Fin da ora però chiedo al governo di fornire al Parlamento nella prossima nella "Relazione sulla partecipazione dell'Italia all'Unione Europea" anche una valutazione politica di sintesi sull'Italia in Europa e sull'Europa in Italia.
Lo chiedo, ma so di chiedere qualcosa che questo governo non è in grado di fare, né oggi né domani. Una visione europea d'insieme non è possibile ad una maggioranza, una parte della quale definisce l'Unione europea Forcolandia e nella quale il ministro del Tesoro si è premurato, cosa mai successa in nessuno Paese, di dir male della sua moneta, l'euro. Anche le parole di Bossi e di Tremonti l'Europa ha sentite dall'Italia nel 2003.
Altro che "sogno comune" evocato dallo slogan della Presidenza italiana! Da una parte del governo italiano l'Europa nel 2003 è stata rappresentata ai propri concittadini come "incubo comune".
Con il fallimento della Conferenza intergovernativa, a guida italiana, il 2003 è poi finito con meno "futuro per l'Europa": nel semestre italiano anche lo slogan greco è stato sconfessato.
Questo è stata l'Italia in Europa nel 2003, anche se non solo questo. Non pretendiamo che sia scritto nella relazione; anzi meglio che non sia scritto. Dobbiamo però tenerne conto: per giudicare, per rimediare.
Sono stati valorizzati gli interessi italiani?
Nell'impianto della Relazione del governo non manca però solo una visione di sintesi. C'è una seconda carenza strutturale che ritengo di evidenziare in vista delle future Relazioni al Parlamento: il documento è preoccupato di far emergere il ruolo dell'Italia in Europa, ma non anche quello dell'Europa in Italia. La lunga, a volte contabile descrizione di fatti e di intenzioni, di progetti e di realizzazioni, che hanno caratterizzato la vita dell'Unione Europea nel 2003, non è generalmente accompagnata da una valutazione delle conseguenze che queste scelte hanno avuto ed avranno nella società e nell'economia italiane. È come se l'Europa fosse un indistinto ed uniforme soggetto sociale ed economico.
Non è così: l'Unione è una ricchezza di diversità, che hanno bisogno di essere interpretate e rappresentate per continuare ad essere una risorsa e non occasione di antagonismo.
Dalla Relazione del governo il Parlamento e quindi i cittadini si aspettano perciò di sapere come sono stati valorizzati gli interessi italiani in Europa, cosa devono aspettarsi dai cambiamenti, come il governo italiano ha preparato l'Italia ai cambiamenti. È un'esigenza di trasparenza democratica, visto che l'Unione è oggi uno dei luoghi in cui si esercita la sovranità popolare. È un'esigenza di comunicazione: se questa è carente o assente possono crescere paure e dubbi nei cittadini singoli e nelle organizzazioni sociali.
C'è nel governo chi ha interesse ad alimentare subdolamente la "paura dell'Europa" proprio tacendo le conseguenze positive che l'Unione ha nella vita degli italiani?
Cambia l'Italia nella nuova geografia dell'Unione
Il caso più evidente di questa lacuna strutturale (ma anche di cittadinanza) della Relazione lo si coglie a proposito dell'ampliamento dell'Unione Europea.
Fallita la Conferenza intergovernativa, l'avvenimento più rilevante del 2003 per l'Unione Europea è indubbiamente l'allargamento. Formalmente esso avverrà il prossimo 1° maggio, ma giuridicamente e politicamente è il 2003 l'anno dell'adesione di dieci nuovi paesi all'Unione. La firma del Trattato di adesione si è infatti avuta il 16 aprile 2003, davanti al Partenone, in occasione del Vertice di Atene. L'Europa è stata l'argomento di consultazioni popolari nei paesi candidati ed è quindi diventata il fatto politico del 2003. Nei parlamenti dell'Unione, compreso quello italiano, la ratifica del Trattato di adesione ha costituto l'occasione per un dibattito e la determinazione delle linee future.
La nuova geografia cambia l'Unione nel suo insieme, ma cambia anche l'Italia. Come è stato accompagnato il cambiamento per l'Italia, non ci è dato di sapere dalla Relazione. Non cambia nulla? O non c'è scritto niente perché non si è ottenuto niente?
Come si sono bilanciate le esigenze dei paesi candidati, emerse nell'ultima fase dei negoziati prima della firma del Trattato di adesione, con le esigenze dell'Italia? I compromessi raggiunti avranno conseguenze sulle politiche strutturali europee in Italia?
Quali sono gli strumenti con i quali l'Europa accompagna in concreto le regioni italiane nel prossimo futuro?
Nella nostra visione l'Europa Unita non è prevalentemente lo spazio di una competizione, lo voglio dire chiaramente. L'allargamento è soprattutto la nascita di una grande area politica di cittadinanza, di sicurezza, di scambi di persone e di prodotti. L'allargamento è una grande opportunità. Agli italiani attraverso il Parlamento piacerebbe sapere come ci siamo attrezzati per coglierla.
Per parlare dei vantaggi economici dell'Allargamento la Relazione del governo italiano ricorre alle parole dell'ex primo ministro olandese Win Kok: analisi certamente interessante e rassicurante, ma un conto è essere olandesi ed un conto è essere siciliani per quanto riguarda - ad esempio - i collegamenti con la nuova Europa.
La competizione Italia-Germania per Galileo
Questo silenzio sull'Europa in Italia lo si ha comunque non solo nei capitoli politico-istituzionali.
Anche in settori parziali questa attenzione manca. Un esempio, per me significativo, è il Progetto Galileo. Il 2003 è stato l'anno nel quale ha preso avvio concretamente la fase di sviluppo di Galileo, progetto destinato a creare un sistema satellitare europeo di navigazione e di posizionamento, compatibile con i sistemi già esistenti Gps (americano) e Glonass (russo).
L'attivazione di questo progetto per quanto riguarda i contenuti industriali è stato oggetto di una lunga competizione dell'Italia con la Germania. Nella Relazione non c'è cenno di questa competizione, dei suoi risultati, di cosa ha ottenuto l'Italia e di che cosa ha ceduto alla Germania. C'è stato uno scambio tra guida industriale del Progetto Galileo e Agenzia alimentare?
La rottura istituzionale sul Patto di stabilità
Ho citato il Progetto Galileo non solo per la rilevanza industriale ed economica degli investimenti, ma perché per il suo contenuto tecnologico e scientifico è uno dei progetti che si inseriscono a pieno titolo nella Strategia di Lisbona, cioè nell'impegno a fare dell'Europa l'area della conoscenza più sviluppata nel mondo entro il 2010.
Per il raggiungimento degli obiettivi della Strategia di Lisbona è indispensabile mantenere un quadro macroeconomico stabile. In particolare, le politiche fiscali dell'Unione devono continuare ad essere guidate dal Patto di stabilità e crescita.
Su questo punto c'è il silenzio del governo italiano nella Relazione; silenzio strano, perché il 2003 non è stato un "anno ordinario" per il Patto di stabilità. Non tutti gli Stati membri hanno dimostrato lo stesso grado di impegno nel rispetto della disciplina fiscale e di bilancio. Pertanto, a causa della debole congiuntura, ma in alcuni casi anche di politiche di bilancio espansionistiche, il disavanzo medio dell'Unione ha raggiunto il 2,7 per cento del PIL nel 2003.
Nel bilancio del semestre di presidenza italiana c'è da registrare proprio il mancato accordo sul rispetto del Patto di stabilità e crescita al consiglio Ecofin, che ha determinato una rottura istituzionale tra Consiglio e Commissione.
Noi riteniamo che l'Italia non abbia svolto fino in fondo il suo compito, che non abbia speso il suo ruolo di presidente di turno per evitare questa contrapposizione istituzionale, ma anche per non creare il precedente del mancato rispetto dei parametri del Patto.
È parso che l'Italia si sia voluta porre nella condizione di poter rivendicare in un futuro abbastanza prossimo la stessa libertà che si prendevano Francia e Germania, in considerazione della insostenibilità delle cifre del bilancio pubblico italiano dopo una serie di finanziarie base su entrate straordinarie. In effetti, è stato del tutto inusuale per la Presidenza non sostenere le proposte della Commissione, che è garante dei Trattati e dell'interesse comunitario. Bene ha fatto, quindi, la Commissione a far ricorso alla Corte di giustizia contro la decisione dell'Ecofin.
Questo non significa che noi riteniamo immodificabile il Patto. Anzi, una presidenza accorta avrebbe potuto assumere questa come linea di mediazione istituzionale: applicare le regole del patto e immediatamente dopo prevedere il loro adeguamento, ad esempio mettendo fuori dai parametri del Patto alcune spese, ad esempio proprio quelle destinate a realizzare la strategia di Lisbona.
Una relazione completa della Partecipazione dell'Italia all'Europa avrebbe dovuto contenere anche il fatto grave e straordinario della rottura istituzionale tra Consiglio e Commissione sul Patto di stabilità: per commentarlo, giustificarlo, ma anche per indicare proposte sul superamento di quelle divergenze.
Nella lista dei "mediocri" perla Strategia di Lisbona
Non sono, dunque solo positivi i fatti gestiti dall'Italia in Europa nel 2003, come invece sembra voler far emergere la Relazione.
Certamente positiva, in un periodo di un calo generalizzato degli investimenti, è l'iniziativa europea di crescita con il programma Quick Start, approvati dal Consiglio europeo a presidenza italiana. L'iniziativa di crescita e il programma Quick Start svolgeranno un ruolo essenziale nella mobilitazione degli investimenti nei settori delle infrastrutture e della conoscenza.
Ma questa è una decisione, riguarda cioè il futuro. Se, come è materia della Relazione, ci dedichiamo al bilancio dei progressi compiuti nella Strategia di Lisbona, ricaviamo che i segni positivi per l'Italia sono davvero pochi, tanto che l'Italia è nella lista dei "mediocri".
Si legge nella Relazione della Commissione europea al Consiglio europeo di primavera del 26 marzo 2004: "L'analisi della situazione attuale consente di operare una distinzione tra Stati membri che sinora hanno ottenuto risultati relativamente migliori (Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Svezia e Regno Unito) e quelli che, in base ai più recenti dati disponibili, registrano dati relativamente mediocri (Grecia, Spagna, Italia e Portogallo)".
Anche nei confronti della situazione del 1999, non compare nella lista dei paesi che registrano progressi soddisfacenti.
L'Italia non c'è tra i paesi che sono riusciti a migliorare l'occupazione dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni (ci sono riusciti Francia, Finlandia e Paesi Bassi).
L'Italia ricompare nella lista dei deludenti per la produttività del lavoro: "Va osservato che, dal 1999, la crescita della produttività del lavoro è stata particolarmente rapida in Grecia e Irlanda, ma piuttosto deludente in Italia e in Lussemburgo, durante lo stesso periodo".
Bisogna prendere atto di queste difficoltà e cercare di superarle anche mettendo a frutto due situazioni positive dell'Italia: l'aumento dell'occupazione tra il 1999 e il 2002 (cioè in gran parte per le politiche dell'Ulivo) e degli investimenti delle imprese italiane nel settore della conoscenza. La positività di questi dati è comunque relativa al punto di partenza. Ad esempio per il lavoro, l'Italia infatti registra il più basso tasso occupazionale complessivo (55,5 per cento) e delle donne (42 per cento) nell'Unione europea, con il più alto tasso di disoccupazione di lunga durata (5,3 per cento).
La diplomazia delle battute non fa politica estera
Se la firma sul Trattato di adesione (sotto presidenza greca) è stata il più rilevante evento positivo per l'Europa del 2003, la mancata firma sul Trattato costituzionale (sotto presidenza italiana) è stato il più rilevante evento negativo.
Ha riassunto un giornale italiano: "Alla fine è mancata la Costituzione europea, ma abbiamo avuto l'Agenzia alimentare di Parma. Non saremo ricordati come i padri fondatori della nuova Europa, ma avremo l'opportunità di difendere i marchi del mangiar bene".
L'Italia si è presentata all'appuntamento senza le condizioni per svolgere il ruolo di leader che le assegnava il fatto di essere uno dei grandi paesi dell'Unione e uno dei paesi fondatori. Le condizioni non c'erano perché non si è lavorato per una politica estera europea.
L'Agenzia alimentare era un obiettivo alla portata italiana, benché tutt'altro che scontato, ed è stato centrato con la giusta dose di tenacia nel sostenere la linea intrapresa dal governo dell'Ulivo nella precedente legislatura.
Sulla Costituzione europea l'Italia ha invece evidenziato una forza politica inadeguata ed un sistema di alleanze insufficiente. La diplomazia delle battute e delle buone volontà nulla può contro gli autentici nodi politici, il cui scioglimento è determinato da rapporti di forza e da un progetto a medio termine.
Fra i risultati positivi del 2003 ci sono le proposte concordate dai Ministri degli esteri nella riunione di Napoli del 28 e 29 novembre, riguardanti in particolare il Protocollo sulla difesa europea, le precisazioni sulle funzioni del Ministro degli esteri europeo.
La Relazione dà ampio risalto a queste conclusioni. Fa bene: sono decisive per il futuro dell'Unione Europea. Ma per il Governo italiano è come se l'Europa e l'Italia vi fossero arrivate per caso, non sulla spinta delle drammatiche lacerazioni che si sono registrate proprio nel 2003, non per scongiurare il del rischio della formazione di "motori europei" non coordinati con la "macchina" complessiva dell'Unione.
Non c'è cenno, infatti, nella Relazione all'evento più drammatico del 2003: l'invasione anglo-americana dell'Iraq. Drammatico allora, tragico oggi dopo l'11 marzo, ma anche prima con la sequela interminabile di attentati tra cui quello ai nostri militari a Nassiryia.
Cosa centra l'Unione Europea con la guerra all'Iraq? Giuridicamente niente, certo (ma gia questo sarebbe motivo di analisi in un resoconto sul 2003); politicamente moltissimo. Sappiamo tutti che le bombe lanciate su Bagdad sono cadute anche sull'Europa. La coalizione dei volonterosi ha diviso l'Unione. Ci sono stati addirittura documenti di gruppi di nazioni europee contrapposte.
Anche questa è l'Europa del 2003, ma non se ne parla nella Relazione del governo. Anche questa è l'eredità del 2003, ma il governo non dice come uscirne.
La relazione preferisce dilungarsi sulla "spinta italiana"ad un ruolo dell'Europa all'Onu, che è certamente una prospettiva che condividiamo, che è un risultato di una più generale politica estera europea.
Freddo con i tedeschi, caloroso con Putin e Sharon
Il coraggio dell'analisi su quello che è successo in Europa nel 2003 è assente anche per altre scelte fatte dall'Italia volontariamente involontariamente.
Quanto ha pesato sull'Europa il freddo diplomatico tra Italia e la Germania, prima con l'intervento del presidente del Consiglio al parlamento europeo e poi con le dichiarazioni di un sottosegretario sui tedeschi che passano le vacanze in Italia, in particolare nella mia regione?
Più grave è stata la presa di posizione relativamente alla Russia e a Israele.
Non esitando a prendere in contropiede la posizione comune dell'Unione Europea il presidente del Consiglio italiano egli ha dato un sostegno aperto a Vladimir Putin nel corso del Vertice Ue-Russia del 6 novembre, prendendo le difese del presidente russo a proposito della Cecenia.
Prima, a qualche giorno dall'inizio della sua presidenza, egli si era piegato alle richieste israeliane decidendo di non far visita a Yasser Arafat, in contrasto con la linea fissata dagli Europei. In novembre ha espresso un sostegno senza ombre ad Ariel Sharon in visita a Roma.
Dovremmo a questo punto stupirci se l'Italia non ha raggiunto l'obiettivo della conclusione della Conferenza intergovernativa?
Il fallimento della Conferenza intergovernativa
Eppure si trattava della prima Cig istruita da un organismo, la Convenzione, nella quale le posizioni dei singoli stati erano già state confrontate, coordinate. Noi non diciamo che fosse facile arrivare alla firma nel nuovo Trattato di Roma. Ci voleva però lo spirito costituente che c'era nell'Italia di quel primo trattato.
Ci pare inoltre che fosse comunque necessario prevedere anche l'insuccesso, facendo in modo che la mancata conclusione fosse vissuta solo come un temporaneo, episodico rinvio e non come un fallimento senza prospettive.
Dopo il Consiglio di Bruxelles invece non c'è stato più calendario.
La Relazione fa una descrizione positiva dello stato dei lavori della Cig al momento della chiusura della Presidenza italiana. Mi sembra difficile sostenere che fosse positiva al 31 dicembre la condizione della trattativa.
Innanzi tutto nessuna delle soluzioni apparentemente concordate è stata approvata dalla Conferenza intergovernativa a livello dei capi di governo. Questa è una delle conseguenze del modo in cui sono state condotte le riunioni conclusive di Bruxelles il 12-13 dicembre: contatti bilaterali nel cosiddetto confessionale, senza riunioni plenarie nelle quali potevano matura un accordo generale.
In secondo luogo non era stato predisposto il secondo tempo; con la Presidenza irlandese non era stato concordato un eventuale percorso successivo. Sicumera? Scaramanzia? Comunque sia, il Trattato costituzionale è scomparso dall'agenda operativa, rimanendo nello sfondo dell'agenda generale dell'Unione.
Nemmeno per se stessa l'Italia ha predisposto nel corso del 2003 un percorso successivo alla Cig. Nel corso della prima parte del 2003 e ancor meno nel corso del semestre di Presidenza il governo italiano non ha fatto proposte originali, autonome; non ha espresso posizioni, non ha indicato una strada all'Europa. Almeno all'inizio del mandato avrebbe potuto farlo, come contributo ad una costruzione da fare insieme.
Non averlo fatto non si è rivelato solo una rinuncia, ma anche un handicap per il percorso successivo. Non ha potuto nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles sostenere che una via poteva essere quella delle cooperazioni rafforzate. Il governo italiano si è difeso dicendo che non condivideva l'idea che ci fosse un'Europa di serie A e un'Europa di serie B. Il rischio che stava correndo l'Europa era comunque di finire tutta in serie B nel campionato planetario e di fronte a questa prospettiva serviva lo spirito dei paesi fondatori, più volte evocato, invocato, nel corso del 2003 dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi. Di questi richiami, di questa Italia in Europa, quella impersonata dal presidente Ciampi, non ho trovato traccia nella Relazione. Questo documento non deve rendere conto solo di quello che ha fatto il governo, ma di quello che ha fatto la Repubblica italiana.
Ma mentre l'Italia si ritirava, subito, già nel 2003 altri paesi fondatori si sono mossi, per verificare se esistesse un gruppo di Paesi disposto a condividere subito alcune parti del Trattato costituzionale, lasciando ovviamente la porta aperta agli altri, come è avvenuto per l'euro e per la difesa.
Non era europea la deformazione della legge sulle armi
Concludo con una breve annotazione a riguardo della Politica europea di sicurezza e difesa. Della Pesd scelgo dalla Relazione una sola riga, che mi consente di ritornare su una delle due osservazioni iniziali, cioè sull'assenza nella Relazione dell'Europa in Italia.
Il 2003 è stato l'anno nel quale la maggioranza ha deformato la legge 185 sul commercio delle armi. Ricordo che quella deformazione è stata per lunghi mesi giustificata dal governo con la necessità di ratificare l'Accordo di Farnborough sull'industria europea della Difesa. Di questa ratifica non c'è traccia nella Relazione, né nel capitolo della Pesd né in quello del mercato interno. È la conferma, pochi mesi dopo l'approvazione della legge, che l'Europa non centra niente con le nuove regole italiane sul commercio di armamenti. Io l'avevo sostenuto per un anno, avvertendo che con la deformazione della 185 l'Italia riduceva la solidarietà industriale e militare dell'Europa.
Il governo non può neppure dire che si tratta di una dimenticanza o che non ci sia l'argomento delle armi: la Relazione infatti ricorda che nel 2003 è stata decisa la nascita di un'Agenzia europea per gli armamenti. Si tratta di una citazione di una riga, senza commento. Il Parlamento e i cittadini meriterebbe di avere almeno l'indicazione di quale politica attraverso questa Agenzia l'Italia intende perseguire.
All'ultimo Consiglio europeo sotto presidenza italiana è stato dato incarico all'Altro rappresentante per la politica estera e di difesa di riesaminare l'embargo delle armi alla Cina. È una brutta notizia per l'Europa, per il mondo, per la pace. La Relazione non ne parla.
Questa brutta notizia andava citata in una Relazione che si dilunga nel contrasto alle armi di distruzione di massa. A questo riguardo c'è un'altra notizia che manca, eppure è una bella notizia: l'India ha collaborato con l'Europa nel controllo degli impianti nucleari. Questa collaborazione è stata il risultato di un'iniziativa di Francia, Germania e Regno Unito. L'iniziativa è avvenuta mentre l'Unione europea era guidata dall'Italia, che non vi ha preso parte.
Questa esclusione non è solo un fatto negativo per l'Italia; l'Italia non ha potuto, saputo, voluto che fosse la politica estera europea a raggiungere questo risultato.
25 marzo 2004
Intervento nella commissione Politiche dell'Unione europea.