EUROPEI

Sembrava abbastanza la Brexit. Poi è stato eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump
Una generazione di europei
per non farci sorprendere dal passato

Dalla demagogia della coppia Reagan-Thatcher sulla globalizzazione alla demagogia della coppia Trump-May sull'isolamento

di Tino Bedin

Sembrava abbastanza la Brexit.
Sembrava abbastanza per gli inglesi, che con un referendum hanno democraticamente deciso di uscire dall'Unione Europea, la Brexit appunto, e dopo il voto si sono ritrovati confusi, divisi, incerti, meno sicuri del loro futuro.
Sembrava abbastanza la Brexit per i governanti dell'Europa, brutalmente schiaffeggiati da un popolo per la loro ossessiva ripetitività sui bilanci, mentre altre sono le paure, altri sono i bisogni delle famiglie e delle persone europee. Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ammette lo schiaffo: "Quando sono stato nominato presidente della Commissione volevo svolgere un ruolo costruttivo; volevo portare l'integrazione europea ad un punto di non ritorno. Quello di cui sono a capo ora, invece, è una grande de-costruzione che ci si chiede di organizzare".
Sembrava abbastanza la Brexit per i milioni di persone che in tutto il pianeta sono in fuga dalla guerra che le uccide, dall'intolleranza che le schiavizza e dall'avidità che le affama. Moltissime fra loro avevano in mente come meta proprio il Regno Unito, per la sua stessa storia fatto di persone di molte culture e di pelli variamente colorate; si sono viste sbattere la porta in faccia, perché quel voto è stato principalmente contro di loro.
Sembrava abbastanza la Brexit. Poi è stato eletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ancora il popolo ha deciso, democraticamente, voto su voto.
Quest'altro voto - ad aver voglia di leggerlo dopo averlo contato - illumina bene sia la scena in cui viviamo sia il panorama verso cui ci stiamo incamminando. Mostra che la Brexit non è abbastanza, la presidenza di Donald Trump non è abbastanza. Il tempo delle "sorprese" non finirà.

Populismo o giudizio sul popolo? La previsione è sufficientemente fondata perché queste "sorprese" non sono una novità; quando "scoppiano" non fanno partire razzi verso il futuro, scavano invece gallerie dentro il passato.
"Le crisi provocano delle paure, delle allerte. Dopo Hindeberg, la crisi del Trenta, la Germania è in frantumi, cerca di rialzarsi, cerca la sua identità e c'è un ragazzetto di nome Adolf Hitler che dice: io posso, io posso. E tutta la Germania vota Hitler. Hitler non rubò il potere, fu votato dal suo popolo e poi distrusse il suo popolo. Questo è il pericolo. In tempo di crisi non funziona il discernimento… Cerchiamo un salvatore che ci restituisca la nostra identità: difendiamoci con muri, con fili spinati, con qualsiasi altra cosa dagli altri popoli che possono toglierci la nostra identità… Il caso della Germania nel '33 è tipico… Un popolo che ha cercato la sua identità e a cui è apparso questo leader carismatico e diede loro un'identità distorta e sappiamo cosa è successo".
La citazione è da un'intervista di Papa Francesco al quotidiano spagnolo "El Pais" il 20 gennaio, giorno in cui Donald Trump giura come nuovo presidente degli Stati Uniti. La coincidenza di date è casuale e la valutazione storica non è un pre-giudizio su Donald Trump ("Vedremo quello che fa e allora valuteremo. Non si può essere profeti di calamità", avverte Papa Francesco nella stessa intervista). Coincidenza e richiamo storico danno però l'intera dimensione del passato che abbiamo davanti e non più alle spalle: le paure dei popoli, la parzialità (e quindi l'ingiustizia) delle risposte del mercato, l'afasia della democrazia rappresentativa nel frastuono della Babele social, la semplificazione della rappresentanza e della risposta nel populismo.
"Populismo" è parola che sta conoscendo un'imprevista notorietà in questo inizio di millennio. Nell'adottarla così diffusamente, studiosi, commentatori e politici finiscono per esprimere un giudizio: soggetto ed oggetto dell'involuzione socio-politica in atto è il popolo con le sue scelte di voto; i "populisti" non fanno altro che rappresentare la maggioranza degli elettori. I responsabili sono questi ultimi.
Vengono così "nascosti" dal linguaggio sia coloro che hanno generato e generano paure e povertà che influenzano i cittadini, sia coloro che utilizzano queste paure e queste povertà senza sapere come superarle.

Spaventa il non sapere come uscire dal disagio. Sono paure e povertà reali, non immaginarie. In Occidente, nella parte più sviluppata e più democratica del pianeta, un numero crescente di persone ha paura del futuro perché vede ogni giorno restringersi la speranza di stare meglio fra qualche tempo. Non è il disagio di oggi che inquieta. Spaventa il non sapere come uscire dal disagio. Il popolo aveva i suoi strumenti per progredire: il lavoro, lo studio dei figli, il risparmio della famiglia; erano i "pulsanti" di un ascensore sociale che funzionava grazie al welfare state, fatto non di sussidi ma di salute e scuola (università compresa), di occupazione e di pensioni.
Oggi quell'ascensore sociale è fermo, bloccato. L'energia del welfare state che lo alimentava si riduce sempre di più. Gli strumenti in mano alle famiglie scarseggiano: il lavoro è meno (come occupazione e come salario), lo studio non è garanzia per i giovani, il risparmio serve per i debiti delle banche e degli Stati non per la previdenza familiare.
C'è motivo dunque per avere paura. E c'è anche motivo per essere arrabbiati.
Mentre l'ascensore sociale è bloccato, continua a salire veloce l'ascensore della ricchezza. In tutti paesi sviluppati aumentano le differenze di reddito fra una minoranza della popolazione e la classe media, che subisce un inarrestabile impoverimento. La crescita della diseguaglianza non riguarda solo l'Occidente, ma altrove è socialmente attutita dal fatto che due miliardi di persone negli ultimi trent'anni sono uscite dalla malnutrizione e dal sottosviluppo.

L'ideologia del Mercato sopra lo Stato. La globalizzazione non è dunque un fatto negativo in sé. Pensiamo alla catastrofe in cui oggi saremmo immersi se oltre a parte dell'Africa e del Medio Oriente anche l'Asia continuasse ad "espellere" verso l'Europa milioni e milioni di poveri.
Piuttosto ora la globalizzazione presenta il conto di una sua gestione del tutto ideologica che fin dall'inizio ha predicato - e applicato - la supremazia del Mercato sullo Stato. Questa ideologia ha alla fine prodotto la prevaricazione del Mercato a dimensione globale sullo Stato che è rimasto a dimensione locale. Il compito distributivo dello Stato (una delle fondamenta dello sviluppo economico e sociale della seconda metà del secolo scorso) è stato negato a livello sia locale (con la riduzione del welfare state) che globale (l'Aiuto pubblico allo sviluppo è diminuito costantemente mentre aumenta il peso delle Fondazioni private). Il Mercato ha fatto prevalere la finanza sull'economia reale, staccando così la produzione di reddito dal territorio e legandola ai vantaggi fiscali in giro per il pianeta.
Campioni di questa globalizzazione interamente affidata al Mercato furono il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il primo ministro del Regno Unito Margareth Thatcher.
Ora il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro del Regno Unito Theresa May si presentano come campioni della chiusura dei confini: prima noi, fuori gli altri.
La demagogia Reagan-Thatcher assumeva le speranze popolari di un nuovo equilibrio globale dopo la guerra fredda per far passare una riduzione di diritti sociali ed economici della maggioranza della popolazione. La demagogia Trump-May assume le paure del terrorismo e delle migrazioni per far passare il ristabilimento della centralità anglo-americana, altrimenti bilanciata da rapporti internazionali nei quali anche altri hanno titolo e forza per contare.

L'Europa diventa un bersaglio. L'Unione europea è inevitabilmente il primo bersaglio di questa politica. L'Unione europea è attualmente una realtà economica in grado di contrattare con gli Usa e di bilanciarne il peso, se necessario.
Ripensiamo al caso "Dieselgate" che ha coinvolto la Volkswagen. Pur essendo la principale causa automobilista mondiale, difficilmente l'azienda tedesca avrebbe potuto sopportare lo scandalo negli Usa senza un mercato domestico di mezzo miliardo di europei e non di 80 milioni di tedeschi.
Se questo grande mercato domestico diventa un bersaglio, si capisce meglio l'avventata indizione di un referendum sull'Unione Europea, nonostante la consistenza di un forte partito antieuropeista nel Regno Unito. In questa prospettiva la Brexit non è stata una sorpresa, ma un obiettivo perseguito politicamente. Si capisce anche l'entusiasmo da sempre dimostrato da Ronald Trump (da candidato e da presidente) nei confronti della Brexit, con un'ingerenza mai registrata precedentemente, e i suoi continui riferimenti negativi all'Unione Europea. La Brexit ha infatti realizzato una prima riduzione del mercato domestico europeo: riduzione non decisiva economicamente, anche per lo scarso peso manifatturiero del Regno Unito, ma politicamente significativa e demagogicamente esemplare.
Non bastava però la Brexit a perseguire il nuovo disegno di equilibrio (o disequilibrio?) mondiale. Ci voleva anche che si riformasse il tandem Trump-May, come ai tempi di Reagan e Thatcher. Il mercato ha apprezzato e ha detto la sua: nei primi sei mesi dopo il referendum non ci sono stati tracolli nel Regno Unito; nella prima settimana di presidenza Trump ha Borsa americana ha raggiunto il valore più alto di tutta la sua storia.

L'Europa unita: un altro modo di non avere paura. C'è anche una ragione politica che fa dell'Europa il primo bersaglio anglo-americano: la sua natura, la sua storia e la sua attualità sono infatti il contrario degli indirizzi assunti dai nuovi governanti sia del Regno Unito che degli Stati Uniti.
A loro che invocano le paure e il bisogno di sicurezza delle loro opinioni pubbliche per rinchiudersi in se stessi, noi europei possiamo ricordare che anche la nostra Unione è nata dalla paura che però ci ha spinti ad aprirci. Lo riassume bene uno scritto di Jacques Delors, Antonio Vitorino, Pascal Lamy, Enrico Letta e Yves Bertoncini: "Il processo di costruzione europea si è potuto avviare perché i cittadini europei temevano per la loro sicurezza, minacciata dalla loro propensione secolare a combattersi a vicenda e dall'espansionismo sovietico". E i cinque europeisti ne ricavano un progetto per il futuro: "È nuovamente sulla scia dell'inno alla paura che la costruzione europea deve essere rilanciata oggi, in un cointesto segnato dai timori legati al cambiamento climatico, dalla follia finanziaria, da flussi migratori anarchici, ma anche e soprattutto dalle minacce alla sicurezza di persone e beni. L'aspirazione dei popoli alla sicurezza deve essere al centro di un programma che riunisca l'insieme dei paesi dell'UE, esposti a diverso titolo a delle minacce che traggono a est o a sud dei nostri confini, ma anche sul nostro suolo, dove sono nati la maggior parte dei terroristi".
È una delle prove cui l'Unione Europea deve sottoporsi in questo 2017.
Anno decisivo questo 2017, perché altre importanti elezioni riguarderanno i popoli europei e l'appartenenza all'Unione farà parte del dibattito elettorale e delle scelte dei cittadini, con la già evidente diffusione di una demagogia di governi ed opposizioni che tendono a scaricare fuori dagli Stati le origini delle difficoltà.
Anno significativo questo 2017, perché il 25 marzo l'Unione Europea compie sessant'anni. Era il 25 marzo 1957 quando in Campidoglio a Roma furono firmati i Trattati istitutivi delle prime tre Comunità europee: quella economica (CEE), quella del carbone e dell'acciaio (CECA), quella dell'energia atomica (EURATOM). I compleanni favoriscono generalmente i ricordi e i bilanci. In questo 2017 sarà necessario che prevalgano i programmi. I problemi da affrontare, come abbiamo visto, non mancano.
A volerle cercare non mancano neppure le risorse umane per costruire il futuro. Ad esempio, se si collegheranno i sessant'anni dei Trattati di Roma con i trent'anni di Erasmus, il programma di scambi che coinvolge studenti universitari, insegnanti, allievi della scuola secondaria e dell'obbligo, scuole professionali, volontariato ed è senza dubbio uno dei grandi successi dell'Europa. Il consuntivo dell'ultimo anno documenta che quasi 700 mila ragazzi hanno studiato, lavorato, si sono formati e hanno fatto volontariato in Europa, grazie allo stanziamento di due miliardi di euro da parte dell'Unione Europea, che è stato utilizzato da 70 mila organizzazioni per circa 17 mila progetti. In trent'anni si è formata una "generazione Erasmus" che è composta da quasi quattro milioni di europei. È il momento che questa generazione intraprenda la sua "lunga marcia attraverso le istituzioni" europee, perché all'Europa di oggi servono persone formate da europee.
Questa lunga marcia nel nostro presente è la sola alternativa alla demagogia del passato, con i suoi confini e i suoi conflitti sanguinosi.

29 gennaio 2017


31 gennaio 2017
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