ECONOMIA E LAVORO
Uno dei primi impegni del centrosinistra al governo
La forza del lavoro italiano nella globalizzazione
La "legge Maroni" va buttata via, perché nel nuovo mondo si compete lavorando meglio e lavorando tutti


di Tino Bedin

L'ultima parola (e l'ultima polemica) prima delle elezioni è stata "tasse". La prima parola (e la prima polemica, a parte la commedia degli sconfitti) dopo le elezioni è "lavoro".
Finita la propaganda, torna la vita. Subito infatti si è posto il tema dell'organizzazione del mercato del lavoro e dell'insopportabilità sociale della "legge Maroni" votata dalla Destra, stravolgendo sia i contenuti del "Pacchetto Treu" approvato nella legislatura dell'Ulivo sia le riflessioni scientifiche e le indicazioni operative del professor Marco Biagi.

La "legge Maroni" è anticostituzionale. In campagna elettorale mi hanno chiesto spesso se il centrosinistra avrebbe cambiato la "legge Biagi" (come la chiamano loro). Ho sempre risposto - programma dell'Unione alla mano - che la "legge Maroni" (come la chiamo io) deve essere buttata via per la sua filosofia, che rende rischiosi anche contenuti apparentemente condivisibili. A tenere insieme le norme sul lavoro che in cinque anni la Destra ha votate da sola, senza l'apporto dei protagonisti, è infatti un'ideologia anticostituzionale, nel senso che nega il contenuto dell'articolo 1 della Costituzione repubblicana. Nell'ideologia della Destra il lavoro è ridotto a solo costo. Nella Costituzione il lavoro è insieme diritto personale e valore fondante della comunità repubblicana: le leggi ordinarie dovrebbero quindi servire ad allargare a tutte le persone questo diritto e a rafforzare così il fondamento della comunità.
Basta vedere l'incertezza esistenziale a cui le leggi della Destra hanno ridotto centinaia di migliaia di persone, per convenire sulla necessità di ritornare alla Costituzione buttando via la "legge Maroni", con le sue modalità di rapporti di lavoro al di fuori di ogni stabilità, costruiti per l'azienda e non per il lavoro.

"I schei fa schei": un'illusione rischiosa. A leggere queste norme si ha la sensazione che una parte della società italiana abbia voluto elevare al rango di legge un'ideologia molto diffusa, che in Veneto si riassume nel motto "i schei fa schei": come se anche in Veneto, soprattutto in Veneto, all'origine dei soldi non ci fosse il lavoro, molto lavoro.
Ormai dentro una stagione europea e mondiale nella quale vanno ripensate le basi dello sviluppo, il buttare via la "legge Maroni" significherà per l'Italia anche riproporre il lavoro come uno degli elementi essenziali sui quali costruire la solidità economica nazionale ed europea, riducendo quella finanziarizzazione ("i schei fa schei", appunto), che non è oggi in grado di contrastare proprio la forza di lavoro con cui competono nel mondo i cinesi e gli indiani.
Le società democratiche possono partecipare alla sfida globale se competono con la qualità del lavoro, il valore del lavoro, il diritto al lavoro per tutte le persone; possono partecipare cioè se coinvolgono la maggior parte dei loro cittadini. Se ci rinunciano e pensano di vincere affidandosi ai pochi che dispongono dei capitali necessari per "comprare" il lavoro dei cinesi e degli indiani, le democrazie occidentali si metteranno nelle condizioni di essere a loro volta "comprate", rinunceranno cioè ad essere democratiche.

Condividere il peso del cambiamento. Il nuovo mondo nel quale viviamo esige ovviamente che i modi con cui realizzare l'articolo 1 della nostra Costituzione non siano più o non siano solo quelli che l'Italia ha sperimentato.
A differenza di qualche decennio fa, l'Italia non deve creare un suo sistema industriale, ma deve riqualificarlo. La riqualificazione industriale ha altissimi costi sociali, che nel periodo del consolidamento democratico ed economico sia l'Italia sia l'Europa hanno del resto già affrontati con la riqualificazione del sistema agricolo, dal quale in pochi decenni sono usciti decine di milioni di lavoratori. Come allora, servono dunque ammortizzatori sociali intelligenti, capaci di proteggere non i posti di lavoro ma le persone, facendo della solidarietà un'esigenza economica.
La nuova industrializzazione, cui il centrosinistra deve dedicarsi per bloccare il declino italiano, è impossibile senza un adeguato sistema di protezione sociale, che non addossi sui soli lavoratori tutti i costi della flessibilità.

Il "bene pubblico" della maternità. Il trasferimento dal datore di lavoro alla collettività del costo della maternità è un altro strumento per valorizzare il lavoro, nel senso che amplia il numero delle persone che partecipano con il loro lavoro alla sfida globale.
In questo caso si tratta di far partecipare le donne. La ridotta presenza delle donne nel lavoro è un danno per la comunità, che non valorizza tutti i suoi talenti e perde introiti fiscali.
Oggi i costi della maternità sono alti per le famiglie (molte donne smettono di lavorare perché il loro stipendio netto basta appena a pagare l'assistenza ai figli) e sono un terrore per i piccoli imprenditori, che cercano per quanto possibili di non assumere donne.
Né le famiglie né le imprese possono farcela da sole a superare questa situazione. Romano Prodi e la sua coalizione sono però in grado di ridurre anche questo "cuneo filiale" che rende meno "produttive" (in senso letterale) sia le famiglie che le imprese. Un tema che in passato era solo di pari opportunità, diventa nella nuova geografia globale un impegno di sviluppo sia economico che familiare. La "legge Maroni" è un ostacolo ideologico a queste novità. Va rimossa per consentire all'articolo 1 della Costituzione di sviluppare tutta la sua modernità.

15 aprile 2006


23 aprile 2006
la-065
scrivi al senatore
Tino Bedin