ILa Repubblica ceca ha concluso con il 30 giugno il suo semestre di Presidenza dell'Unione Europea. Dire che l'Europa ha continuato a funzionare "nonostante" la sua Presidenza di turno è certamente eccessivo ed anche ingiusto. Va dato atto che primo ministro e ministri cechi, pur improvvisati per la caduta del governo, hanno contribuito all'attività dell'Unione ed hanno raggiunto alcuni risultati positivi.
C'è comunque un problema che la Presidenza ceca dell'Europa lascia; un problema cui prima o poi occorrerà confrontarci. La riassumo in una domanda: è possibile ad uno Stato membro presiedere l'Unione Europea se a capo di questo Stato c'è una personalità, democraticamente eletta dal suo popolo, che è contraria all'Europa? Questo è successo nei primi sei mesi del 2009, con il presidente ceco dichiaratamente euroscettico, al punto che deve ancora firmare la ratifica del Trattato di Lisbona pur approvata dal Parlamento della Repubblica ceca. Più in generale il presidente dell'Unione ha avuto in patria l'opposizione del suo presidente della Repubblica a tutte le più significative decisioni che doveva prendere l'Europa.
Può durare una situazione di questo genere? Può replicarsi più o meno spesso nella vita dell'Unione? Evidentemente no.
Ciascun popolo si decida. La soluzione non è ovviamente quella di imporre limitazioni o di chiedere assicurazioni; la soluzione non è diplomatica. La soluzione deve essere democratica. È ormai tempo che sulla propria condizione di cittadini europei i popoli che hanno dei dubbi che arrivano fino ai capi di Stato e di governo si esprimano direttamente. Dicano i popoli se vogliono restare nell'Unione o se preferiscono tornare a fare da soli, magari associati all'Unione ma non membri di Istituzioni comuni. Il popolo ceco avrebbe delle buone e storiche ragioni per essere guardingo: per tutto il secolo scorso si è vista comandare via via da Vienna e poi da Berlino e poi da Mosca. Nessuno scandalo se oggi questo stesso popolo teme Bruxelles.
Il progetto europeo è completamente diverso dagli imperialismi che hanno tolto l'indipendenza a Praga, ma non può essere né imposto né subito. Deve essere scelto. Chi non se la sente, chi ha le sue ragioni per non accettarlo, è libero di uscire. L'Europa non lo mette alla porta; l'Europa lo aspetterà eventualmente più avanti nel tempo. Intanto però gli europei hanno democraticamente il diritto di continuare a perfezionare le loro istituzioni.
La pretesa inglese per Blair. Il semestre di Presidenza ceca dell'Unione, come ho detto, ha posto in forma evidente una scelta che non riguarda solo la Repubblica ceca.
Sono sempre più gli Stati e i popoli che sono approdati all'Unione Europea per ragioni diverse da quelle su cui l'Unione è stata progettata e realizzata. Alcuni di questi popoli hanno appreso la filosofia europea, altri stanno continuando a perseverare in una visione che non tiene conto del cammino europeo. Gli Stati baltici, ad esempio, pur non essendo tra i primi e non avendo la storia dei fondatori, si sono rivelati modernamente comunitari, pur con la loro originalità. Il Regno Unito invece ha sempre preteso di ridurre l'Unione Europea ad uno spazio economico e si è rafforzato con un'analoga posizione di molti Stati dell'Europa orientale.
Posizione legittima, ma di cui occorrerebbe che il Regno Unito traesse le conseguenze. Invece è in atto una lunga e capillare attività diplomatica per assegnare ad un inglese, cioè a Tony Blair, la prima presidenza stabile dell'Unione, come previsto dal Trattato di Lisbona.
Una coalizione politica per l'Europa. Al di là del giudizio su Tony Blair, sarebbe intollerabile che uno degli Stati che meno ha condiviso con gli altri assumesse questo ruolo. Sarebbe anche politicamente pericoloso per l'Unione Europea proprio nella stagione in cui - sia perché i tempi sono maturi sia perché il Trattato di Lisbona lo faciliterà - si porranno le condizioni perché finalmente si riprenda la stagione dell'Europa che va avanti anche senza portarsi dietro tutti. È già avvenuto con l'euro; è già avvenuto con il trattato di Schengen.
L'applicazione del Trattato di Lisbona dà questa opportunità. Potrebbe comportare un rischio senza una scelta politica maggioritaria per il metodo comunitario, che è l'unico effettivamente europeo. L'alternativa è il metodo intergovernativo, che ha bloccato l'Unione durante la presidenza di Barroso, che proprio per questo non meriterebbe di essere riconfermato.
Siamo all'inizio dell'attività quinquennale del Parlamento Europeo rinnovato a giugno. Dopo aver provveduto all'organizzazione interna, sarà importante che all'interno del Parlamento si lavori per un'ampia coalizione delle forze politiche impegnate in favore dell'Europa.
Le ragioni per una nuova integrazione europea con chi ci sta sono in gran parte dentro la crisi economica attuale o meglio dentro il fallimento della globalizzazione mercantile e finanziaria, cui l'Europa si è adeguata perché non aveva la forza sufficiente per imporre il suo modello di integrazione. Ora l'Europa può dimostrare che la sua storia e le sue istituzioni sono migliori del Fondo monetario internazionale o dell'Organizzazione mondiale del commercio. Ovviamente serve una strategia che sia specifica all'Unione europea e non si limiti a coordinare ventisette piani di rilancio nazionali, come ha preteso di fare Barroso.
È molto probabile che non tutti i Ventisette saranno d'accordo. E allora avanti in pochi, quelli che ci stanno, quelli che hanno assimilato il "progetto europeo" di integrazione, all'origine in risposta alle macerie della guerra, oggi in risposta alle macerie del "mercato".
12 luglio 2009