Nella seduta del 4 giugno 2003 la Giunta per gli Affari europei del Senato ha concluso l'esame dello Schema di decreto legislativo n. 216 "Attuazione della direttiva 2000/43/CE del Consiglio in materia di parità di trattamento senza distinzioni di razza o origine etnica". Su questo atto del governo il senatore Tino Bedin, segretario della Giunta, ha svolto una serie di interventi, che lo hanno portato infine ad astenersi sul provvedimento, assieme alla collega Tana De Zulueta dei Ds. Riportiamo l'insieme delle osservazioni del senatore Tino Bedin.
intervento di Tino Bedin segretario della Giunta per gli Affari europei
Con la direttiva sulla "parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica" (2000/43/CE) l'Unione Europea continua le azioni svolte dopo la comunicazione della Commissione europea del 1995 sulla lotta contro il razzismo. La direttiva si prefigge di combattere la discriminazione basata sulla razza o sull'origine etnica, completando e potenziando le disposizioni nazionali vigenti in materia, grazie in particolare a una definizione comune della discriminazione illecita.
Nel suo esame, il Parlamento europeo ha sottolineato il vantaggio di un'organizzazione del lavoro capace di utilizzare tutte le proprie risorse senza discriminazioni potrà avere in una società aperta e competitiva, quale il Consiglio europeo di Lisbona ha immaginato l'Europa dei prossimi anni.
Sul fronte europeo, nella prospettiva dell'ampliamento, la direttiva contribuirà al rispetto dei diritti dell'uomo. Inoltre, scoraggiando la discriminazione, essa dovrebbe permettere di aumentare la partecipazione alla vita economica e sociale e di ridurre l'emarginazione sociale.
Sul fronte italiano, il decreto legislativo di recepimento di questa direttiva comunitaria dovrebbe costituire qualcosa di più della trasposizione delle prescrizioni comunitarie, attraverso integrazioni e modifiche alla legislazione vigente. Il decreto dovrebbe servire a completare e ricondurre ad un quadro organico e coerente il complesso della normativa nazionale in materia, anche attraverso un più efficace coordinamento con la disciplina promozionale delle "azioni positive", in linea con la direttiva e con gli indirizzi comunitari più recenti.
L'Europa vuole migliorare il lavoro. La direttiva europea prevede che la parità di trattamento deve essere assicurata in materia di accesso al posto di lavoro, dipendente o meno, nonché in materia di formazione, di istruzione, di condizioni di lavoro, di partecipazione a un'organizzazione professionale, di protezione e di sicurezza sociale, di vantaggi sociali, di accesso a beni e servizi e di fornitura di beni e servizi. Un'unica eccezione è possibile, allorquando la razza, ovvero l'origine etnica, costituisce un'esigenza professionale essenziale (si pensi, per esempio, a spettacoli artistici, o a servizi sociali destinati a persone di un gruppo etnico particolare).
Ho richiamato l'ambito di intervento della direttiva, perché lo schema di decreto, a mio avviso, va oltre l'ambito delimitato dalle previsioni della direttiva, la quale non riguarda i princìpi generali in materia di discriminazione, ma l'ambito più circoscritto delle discriminazioni nel lavoro. L'estensione non è di per sé negativa, anzi. Dal punto di vista del gruppo della Margherita-L'Ulivo possiamo vedervi un orientamento meno chiuso di quello tipico del governo e della maggioranza. Il testo aggiunto rispetto alla direttiva richiama il testo della delega contenuta nella legge comunitaria 2001, ma non vorrei però che questa estensione fosse solo una frase ad effetto, che invece di produrre vantaggi significativi nell'organizzazione del lavoro, è destinata a creare difficoltà interpretative e quindi situazioni opposte a quelle previste dalla direttiva.
Si lascia alle imprese la gestione delle festività. L'articolo 1 dello schema introduce due elementi che non ci sono nella direttiva europea, perché sono oggetto di altre disposizioni e qui risultano perciò incoerenti: si tratta della parità tra i sessi e del contrasto delle forme di razzismo a carattere culturale e religioso. Le stesse parole sono richiamate tra gli scopi dell'Ufficio per il contrasto delle discriminazioni, che viene istituito con l'articolo 7 del decreto del governo.
Faccio notare che se quell'ultimo richiamo alla componente religiosa della non-discriminazione non è solo "poesia" ma disposizione legislativa, esso comporta il rispetto delle convinzioni e tradizioni religiose ad esempio in tema di festività: comportamenti differenziati per religione (dichiarare festiva la domenica e non il venerdì o il sabato) potrebbero configurarsi come discriminatori? O meglio: potra essere considerata "azione positiva" contro le discriminazioni una organizzazione del lavoro che copra tutti i giorni della settimana a patto di consentire a ciascuno di rispettare la propria festività? È questo che il governo propone?
Si tratta di conseguenze non facilmente gestibili nell'organizzazione del lavoro nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni, destinatarie dirette della normativa. Cosa prevede il governo per accompagnare una trasformazione così radicale degli orari di lavoro?
Ripeto: il gruppo Margherita-L'Ulivo ritiene importante per la nostra società una riflessione su questo tema. Lo ritiene anzi così decisivo per la nostra società da non poter lasciare che esso sia gestito dagli imprenditori come ulteriore elemento di "flessibilità" nel lavoro invece che come non-discriminazione dei lavoratori. Ci sono già imprenditori che vanno proponendo di utilizzare i lavoratori a seconda della loro religione in diversi giorni della settimana. È questa la volontà del governo: affidare al mercato del lavoro la trasformazione dell'orario settimanale?
Precisare meglio la definizione di discriminazione. Continuo ora il confronto fra la direttiva europea e il decreto del governo italiano. Questa è la principale funzione della nostra commissione; segnalerò quindi inevitabilmente solo i punti problematici o negativi, facendo salvi i punti positivi che derivano dalla direttiva e che comunque riguardano il merito della materia.
Sia la direttiva che il decreto definiscono quando si deve parlare di discriminazione e precisano quando questa sia "diretta" o "indiretta".
Al riguardo il regime definitorio introdotto dallo schema di decreto, la norma che definisce la discriminazione indiretta (art. 2, c. 1, lettera b) non appare del tutto conforme alla direttiva originaria. Quest'ultima fa riferimento a comportamenti apparentemente neutri che "possono mettere" le persone in una posizione di particolare svantaggio: invece lo schema di decreto legislativo limita l'ambito definitorio ai comportamenti discriminatori che "mettono" i lavoratori in condizioni di svantaggio, con evidente riduzione della sfera di tutela ai soli casi in cui si determina materialmente lo svantaggio.
Sarebbe quindi opportuno ripristinare la dizione, più estensiva, della direttiva. Ciò appare tanto più necessario perché, come ho ricordato all'inizio, uno degli obiettivi della direttiva è proprio quello di arrivare a definizioni europee comuni.
L'applicazione della direttiva non è precisa. L'articolo 3 del decreto precisa l'applicazione delle azioni di contrasto alle discriminazioni. A proposito di questo articolo le osservazioni sono molteplici.
Secondo il comma 1 dello schema il principio di parità senza distinzione di razza e origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato; l'articolo 3, comma 1, della direttiva applica le norme anche agli organismi di diritto pubblico, previsione mancante nello schema italiano.
Sempre con riferimento all'articolo 3, comma 1, dello schema, nella parte relativa all'ambito di applicazione oggettivo, rilevo l'omissione di quanto disposto dalla lettera d) del comma 1 dell'articolo 3 della direttiva, ove si prevede che la normativa si applichi per quanto attiene all'affiliazione e non solo all'attività in un'organizzazione di lavoratori o di datori di lavoro. Non si tratta di un particolare trascurabile: la possibilità di iscriversi ad una organizzazione imprenditoriale o sindacale è la condizione per poter poi esercitare i diritti conseguenti.
Sull'articolo 3, comma 3, dello schema, relativo alle deroghe per ragioni oggettive al principio di parità di trattamento, osservo che in esso non sia previsto il requisito della legittimità dell'obiettivo connesso con la forma di discriminazione attuata, come invece prevede l'articolo 4 della direttiva.
Ridurre i casi ammessi di trattamento differenziato. Ma al di là delle lacune puntuali, su questo comma va fatta una osservazione più generale.
Lo schema di decreto legislativo prevede che il principio di parità di trattamento - suscettibile di tutela giurisdizionale - non può essere considerato violato "qualora si tratti di caratteristiche che incidono sulla modalità di svolgimento dell'attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività lavorativa" (art. 3, comma 3).
Questa formulazione è indebitamente ampliativa dell'ambito di ammissibilità delle differenze di trattamento, come delineato dall'articolo 4, comma 1, della direttiva 2000/43/CE. Quest'ultima richiede infatti che le caratteristiche che giustificano una differenza di trattamento, costituiscano "per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui viene espletata, … requisito essenziale è determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato".
La previsione contenuta nello schema di decreto è evidentemente molto più vaga e indeterminata della prescrizione comunitaria e, come tale, si presta ad utilizzazioni strumentali o quanto meno a dubbi interpretativi.
Né vale a compensare questa carenza un'altra disposizione dello schema di decreto che riconosce come non discriminatorie le differenze di trattamento "giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi adeguati e proporzionati" (art. 3, comma 4).
Quest'ultima norma va comunque più correttamente inserita nell'articolo 2, comma 1, ove è contenuta la definizione di discriminazione indiretta. Messa qui diventa una specie di "salvaguardia" generale interpretativa, mentre la direttiva ne fa una definizione precisa e quindi un criterio di riferimento.
Per ripristinare almeno lo spirito, se non la lettera, della direttiva per un verso bisognerebbe ammettere la natura non discriminatoria di una disparità di trattamento solo in corrispondenza di caratteristiche che incidano in modo "essenziale e determinante" sulle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa. Per altro verso, occorrerebbe prevedere che i mezzi adottati siano piuttosto "appropriati e necessari", in modo da ridurre i margini interpretativi.
Indeterminate le sanzioni per chi discrimina. Passiamo all'articolo 4. Con riferimento alla tutela giurisdizionale dei diritti, lo schema di decreto interpreta all'articolo 4 il dettato comunitario attraverso il rinvio all'articolo 44 della legge n. 286 del 1998.
Questa norma prevede la facoltà del giudice di ordinare, su istanza di parte, la cessazione e la rimozione degli effetti della discriminazione, qualora il comportamento di un soggetto pubblico o privato produca una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La stessa disposizione, tuttavia, non disciplina solo le modalità processuali del giudizio e le forme d'impugnazione della decisione del giudice, ma prevede anche una sanzione penale per chiunque eluda i provvedimenti del giudice.
Il fatto che lo schema di decreto non specifichi con chiarezza se il rinvio debba intendersi esteso anche al regime sanzionatorio determina una grave difficoltà interpretativa. Giacché la tassatività della norma penale e il principio del favor rei deporrebbero per un'esclusione di tale estensione, il rischio è che rimanga indeterminato il regime sanzionatorio effettivamente applicabile.
Ancora per quanto riguarda l'articolo 4 dello schema, in esso manca la previsione dell'articolo 7, comma 1, della direttiva, nella parte in cui consente la tutela giurisdizionale e/o amministrativa dei diritti lesi anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione.
L'onere della prova scaricato sulla vittima. Ma molto più problematica appare la trasposizione nello schema di decreto della norma comunitaria in materia di onere della prova (art. 4, comma 3). Il senatore Luciano Magnalbò, con la competenza che gli riconosco da sempre, ella sua relazione introduttiva ha infatti richiamato su questo punto la maggiore discordanza tra testo della direttiva e schema del decreto.
L'articolo 8 della direttiva 2000/43/CE prevede che "incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento". La persona che si ritenga lesa deve in tal caso aver esposto "dinanzi a un tribunale o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta".
Lo schema di decreto in esame interpreta la prescrizione della direttiva in forma molto parziale, con l'esito di attenuare fortemente, rispetto al dettato comunitario, la tutela prevista per il ricorrente.
Quest'ultimo, infatti, secondo lo schema in esame, "al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, può dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti", valutabili dal giudice nei limiti delle presunzioni semplici, ai sensi dell'articolo 2729 del codice civile.
Il fatto che sia omesso ogni riferimento all'onere della prova per la parte convenuta non trova completa giustificazione neanche nel richiamo, pure contenuto nella norma comunitaria originaria, alla "conformità" delle misure adottate dagli Stati membri "ai loro sistemi giudiziari nazionali".
Infatti, se è pur vero che l'inversione dell'onere della prova non è ammessa dal nostro ordinamento se non in corrispondenza di specificate circostanze, la richiesta della deduzione, a carico del ricorrente, di fatti "gravi, precisi e concordanti" appare eccessivamente stringente in casi, quali quelli considerati, di comportamenti discriminatori: il rischio è di vanificare la stessa effettività della tutela e di tradire in un aspetto fondamentale lo spirito della direttiva in attuazione.
A questo proposito, sarebbe stata preferibile e più idonea alla fattispecie discriminatoria, la formula già contenuta nell'articolo 44, comma 9, del Testo unico sull'immigrazione (L. n. 289 del 1998), che prevede che il ricorrente possa "dedurre elementi di fatto anche a carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi contributivi, all'assegnazione delle mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti dell'azienda interessata".
Un altro esempio della "privatizzazione dei diritti". Con le osservazioni all'articolo 5 dello schema entriamo in una serie di scelte criticabili, che si ritrovano in tutto il decreto predisposto dal governo e che non corrispondono molto spesso alla lettera e quasi mai allo spirito della direttiva comunitaria.
Al comma 1 e al comma 3 c'è un'impostazione opposta rispetto alla direttiva (art. 7, comma 2), in quanto mentre quest'ultima consente alle associazioni e agli enti rappresentativi di agire direttamente per la tutela delle disposizioni in essa previste, lo schema prevede una delega scritta rilasciata dal soggetto passivo della discriminazione. Insomma l'Europa insiste sulla rappresentanza sociale delle associazioni e quindi sulla dimensione "pubblica" di possibili discriminazioni, mentre il decreto del governo insiste sulla dimensione "privata" del danno subito.
Questa "privatizzazione" dei diritti la si nota da qui in avanti in più punti. Ne segnalo subito uno.
Tra i compiti dell'Ufficio per il contrasto delle discriminazioni previsto dall'articolo 7 del decreto governativo c'è anche (2.c) "promuovere l'adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, in particolare da parte delle associazioni e degli enti di cui all'articolo 6, di misure specifiche, ivi compresi progetti di azioni positive, dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all'origine etnica".
Il dispositivo conclusivo riproduce alla lettera il dispositivo dell'articolo 5 della direttiva; questa però mette in capo allo Stato membro l'adozione delle azioni positive, come scelte istituzionali e non come attività promozionale da affidare ad un Ufficio anzi, preferibilmente, al volontariato attivo nel campo della lotta alle discriminazioni.
Limitato il ruolo delle organizzazioni non governative. È un volontariato al quale si richiedono una serie di requisiti, per entrare in un apposito registro - come prevede l'articolo 6 - del decreto, ma al quale non si assegna che questo compito di "pubbliche relazioni" e di assistenza, non di proposta.
Questo articolo non dà quindi esecuzione all'articolo 12 della direttiva, che prevede il "dialogo con le organizzazioni non governative": dialogo significa compartecipazione alla elaborazione delle politiche, non solo compartecipazione a qualche settore di applicazione degli interventi.
La diversità profonda tra la direttiva e la sua traduzione italiana da parte del governo si ha proprio su questo punto, reso evidente dall'articolo 13 della direttiva da una parte e dall'articolo 7 del decreto dall'altra.
La direttiva indica la necessità di costituire "organismi per la promozione della parità di trattamento". Tali organismi possono far parte di agenzie incaricate della difesa dei diritti umani, ma tra le competenze sono indicati: l'assistenza indipendente alle vittime, lo svolgimento di inchieste indipendenti, la pubblicazione di relazioni indipendenti. Insomma per tre competenze viene ripetuta tre volte la parola "indipendente".
Cosa fa il governo? Istituisce presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per le pari opportunità, un "Ufficio per il contrasto delle discriminazioni".
Questo ufficio che dunque è tutto tranne che indipendente ha le competenze che la direttiva indica per gli organismi; anzi fornisce anche assistenza nei procedimenti giurisdizionali o amministrativi (e così sostituisce anche qui gli organismi nono governativi), ha compiti ispettivi (a fianco della magistratura), fa una relazione al parlamento, promuove ricerche e corsi di formazione. Fa anche quello che la direttiva prevede all'articolo 10, cioè l'informazione (comma 2. d).
Insomma fa tutto lo Stato, anzi fa tutto la Presidenza del Consiglio. Fa quello che compete allo Stato, fa quello che compete alle organizzazioni non governative, fa quello che compete al controllo parlamentare.
Il livello di indipendenza si abbassa ulteriormente proprio in considerazione degli amplissimi compiti che vengono assegnati all'Ufficio.
Due articoli mancanti: dialogo sociale e protezione delle vittime. Questo è probabilmente il nodo più rilevante da sciogliere per poter affermare che il decreto recepisce la direttiva. In alternativa avremo infatti il mancato recepimento degli articoli 10 e 11 della direttiva (relativi, rispettivamente, al "dialogo sociale" e al "dialogo con le organizzazioni non governative"), e la totale mancanza di previsione di una qualsiasi forma di collaborazione e dialogo con le associazioni e con gli organismi non governativi che il Governo si limita a "censire" (con il Registro istituito presso la Presidenza del Consiglio, all'articolo 6) ma con le quali non prevede alcuna forma di interlocuzione.
Segnalo infine che tra le disposizioni della direttiva in attuazione che non hanno trovato diretta trasposizione nello schema di decreto ve n'è una, in materia di protezione delle vittime (art. 9 della direttiva 2000/43/CE), che avrebbe meritato quanto meno un intervento normativo di coordinamento in sede di attuazione delle norme comunitarie.
La citata disposizione della direttiva prevede infatti che gli Stati membri introducano nei rispettivi ordinamenti "le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli, quale reazione a un reclamo o a un'azione volta a ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento".
Anche sotto questo profilo, oltre alla opportunità di integrare lo schema di decreto legislativo con la previsione mancante (art. 9 della direttiva), va previsto (arricchendo ulteriormente tale importante norma) il diritto per le associazioni e le comunità riconosciute ai sensi dell'articolo 6 dello schema di decreto legislativo di costituirsi in giudizio a sostegno della vittima e, direttamente, come parti civili nei processi in materia di discriminazione e di razzismo.
4 giugno 2003
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