Il virus Ebola non si lascia "guardare" dagli scienziati, ma ci permette di "vedere" meglio dentro il "nostro" mondo. Dopo quasi quarant'anni di epidemie in Africa, Ebola è arrivato sulla riva ovest dell'Atlantico e sulla riva nord del Mediterraneo. È entrato nel "nostro" mondo che tutti devono ora riconoscere comprende anche l'Africa. Quello che non sta riuscendo a centinaia di migliaia di emigranti dall'Africa, diventa realtà con poche unità di malati di Ebola negli Usa e in Europa: la periferia del mondo si confonde con il centro; l'Africa e l'America sono costrette a… vestirsi allo stesso modo, con maschere e scafandri bianchi; Europa e Africa hanno le stesse paure.
Dei migranti che scappano dall'Africa molti dicono: "lasciateli lì", "riportateli lì". I malati di Ebola non possiamo restituirli all'Africa che li ha contagiati: dobbiamo tenerli tra noi e se riusciamo a salvare loro, riusciremo a fornire una soluzione anche all'Africa. È il mondo unico, dentro al quale possiamo vedere meglio. "L'occhio dello straniero vede solo quello che già conosce", dice un proverbio dell'antico popolo Dogon che vive nel Mali. Nel mondo unificato da Ebola siamo tutti un po' meno stranieri e l'occhio può fermarsi su quello che non vedeva. Ciò porterà vantaggi a tutti, perché Africa è sempre più interconnessa con il resto del mondo.
Nutrirsi non è ancora un diritto. Questo continente è attualmente una specie di periferia planetaria; è alla periferia di tutto, è la somma di tante periferie. Altrove c'è il "centro" e c'è la periferia. In Africa no; neppure città capitali come Adis Abeba o Kinshasa hanno caratteristiche di "centri".
Questa situazione determina comportamenti conseguenti per chi ci nasce e per chi viene da fuori. Eccone due.
Tra i medici nati in Liberia e Sierra Leone (due tra gli stati colpiti da Ebola nel 2014) sono più numerosi quelli che lavorano nei paesi dell'Ocse di quelli che lavorano nei rispettivi paesi di origine. Un paradosso? Non tanto: quanti dei nostri medici sono rimasti in campagna o in montagna, cioè nelle periferie? La differenza è che in Africa non stare in periferia vuol dire andare fuori dal continente.
Chi da fuori arriva in una qualsiasi periferia ha la convinzione di poter fare quello che vuole, perché comunque farà meglio del presente. A partire dagli anni Duemila la Cina ha progressivamente sempre più investito in Africa. Non da sola, certo, ma oggi è il primo partner commerciale del continente. In questo stesso periodo l'Africa ha registrano un tasso di crescita annuo medio del 5 per cento e le prospettive sono favorevoli anche per il 2014 e il 2015. Sempre nello stesso periodo la mancanza di cibo nel Corno d'Africa è diventata cronica. E non solo lì. Romano Prodi, che dall'ottobre del 2012 al gennaio 2014 ha svolto l'incarico di inviato speciale del segretario generale dell'Onu per il Sahel, racconta: "Nel rapporto conclusivo che ho presentato al Consiglio di sicurezza e che è stato approvato a dicembre, sono indicate cinque direttrici d'intervento. La prima è cibo, acqua, nutrizione, una scelta naturale in una regione in cui manca tutto". Il rapporto di Romano Prodi riguarda nello specifico Mauritania, Ciad, Burkina Faso, Niger e Mali.
Lo squilibrio internazionale del lavoro. L'accesso al cibo è precluso dalla povertà, non da ragioni climatiche o produttive. La povertà è la prima sfida dell'Africa, nel giudizio di Kamara Dekamo Mamadou, ambasciatore della Repubblica del Congo in Italia. Parlando come decano del Corpo diplomatico africano accreditato presso il Quirinale in un conferenza dell'Ocse sull'Africa che si è tenuta a Roma nel giugno scorso egli ha notato: "L'Africa vende, l'Africa acquista, ma l'Africa produce poco. Ne derivano problemi di aggiustamento tra domanda e offerta ma anche profonde frustrazioni. La rapida crescita della disoccupazione fra i giovani è all'origine della Primavera araba; ma le stesse cause possono produrre gli stessi effetti: le stesse cause che hanno abbattuto un cattivo regime, potrebbero abbattere un buon regime".
Romano Prodi e Kamara Dekamo Mamadou confermano le preoccupazioni di Papa Francesco, che all'attenzione alle periferie esistenziali associa spesso le periferie economiche del mondo, là dove mancano anche le risorse basilari, sottratte agli abitanti dalla spregiudicatezza di una economia finanziaria che sfugge ad ogni controllo.
Papa Francesco ha di nuovo insistito su questo punto il 2 ottobre scorso in occasione della riunione plenaria del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: "Uno degli aspetti dell'odierno sistema economico è lo sfruttamento dello squilibrio internazionale nei costi del lavoro, che fa leva su miliardi di persone che vivono con meno di due dollari al giorno. Un tale squilibrio non solo non rispetta la dignità di coloro che alimentano la manodopera a basso prezzo, ma distrugge fonti di lavoro in quelle regioni in cui esso è maggiormente tutelato".
Di nuovo un unico mondo, dice il Pontefice: lo sfruttamento dei lavoratori africani genera l'impoverimento dei lavoratori europei.
Milioni di ragazzi di periferia. Nella sua relazione alla Conferenza di Roma in giugno l'ambasciatore Kamara Dekamo Mamadou ha posto alla base dei cambiamenti in corso in Africa un numero: "Nel 2010 il continente è ufficialmente passato a un miliardo di abitanti". Per capire la sostanza del cambiamento servono altri due numeri: nel 1960 gli africani erano 284 milioni; nello stesso anno 2010 gli europei erano 740 milioni. Per verificare la direzione del cambiamento è utile un terzo numero: alla fine del 2013 gli abitanti dell'Africa erano già 1.123.800.000.
C'è però un numero, dentro questi numeri, che trasforma le statistiche in esperienza di vita: la gran parte di questi "numeri" rappresenta dei bambini. Anche in questo l'Africa è una periferia planetaria. Ne dà conto Romano Prodi: "Per far capire con ancora maggiore efficacia che cosa sta succedendo, basti pensare che mentre l'età mediana (cioè l'età che divide la popolazione di un paese in due parti numericamente uguali) è in Italia di 45 anni, nei paesi del Sahel è intorno ai 17. Metà della popolazione ha cioè meno di 17 anni".
Sembra una non-notizia: tutte le periferie sono piene di bambini. Sembra statistica e invece sono centinaia di milioni di "ragazzi di periferia" che grazie alla globalizzazione delle informazioni e delle comunicazioni "vivono" già un unico mondo, quello che abitiamo anche noi: chi li fermerà se decidono di venire ad abitare tra noi?
All'inizio di ottobre, organizzato dall'Organizzazione internazionale delle Migrazioni e dal Ministero degli Esteri italiano, si è tenuto a Roma il workshop internazionale "Integrare la migrazione nello sviluppo". Nel documento elaborato per l'occasione da Link 2007 (una rete di organizzazioni non governative italiane) si legge: "Non vi è dubbio che il continente più vicino a noi, l'Africa, giocherà un ruolo centrale nella distribuzione della popolazione mondiale in questo secolo". Se non riuscisse ad "offrire nuove opportunità di lavoro, la migrazione di decine, forse centinaia di milioni di persone verso paesi africani economicamente più forti o verso l'Europa sarà inevitabile. Creare occupazione in Africa diventa un'assoluta priorità".
Con cultura e finalità diametralmente opposte a quelle che motivano Link 2007, è un po' quello che dicono gli oppositori del mondo unico: gli africani - e non solo - vanno aiutati "a casa loro".
C'è dunque un consenso diffuso in questa direzione. Ciò fa pensare che le azioni dei governi siano coerenti con questo consenso a parole. Nei fatti sta avvenendo tutto l'opposto. Vediamo - come esemplari - un caso globale e un caso europeo.
Poter sperare nella propria terra. Tornando ad utilizzare l'epidemia di Ebola come "lente d'ingrandimento", si può leggere che il bilancio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità si sta progressivamente riducendo perché gli Stati versano sempre meno, al punto che il maggiore finanziatore attuale dell'Oms è un privato: il filantropo Bill Gates, proprio il fondatore della Microsoft attraverso la fondazione che porta il nome suo e di sua moglie. Bill Gates finanzia ma dice anche dove devono essere spesi i soldi. Per l'Ebola restano così gli spiccioli e soprattutto non ci sono investimenti.
Da parte sua l'Unione Europea dall'inizio del millennio sta trattando duramente con i paesi africani (e anche con quelli del Pacifico e dei Caraibi) per rivedere le regole dei reciproci scambi commerciali. L'Europa vuole introdurre il principio del libero scambio commerciale: niente dazi in entrata e in uscita nelle due direzioni. Detta così, è una condizione ovvia. Ma l'economia africana non è l'economia europea e quindi una situazione di parità fra diseguali non è una situazione giusta. E non si era detto da tutti di aiutare gli africani a casa loro?
Negli anni Settanta quella che ancora si chiamava Comunità Europea ha pensato che proprio gli scambi commerciali potessero essere uno strumento di promozione dello sviluppo e con i Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico ha sottoscritto la Convenzione di Lomé: i prodotti dei Paesi ACP possono essere esportati in Europa senza dazi all'entrata; come contropartita i Paesi ACP danno la precedenza all'importazione di prodotti europei, che però pagano il dazio. Ora l'Unione Europea vuole superare la Convenzione di Lomé e adottare il libero scambio.
Se la prima emergenza dell'Africa è l'alimentazione, il libero scambio significa la distruzione dell'agricoltura africana e della relativa industria di lavorazione e trasformazione, che non arriverebbero mai a sfamare la loro gente.
Prima di essere "aggiornata" la Convenzione di Lomé merita di essere letta con gli occhi di chi l'ha scritta: un'Europa che stava nascendo con l'ambizione di eliminare le periferie al proprio interno e che applicava la stessa ambizione anche al resto del mondo, nella certezza che consentire a ciascuno di non sentirsi "periferia esistenziale", perché può sperare nella propria terra è la condizione per vivere in pace nell'unico mondo.
26 ottobre 2014