di Tino Bedin
Era sembrato un modo per... sdrammatizzare la sorpresa che lo Spirito Santo aveva preparata per Chiesa. "Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo…": così Papa Francesco si era presentato in Piazza San Pietro e nelle case di milioni e milioni di persone di tutto il mondo, quasi rassicurare tutti che il primo a rendersi conto della "stranezza" della scelta era proprio lui. Invece era solo l'inizio della sua predicazione.
La "fine del mondo" è stata ben presto definita "periferia": invito alla Chiesa e ai cristiani ad essere "decentrati". "La Chiesa è istituzione, ma quando si erige in 'centro' si funzionalizza e un poco alla volta si trasforma in una Ong".
E subito, perché non si assimilasse la "periferia" all'America latina, cioè perché non si riducesse la sua predicazione all'esperienza di vescovo argentino, "callejero", di strada, ha parlato di "periferie esistenziali". In luglio ha condiviso la sua visione proprio con i vescovi latino-americani: "Mi piace dire che la posizione del discepolo missionario non è una posizione di centro bensì di periferie: vive in tensione verso le periferie… incluse quelle dell'eternità nell'incontro con Gesù Cristo. Nell'annuncio evangelico, parlare di 'periferie esistenziali' decentra e abitualmente abbiamo paura di uscire dal centro. Il discepolo missionario è un 'decentrato': il centro è Gesù Cristo, che convoca e invia. Il discepolo è inviato alle periferie esistenziali".
"Tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima. E le strade sono quelle del mondo dove la gente vive, dove è raggiungibile effettivamente e affettivamente. Tra queste strade ci sono anche quelle digitali, affollate di umanità, spesso ferita: uomini e donne che cercano una salvezza o una speranza", ha ulteriormente spiegato in gennaio nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali.
Forse non è venuto dalla "fine del mondo". Le "periferie esistenziali", cioè tutto ciò che è marginale per la cultura dominante, ogni persona che viene considerata come uno "scarto" dal sistema economico e sociale, inglobano anche le periferie delle grandi città; queste ultime sono un simbolo dell'essere tagliati fuori.
L'America latina è piena di questi "simboli": cambiano nome a seconda del paese, ma indicano le stesse persone, le stesse vite. Le favélas del Brasile sono quelle più note, ma altrove hanno nomi tragicamente evocativi anche in italiano: villas miserias in Argentina, ciudades perdidas in Messico, tugurios in Colombia; e poi callampas in Cile, guasmos in Ecuador e barrios marginales in Perú, ranchitos in Venezuela.
"Villas miserias" abitate da milioni di persone che paradossalmente proprio qui sono arrivate per scampare ad una miseria ancor più tragica, perché senza neppure la speranza che qualcosa potesse cambiare. Invece da qui puoi vedere il "centro", puoi anche andarci. Ma poi devi tornare alla tua baracca perché tu sei "periferia", sei uno che vive ai margini; la tua stessa esistenza è marginale. Intanto però in questo andirivieni dalla baracca al "centro" i bambini hanno imparato a sopravvivere in strada, da soli. I più grandi si illudono in altri "viaggi": vittime e complici dei narcotrafficanti, trasformano se stessi in periferia.
La dimensione continentale di queste condizioni ha certamente dato un'impronta alla Chiesa latino-americana, che da decenni ha maturato la scelta preferenziale per i poveri. Non una scelta sociologica, ma risposta alla missione: "Mi ha mandato ad evangelizzare i poveri". "È puro Vangelo", chiosa spesso Papa Francesco quando teme che qualcuno interpreti parole e gesti della Chiesa come una novità.
Se non in America Latina, dove il Vangelo può essere vissuto? In questo continente vive il 42 per cento dei cattolici di tutto il mondo. Vengono da questo continente anche gli "hispanos" che vivono negli Stati Uniti. In tutto oltre la metà dei cattolici sono latino-americani.
Vien da pensare lo Spirito Santo è andato a prendersi il vescovo di Roma non alla "fine del mondo" ma nel cuore della Chiesa.
Il cibo diritto costituzionale. A Roma è stato chiamato due anni fa un altro latino-americano, per nulla noto né allora né ora in Italia e in Europa, ma capace di portare nel cuore di un'altra istituzione planetaria la vita dell'America Latina. L'istituzione è la Fao (il Fondo dell'Onu per l'Agricoltura, che ha sede appunto a Roma); lui è José Graziano da Silva, figlio di genitori brasiliani immigrati negli Stati Uniti, agronomo, ministro per la sicurezza alimentare del Brasile con il presidente Luiz Inácio Lula da Silva, dall'1 gennaio 2012 direttore generale della Fao.
Uno degli obiettivi della Fao è l'eliminazione della fame nel mondo. All'inizio di questo millennio l'atlante geografico della fame comprendeva anche il Brasile; oggi non più. La regressione della fame non è figlia dello sviluppo economico: è piuttosto il fatto che molti mangino di più ad accelerare la crescita complessiva del Brasile.
Il punto di partenza è stato infatti il riconoscimento di diritti agli affamati: secondo la Costituzione del 1998 il cibo è diritto costituzionale in Brasile. Poi l'attuazione questo diritto è inserita nel programma di governo: 1 gennaio 2003, discorso di insediamento del presidente del Brasile Lula: "Finché ci saranno un fratello o una sorella brasiliani che avranno fame, avremo motivi d'avanzo per coprirci di vergogna. Per questo ho stabilito tra le priorità del mio governo un programma di sicurezza alimentare che ha il nome di 'Fame Zero'. Se alla fine del mio mandato, tutti i brasiliani avranno la possibilità di fare colazione, pranzare e cenare, avrò compiuto la missione della mia vita". Dal programma al'azione: c'è un ministero speciale per la lotta alla fame, a dirigerlo Lula chiama l'agronomo Luis Graziano da Silva, che attua il programma "Fame zero".
Alla base del programma non c'è il sussidio ma il lavoro di una parte degli "affamati", i piccoli produttori agricoli. Ad esempio gli incentivi finanziari servono a far accedere i coltivatori diretti alla fornitura di pasti per le scuole, forniture fino ad allora sempre vinte dalle grandi imprese agroalimentari. Si è calcolato che 28 milioni di brasiliani siano usciti dalla soglia di povertà attraverso questo programma.
Ora che è a Roma alla guida della Fao l'agronomo Luis Graziano da Silva prova a ripetere lo schema a livello planetario.
La Fao ha scelto il 2014 come anno mondiale dell'agricoltura familiare. Visto che per sconfiggere la fame non è servito l'aumento delle produzioni (che le multinazionali hanno gestito impoverendo milioni di contadini della terra, che sono stati privati persino della titolarità delle sementi), si segue la strada brasiliana puntando sui produttori locali, creando sussistenza per loro e cibo per i territori in cui vivono. Ha spiegato bene il direttore della Fao: "Più del 70 cento delle popolazioni che vivono in stato d'insicurezza alimentare risiedono in zone rurali nei Paesi in via di sviluppo. In grande parte si tratta di agricoltori famigliari, produttori di sussistenza, che coltivano per l'autoconsumo. Fino a non molto tempo fa, per questo motivo, erano visti soltanto come un soggetto a cui dedicare delle politiche sociali, e non come importanti attori produttivi. Erano considerati parte del problema della fame nel mondo, mentre sono parte della soluzione".
Nessuno è così povero da non avere nulla da offrire, spiegherebbe evangelicamente Papa Francesco.
Cittadini americani figli di clandestini. Le scelte fatte in Brasile con il programma "Fame Zero", ora rilanciate a livello globale dalla Fao, hanno il pregio di spiegare in concreto, in carne ed ossa, chi sono le "periferie esistenziali" incontro alle quali Papa Francesco sprona la Chiesa e invita i giovani. Sono persone che diventano "periferia" perché non vengono incontrate. Spesso vengono respinte. Altre volte ci si difende da loro: ufficialmente, legalmente.
Ecco come si formano nuove "periferie" in America latina.
Sono quasi 5 milioni i bambini statunitensi che hanno almeno un genitore "clandestino". Sono bambini nati negli Stati Uniti, e quindi sono cittadini americani, da genitori immigrati latino-americani privi di cittadinanza. La conseguenza è che questi piccoli americani devono subire la deportazione del padre o della madre (o di entrambi).
Il recente rapporto dei Gesuiti statunitensi ("Un fallimento documentato. Le conseguenze della politica anti-immigrazione lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti"), che riporta questa situazione, segnala anche "la separazione dei migranti dai familiari operata dalla polizia di frontiera statunitense. Il fenomeno è particolarmente grave per le donne che, nel 30% dei casi secondo il governo messicano, vengono separate dai propri accompagnatori e rispedite in centri di accoglienza in Messico dove rischiano di subire abusi".
Qui sono le leggi a creare le "periferia esistenziali".
In Honduras il Parlamento aveva preso la decisione di diventare il primo Stato del pianeta nel quale costruire una ventina di "città private". Dovevano essere costruite con 15 miliardi di dollari di finanziamenti provenienti da imprese internazionali, ed avrebbero avuto un sistema monetario e tributario, leggi e politiche di immigrazione e di sicurezza proprie. La Corte costituzionale ha cassato la decisione perché metteva a rischio la sovranità nazionale e - almeno per ora - non se ne fa nulla. Segnalano però - anche perché nascono da filosofie che vengono dal "centro" del pianeta - l'altro modo di creare "periferie": difendendosi da esse, isolandosi nella propria ricchezza.
L'errore del ricco Epulone. La promessa - o meglio il miraggio - che anche la proposta delle "città private" faceva alle "periferie" già esistenti è sempre la stessa: per costruirle arriveranno dei soldi, tanti, è qualche dollaro finirà anche in periferia.
L'America latina ha sperimentato negli ultimi 25 anni ricette economiche e politiche differenti. Complessivamente c'è stata una crescita generalizzata, tanto che il Brasile è ormai fra gli attori dell'economia globale. L'insieme del continente non è più percepito come "in via di sviluppo".
Eppure è la regione del pianeta con la maggiore disuguaglianza: è stato calcolato che il 10 per cento dei più ricchi tra gli abitanti ha in tasca 84 volte più risorse rispetto al 10 per cento dei più poveri. Per farci un'idea, in Italia (che è il paese europeo con la maggiore disuguaglianza) i più ricchi hanno in tasca 12 volte le risorse dei più poveri.
La situazione dell'America latina conferma che la crescita economica da sola non basta a creare giustizia; anzi chi sta al "centro" del sistema è in grado di intercettare la maggior parte delle nuove risorse, aumentando così la disuguaglianza.
È sempre più evidente che la fragilità di uno dei pilastri dell'ideologia capitalistica: la ricchezza dei ricchi fa bene anche ai poveri, secondo il principio della "ricaduta favorevole". Non è un principio nuovo, visto che Gesù si è premurato di dedicare ad esso una delle parabole più dure, quella del ricco Epulone (con i suoi cani e le sue briciole).
"È Vangelo puro", dice Papa Francesco. Vangelo da cui si ricava che l'alternativa è la "relazione": un'altra delle parole più usate dal Papa. Una società "relazionale" - che quindi escluda in sé di avere delle periferie - è anche la terapia indicata da alcuni studiosi per riprenderci dall'infarto finanziario globale generato da trent'anni di capitalismo individualista.
Per il 21 dicembre del 2012 il calendario dei Maya aveva previsto la "fine di un mondo", caratterizzato proprio dall'individualismo. Nessuno ha preso sul serio quella profezia fiorita in America latina. Meno di tre mesi dopo però proprio dall'America latina è arrivato un vescovo che si è fatto chiamare Francesco.
6 aprile 2014
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