coda, il più piccolo 10, mio marito era felicissimo quando è nato, e poi, poveretto, dopo poco è morto».
È lo stesso percorso di Maria, che abbiamo lasciata a Padova in via San Giovanni di Verdara in casa di una sarta a cucire. «Poi sono andata da "Venuti" in tintoria, che mi ha fatto il libretto di lavoro».
Per Licia, nata a Padova il 12 luglio 1926, il lavoro di sarta è stato solo un momento di necessità, lasciato appena possibile per un lavoro industriale.
«Finito di studiare, sono andata subito a lavorare all'età di 11 anni;ho imparato il lavoro di sarta, ma non è che mi piacesse tanto, dato che con questo lavoro rimanevo seduta per tanto tempo e io ero molto nervosa, non ho resistito e ho cambiato lavoro. Sono andata in una tipografia e ci sono rimasta per ben 41 anni. Il lavoro mi piaceva, ero soddisfatta. Ero alla Cooperativa Tipografica di via Carlo Cassan in centro. Non ero seduta sempre, questo per me era importante. Eravamo in 70 prima della guerra e dopo siamo rimasti in 35 dipendenti. L'orario era pesante perché si lavorava da mattina a sera fino alle 18.00 con pausa pranzo, 9 ore circa al giorno. C'era molto da lavorare anche di sabato. Facevo la rilegatrice (blocchi, libri, quaderni, diari… ). Si faceva tutto a mano e si cuciva con la macchina. Stavo in piedi e si camminava avanti e indietro, un foglio alla volta per unire le pagine. Mantenevo la linea, ma comunque era un lavoro che mi piaceva. Ho fatto 41 anni volentieri, poi il padrone ci ha fatto soci, ma non è che ci dessero più soldi».
Le donne nelle storiche industrie padovane
Fonderia Peraro, Tintoria Venuti, Cooperativa Tipografica: in questo viaggio a ritroso nell'identità veneta, fatto con la guida degli anziani, stiamo incrociando alcuni dei nomi storici dell'industria manifatturiera padovana.
Altri nomi li incontriamo nell'esperienza di donne che sono andate immediatamente a lavorare in fabbrica.
In una delle fabbriche storiche i "Bottoni" ha lavorato Luigia, nata a Padova il 15 settembre 1919. «Avevo 17 anni. Mio padre era stato licenziato a causa del periodo di crisi di quegli anni del dopoguerra, dunque serviva uno stipendio per mantenere la famiglia. Mia madre mi ha chiesto di ritornare a casa e così ho dovuto interrompere la scuola. Sono andata a lavorare in una fabbrica di bottoni, la Zuckermann: avrò lavorato lì per circa 4 o 5 anni, fino a quando mi sono sposata. Lavoravo 8 ore al giorno con delle macchine che preparavano ogni tipo di bottone. Con le colleghe avevo un buon rapporto: dentro la fabbrica c'era la mensa per mangiare assieme, però ci incontravamo anche fuori, nel tempo libero, ogni tanto».
Nell'esperienza di Tosca, nata a Padova il 14 agosto 1926, compaiono sia la fabbrica che il nascente impiego femminile nel settore dei servizi.
Ha fatto le elementari: «Fin la quinta. E basta, a lavorar, subito alla "Viscosa"», una grande azienda chimica «parché ghe jera na me zia».
Continua il suo racconto: «E dopo go dito: "Ah, nol me piase altro!" e so 'ndà infermiera privata, qua vissin, all'Ospedale Geriatrico. Gavrò vuo quindese ani!». Formazione professionale e tirocinio con le suore.
"Donne di servizio" padovane nelle case dei padovani
Ben più diffuso, rispetto a quello nei servizi pubblici, era il lavoro femminile nei servizi domestici. La "donna di servizio" era padovana e lavorava nelle case dei padovani.
Nel libro incontriamo Antonietta, che ha novantadue anni. Ne aveva 13 quando ha cominciato ad andare a servizio da un farmacista.
«Fasevo le pulissie. I me mandava a tore le medesine nei magazini e a consegnarle ae siore, e queste me dava la mancia, così podevo conprarme el pan! Il dottore me dava on biciarin de oio, cossì tociavo el pan e dovevo anca vanzarne, par poderlo dar ai me fradei. No podevo pensar sol par mi, jerimo in oto!».
Anche dopo sposata, mentre il marito faceva il calzolaio, lei ha fatto due lavori dopo il matrimonio, sempre legati alle pulizie. «Andavo a lavar, a far mastei! Vedeo, questo deo xe morto, no posso far pì niente! Dae 5-5.30 dea matina ghe ne fasevo do-tre fameje, da na parte a l'altra de la sittà, da l'Arcea al Prà dea Vae, al Bassaneo, senpre in bisicleta.Dopo aver fato la lissia da le siore, doveo 'ndar a la Padovana da Agnolucci e far le pulissie dei offici dae sie ae nove de sera».
In… società con il marito licenziato
Palmira, nata a Villa del Conte il 12 marzo 1924 e residente ad Arsego, ha invece vissuto la trasformazione di molti padovani che sono diventati, per necessità più che per vocazione, imprenditori di se stessi, contribuendo in maniera decisiva all'identità del Veneto di oggi.
Aveva seguito suo marito ad Adria, dove era stato trasferito da una società saccarifera che lì aveva uno zuccherificio. Bassa padovana e Polesine sono stati segnati da queste industrie di trasformazione, sia nel loro sviluppo che nella quasi totale chiusura.
«Mio marito aveva trentacinque-quarant'anni;lui è stato l'ultimo ad essere rimasto a casa, perché era un uomo capace che si faceva voler bene, educato, rispettoso. Per fortuna un signore da Treviso che fabbricava ceramiche, porcellane, un certo Pagnossin, ha pensato di mettere su una catena di negozi, e si è rivolto al capo dello zuccherificio: "Avresti una persona da consigliarmi a cui possa dare in mano questo negozio con responsabilità?". Gli hanno indicato mio marito: "Sì, si presenta bene, ma lui da solo non può farcela". Lui non voleva che io lavorassi, mi voleva sempre a casa, sempre a disposizione, gli sembrava che perdessi l'attenzione verso di lui, ed era un po' vero. Quando mi hanno visto hanno detto: "Questa fa per noi". Sicchè abbiamo vissuto venticinque anni in negozio ad Adria, perché, dopo un anno e mezzo, questo fabbricante di Treviso ha pensato di cedercelo, mio marito ha fatto un salto nel buio, rischioso, io ero disperata, lui ha detto: "Lo faccio". Lavorando giorno e notte… è stato costretto ad accettare anche il mio aiuto, perché il fabbricante gli diceva: "Hai una moglie giovane, lasciala venire". Io non perché mi piacesse il lavoro, ma mi piaceva andare in negozio, perché intanto stavo vicino a mio marito, era la mia famiglia, e così ho fatto venticinque anni insieme. Allora sono diventata io, aperta, ho dato quello che avevo dentro, ho fatto i migliori anni, belli, bellissimi, il nostro negozio si è perfezionato perché mio marito aveva un gusto stupendo. Sceglieva le porcellane, i cristalli di Boemia, le statuine di Cacciapuoti di Napoli, i bicchieri, i servizi stupendi, i piatti di Limoges. Quando ci hanno ceduto il negozio ero spaventata morta, pensavo "Come facciamo, non abbiamo niente, 13 milioni di debito"… Allora il materiale abbiamo cominciato ad acquistarlo noi: mio marito andava, anche con me, intanto avevo acquisito un gusto, tra la lettura e il gusto naturale… abbiamo dovuto assumere due commessi, era un negozio grande, il migliore di Adria, il più importante, si chiamava "Splendor casa"».
Ecco qui tutta intera un'identità del Veneto: impresa familiare, condivisione di rischi, lavoro con le proprie mani, capacità di dare lavoro.
Le "signorine maestre" delle scuole di paese
Ma c'era anche bambine e ragazze che potevano studiare, prendere un diploma.
È il caso di Dielma, nata a Piove di Sacco il 5 marzo 1916. Ha frequentato la scuola media inferiore commerciale, più due anni di ragioneria a Padova. A 18 anni ha cominciato a lavorare alle Poste, ma la sua vita è legata al municipio di Piove di Sacco. «Il mio lavoro! Andrei ancora a lavorare perché ero soddisfatta. Facevo tutto a mano: compilavo i registri all'ufficio anagrafe, dello stato civile, elettorale e mandamentale. Ero considerata bene, stimata, non posso lamentarmi di quel periodo».
Una professione già ampiamente al femminile,ovviamente nel ristretto numero di addetti, quella di maestra. Molti scolari del secondo dopoguerra hanno cominciato ad avere la "signora maestra" o - molto più spesso - la "signorina maestra".
Due di queste sono tra le autrici del libro.
Maria, nata a Padova il 10 novembre 1929 e residente a Camposampiero ,ha cominciato ad insegnare subito dopo aver finito la scuola al Don Bosco. «Quasi subito, abbiamo fatto una serale agli infermieri dell'ospedale perché molti non avevano la quinta che serviva per lavorare. Poi ho fatto il primo anno non di ruolo a Sant'Eufemia. Intanto c'è stato il concorso e sono entrata di ruolo nel '49. Ho insegnato sempre a Rustega: in due o tre che siamo andate lì all'inizio non ci siamo mai mosse perché era la "casa della pace"».
Renata, nata a Mordano il 10 luglio 1918, ha abitato a Pontelongo ed ha insegnato nel Piovese. «Ho insegnato per 40 anni, a partire dal 1941-42. Dapprima a Pontelongo, come supplente, per qualche mese; poi fui trasferita a Villa del Bosco, a Civè di Correzzola e a Terranova: tutti paesi di campagna, ma che mi sono stati cari. Erano anni difficili: la guerra si sentiva nell'aria, tuttavia i bambini venivano ugualmente a scuola, dove si sentivano protetti. A Civè ero l'ultima arrivata e non mi era stata assegnata un'aula come a tutte le altre insegnanti. Io ero in una specie di bottega con i banchi di scuola. Non le dico quante creature facevano tre chilometri a piedi per frequentare le lezioni! Davvero lodevoli e bravi. Per scaldarci avevamo una stufa, dove i "tocchettoni" di legno erano più spenti che accesi e che fumo!».
Il doposcuola a cavare le bietole sui campi del padrone
Eccolo, visto con gli occhi della maestra, il mondo contadino. Nessuna poesia, molto fumo, poca legna.
Bambine e bambini per i quali le ore di scuola erano solo parte di una giornata che continuava sui campi, non a giocare ma lavorare; a lavorare per il "padrone" e non per la propria famiglia.
Il papà di Norma, nata a Taggì di Sopra il 19 aprile 1925, faceva il contadino. «Non avevamo niente, noi! Eravamo contadini del Conte Camerini di Piazzola sul Brenta. Era il nostro padrone. Ho iniziato a lavorare nei campi a sei anni e mezzo, per mezza giornata solo. Andavo a casa da scuola e andavo nei campi a "cavare la foia" nel grano, "tirare e fassine", "a cavare e barbabietole", che ce n'erano tante! Lavoro pesante di ginocchia, perché bisognava stare sempre inginocchiati per terra, e dopo zappare il grano, rastrellare… Si mangiava nei campi, con le formiche che mi correvano sul piatto. E la mamma a lavorare, anche lei! Era la prima che andava a lavorare».
Lavoro molto precoce anche per Maria, nata a Cinto Euganeo il 22 maggio 1915. «A sette-otto anni si lavorava già nei campi: c'era bisogno di aiutare. Usavo il piccone per piantare le vigne, far uscire l'acqua da una fontana e portarla alle vigne, quando erano pronte per l'uva e si doveva innaffiare bene. Io mi arrampicavo sugli alberi per raccogliere i frutti ed avevamo anche una scala con 20 gradini per raggiungere i rami più alti. Era un po' pericoloso, però!».
Nessuna è rimasta sui campi
IIl matrimonio, il lavoro casalingo, la crescita dei figli diventavano il momento per interrompere definitivamente con il lavoro in campagna. Nessuna delle autrici del libro ha continuata in qualche forma il lavoro agricolo, neppure chi vi si era dedicata come salariata.
Lea, nata a Rosolina il 29 marzo 1923 e residente a Sant'Anna di Chioggia, ha frequentato le scuole fino alla terza elementare, e il suo mestiere è stato il lavoro nei campi, con varie occupazioni.
«A 16 anni sono andata a lavorare a Rosa Pineta. C'era un deserto: solo dune. Siamo andati a lavorare e mentre i ragazzi scavavano le buche, noi donne seminavamo i pinoli. Sono cresciuti tanti pini e belle pinete, dal nostro lavoro. I padroni ci pagavano 5 lire al giorno senza contributi. Non era certo facile e i soldi bastavano appena per sbarcare il lunario. Ho lavorato tanto fino a quando mi sono sposata. Io mi adattavo a tutto e si era contenti di quello che si faceva. Allora non c'era di meglio, c'era solo quello e bisognava essere contenti accettare la vita, così! Non si conosceva il meglio e non si avevano tanti desideri come oggi. Si lavorava 8/10 ore, portando il pranzo a sacco. La prima volta non avevamo niente da mangiare, allora gli altri lavoratori ci hanno offerto qualcosa del loro pranzo: è un bel gesto che ricordo. Quello che guadagnavo lo davo alla mamma e con quei soldi ha comprato delle lenzuola per la mia dote, anche se non avevo ancora il moroso. Però era un'abitudine di preparare la dote in vista del matrimonio».
Guerina, padovana, invece ha lavorato come coltivatrice nelle serre di Sgaravatti, finché si è sposata.
«A dodase ani son andà a lavorare da Sgaravati Sementi a Montegrotto! Eh serto! Dae oto dea matina fin mesogiorno, e dae tre ae sette dea sera! Sempre, anca aea domenega, se me tocava de servissio a dispensare. Gavevo sette serre in consegna! Tute piante da saeoto: ciclamini, anturium... ghe xè pì ninte, i gà desfà tuto! Jera un spetacoeo, i campi pieni de piantine de tuti i coeori, mi però pai campi no so mai 'ndà, ghe jera i omani e dee donne. Go' lavorà là tredese ani, fin che me so sposà, a ventisete ani. E i me dà anca a pension, picoa, ma in ogni modo…».
Perfino il mastello era meglio del rastrello
E la poesia della società contadina? E il rimpianto dei campi verdi? Fantasie; fantasticherie.
C'era ben poco da rimpiangere. Chi oggi rimprovera ai veneti di aver forse poco rispettato il paesaggio rurale, dimostra di non sapere che quel "paesaggio" li aveva assai poco rispettati, che quel paesaggio non era il risultato dell'amore alla terra, ma della prevaricazione nei confronti dei contadini, a cominciare dalle bambine-braccianti.
Il laboratorio di sarta, la fabbrica, il mastello del bucato erano tutti preferibili ai campi del padrone.
Nessuna delle donne anziane che ci ha fatto da guida nella ricerca dell'identità veneta ha fatto questo paragone: la scelta l'avevano fatta da ragazze, non a parole ma con la vita. Cambiando così la loro vita e cambiando il Veneto.
20 febbraio 2009
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