di Tino Bedin
Il 26 marzo del 1967 Papa Paolo VI pubblicò l'Enciclica "Populorum progressio". Quarant'anni fa il 26 marzo era la domenica di Pasqua: una data scelta non a caso da Paolo VI, perché - sono parole dell'enciclica - "fedele all'insegnamento e all'esempio del suo divino Fondatore, che poneva l'annuncio della buona novella ai poveri (cfr. Lc 7, 22) quale segno della sua missione, la Chiesa non ha mai trascurato di promuovere l'elevazione umana dei popoli ai quali portava la fede in Cristo".
Forse non sono molti a ricordare o a conoscere il titolo dell'enciclica; molti di più nel mondo, anche non cattolico, ne conoscono la conclusione, perché è diventata un modo di intendere i rapporti internazionali: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace".
Erano tempi di grande fervore postconciliare nella Chiesa cattolica. Erano tempi di grande slancio della pastorale sociale e in genere di tutto l'impegno sociale della Chiesa. Poco prima della pubblicazione dell'enciclica, Paolo VI aveva istituito una speciale commissione pontificia, "Iustitia et pax", ispirata ad una frase del profeta Isaia 32,17, secondo cui la pace è "opera" della giustizia.
Da parte sua l'Occidente in quegli anni stava abbandonando il ruolo di padrone coloniale e si proponeva come partner, non sempre disinteressato, dello sviluppo delle nuove nazioni. Nelle opinioni pubbliche occidentali c'era un convinto e diffuso entusiasmo nei confronti delle iniziative per la lotta alla fame e al sottosviluppo.
Ingenuità o profezia? A quaranta anni da questo documento papale quanti sono ancora ad interrogarsi su come superare il sottosviluppo, causa di fame, malattie e ingiustizie? Non molti a giudicare dalla scarsa attenzione che l'anniversario ha avuto almeno finora. Del resto l'enciclica paolina è stata disattesa e quasi dimenticata già negli immediati Anni Settanta. Giovanni Paolo II la riprese e la aggiornò nel 1987 con l'enciclica "Sollicitudo rei socialis", ma questo documento è passato ancor più della "Populorum progressio" come un testo interno alla Chiesa.
L'Occidente aveva deciso di non accorgersi della profezia.
Continua tuttora in questa decisione, al punto che rinuncia ad un'analisi storica. Così si cerca di accreditare che "Populorum progressio" sia un'enciclica "ingenua", figlia dell'entusiasmo di allora, non di analisi applicabili. Insomma - dicono economisti ed analisti apparentemente benevoli - le idee di Paolo VI non sono state applicate perché ma in questi quarant'anni abbiamo visto che il problema dello sviluppo è più complesso di quanto non potesse apparire alla fine degli anni Sessanta.
Poiché tra questi "ingenui" ci sono anch'io che allora avevo vent'anni, ma che da allora non ho mai smesso di pensare che la storia contemporanea possa essere scritta dalla pace e non dalla guerra (come la precedente storia dell'umanità), provo a leggere l'enciclica paolina con gli occhi di oggi.
Il Nobel della pace ad un banchiere. Comincio dalla conclusione dell'enciclica: "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace".
Quarant'anni dopo, questa affermazione è stata fatta propria e condivisa da una delle più prestigiose "cattedre civili" contemporanee, quella del Premio Nobel. Per il 2006 il Nobel per la pace è stato conferito ad un innovatore nel campo della microfinanza per lo sviluppo: Muhammad Yunus, banchiere originario del Bangladesh ed economista, ideatore e realizzatore del microcredito, ovvero di un sistema di piccoli prestiti destinati ad imprenditori troppo poveri per ottenere credito dai circuiti bancari tradizionali. Gli è stato assegnato il Nobel per la pace non quello per l'economia.
La sostenibilità dello sviluppo. Passiamo all'attualità generale di questo 2007, con le preoccupazioni per l'ambiente, il clima, il futuro delle città. Lo sviluppo da solo non appare più come un'opportunità, ma come un rischio. Allo sviluppo va aggiunto l'aggettivo "sostenibile".
Anche questo elemento immancabile e indiscusso del linguaggio sullo sviluppo meriterebbe di essere ricordato nel 2007. Il concetto di "sviluppo sostenibile" è stato infatti introdotto nel dibattito mondiale dal Rapporto Bruntland del 1987, "Il nostro futuro comune". Vi si definisce come sostenibile lo sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro bisogni.
Esattamente vent'anni prima della norvegese Gro Harlem Bruntland, Paolo VI nella "Populorum progressio" così "spiega" il significato della destinazione universale dei beni: "Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario. Tutti gli altri diritti, compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa".
Molti anni prima che la globalizzazione ingoiasse il pianeta e digerisse tutte le rivoluzioni (compresa quella cinese) Paolo VI offriva una via alternativa, mettendo in discussione che ci sia un diritto umano al "possesso" dei campi, dei minerali, dell'acqua, degli alberi, degli animali, che non sono di una singola persona o di un singolo Paese, ma "di Dio".
Niente di rivoluzionario: e infatti i vari anni "giubilari", seguiti al 1967 sono stati (o avrebbero dovuto essere) ispirati comando biblico (Levitico, capitolo 25), secondo cui il popolo di Dio ogni 50 anni avrebbe dovuto lasciare "riposare la terra", fermando lo sfruttamento delle risorse naturali, avrebbe dovuto essere restituita alla comunità la terra acquistata, cioè i beni accumulati, avrebbe dovuto liberare gli schiavi.
Esattamente il contrario dell'attuale "saggezza" economica.
Forse è per questo che la "Populorum progressio" è stata accantonata e le riprese successive, compresa l'enciclica "Sollicitudo rei socialis", pubblicata nel 1987, non hanno avuto adeguato seguito.
Popoli dell'opulenza e popoli della fame. Quarant'anni fa era politicamente imprevedibile la caduta del Muro di Berlino e la fine della contrapposizione tra Est ed Ovest della Terra.
Paolo VI non vede in quella contrapposizione il vero rischio della pace. Non sarebbe stato lo scontro tra comunismo e capitalismo a generare la guerra. Il vero dramma - profetizza la "Populorum progressio" - è il crescente e drammatico divario tra "i popoli dell'opulenza" e "i popoli della fame". Questo squilibrio, se non sanato, poteva portare il mondo alla guerra.
È esattamente quello che è successo, anche se la guerra non ha le caratteristiche tradizionali e neppure quelle apocalittiche dell'olocausto nucleare immaginato negli anni Sessanta. La guerra tra "i popoli dell'opulenza" e "i popoli della fame" alimenta oggi sia il terrorismo internazionale che l'esportazione della democrazia. Perché di fronte all'avverarsi dei rischi generati dal nuovo squilibrio denunciato da Paolo VI, si sono cercate motivazioni meno compromettenti. Samuel P. Huntington ha così teorizzato "lo scontro delle civiltà", oggi politicamente sostenuto da molti, sia negli Usa che in Italia.
A rileggere oggi la "Populorum progressio" pare che Paolo VI quasi se la sentisse che questo sarebbe stato lo sbocco ed ecco che ci mette in mano, fin da quarant'anni fa, i "dialoghi di civiltà". Scrive: "Tra le civiltà , come tra le persone, un dialogo sincero è di fatto creatore di fraternità. L'impresa dello sviluppo ravvicinerà i popoli".
Questi dialoghi di civiltà sono indispensabili perché i soli rapporti economici non creeranno lo sviluppo e quindi non creeranno la pace. Paolo VI scrive che "la legge del libero mercato non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali" e che "i prezzi che si formano "liberamente" sul mercato possono condurre a risultati iniqui".
Non emergenza ma programmazione. Posso continuare a leggere la "Populorum progressio" con gli occhi di oggi e trovarvi indicazioni per l'oggi.
Oggi una telecamera fa più rumore di un terremoto. La solidarietà si esprime - anche generosamente - più per un'emergenza che per la giustizia. In televisione si raccolgono milioni di euro su singole povertà; in parlamento non si trovano i soldi per finanziare la cooperazione allo sviluppo.
Qurant'anni fa la "Populorum progressio" scrive che non bastano le campagne per vincere la fame, l'analfabetismo, l'istruzione che vengono promosse, ma che spesso si limitano a tamponare per un momento l'emergenza. Paolo VI ricorda che ci vogliono programmi a media e lunga scadenza per "costruire un mondo in cui ogni uomo, senza esclusioni di razza, di religione, di nazionalità possa vivere una vita pienamente umana".
Ingenuo unilateralismo. Leggo Paolo VI e mi confermo che "ingenuo" non è il testo della "Populorum progressio"; "ingenui" non siamo stati e non siamo quanti considerano "lo sviluppo il nuovo nome della pace". "Ingenui" sono stati e sono coloro che hanno pensato e pensano che esistano vie unilaterali alla sicurezza e al benessere.
25 marzo 2007
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