COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
I mutamenti nei partiti segnalano un percorso quasi obbligato
Il bisogno di pace cambierà israeliani e palestinesi
La più forte contraddizione è in Israele, che continua a credere che i confini siano barriere

Il patronato parrocchiale di Sant'Angelo di Piove ha organizzato venerdì 15 parile 2005 un dialogo sulla situazione in Israele e Palestina. Al senatore Tino Bedin i promotori hanno chiesto di fare il punto sulla evoluzione della politica israeliana, mentre Garaba Jamil, presidente dell'Associazione Sit U Zatar, ha illustrato la situazione e le politiche dei palestinesi. Riportiamo la relazione di Tino Bedin, nella quale sono riportate anche informazioni e valutazioni tratte dalla stampa israeliana.

a cura di Tino Bedin senatore

La pace è una necessità così forte in Terra Santa che neppure gli scontri di questi giorni hanno raffreddato l'aria di speranza che dall'inizio dell'anno si respira in Italia, in Occidente, ma anche in Medio Oriente.
Giovedì 14 aprile tredici sindaci israeliani e quindici sindaci palestinesi si sono incontrati a Gerico, città autonoma palestinese, al fine di promuovere il dialogo di pace tra i due popoli. Tra i partecipanti c'erano, per Israele, i sindaci di Sderot, Haifa, Rishon Letzion, Beersheva e Eilat e di altri centri, e, per i palestinesi, quelli di Gerico, Tulkarem, Nablus e Jenin e di altre località.
Rivolgendosi agli ospiti israeliani, il negoziatore e deputato palestinese Saeb Erekat ha detto: "Noi vi vogliamo come nostri vicini e soci e non come coloni e soldati di una potenza occupante". Gli ha risposto il sindaco di Sderot, cittadina più volte colpita da razzi sparati da Gaza, Eli Moyal: "Noi siamo qui - ha detto - per porgervi la mano in segno di pace e per farvi le scuse per le vostre sofferenze e chiedervi una tregua di un anno per salvare vite innocenti di ambedue le parti".
Al termine dell'incontro, organizzato dall'uomo d'affari israeliano Iyal Erlich, i partecipanti, che hanno definito "storica" l'iniziativa, hanno sottoscritto un comunicato nel quale si afferma che ce ne saranno altri, che alternativamente si svolgeranno in città israeliane e palestinesi, "allo scopo di rafforzare lo spirito di cooperazione e la coesistenza tra i due popoli".
Il riconoscimento reciproco deve essere all'origine di ogni decisione politica per quanto riguarda il futuro di palestinesi ed israeliani, a cominciare dal drammatico confronto fra due diaspore, quella antica e tragica del popolo ebreo, quella più recente del popolo palestinese. L'ebreo che arriva in Israele trova casa, lavoro, cittadinanza e assistenza. Invece il palestinese che è stato cacciato dalla propria casa, che ha ancora la memoria fresca della sua terra, non può nemmeno ritornare.

La scelta di Giovanni Paolo II. Bisogna partire dal riconoscimento reciproco, per mettere l'altro nella condizione di accettare e vivere il dialogo. È stata questa la scelta compiuta da Giovanni Paolo II: ne accenno perché il suo insegnamento deve continuare al di là dell'emozione per la sua malattia e per la sua morte.
Papa Giovanni Paolo II sarà ricordato per sempre come il pontefice che ha portato la relazione fra la Chiesa e il popolo ebraico a un livello assolutamente nuovo. L'impatto che il Santo Padre ha avuto nella percezione che gli ebrei hanno della Chiesa, e nell'immaginazione popolare, è illustrata dall'immagine di Giovanni Paolo II in preghiera al Muro del Pianto nel suo pellegrinaggio nella Terra Santa del marzo 2000.
Ma la vera rivoluzione era avvenuta molto tempo prima. Nel 1993 il Papa ha firmato l'Accordo Fondamentale con lo stato d'Israele e nel 1994 ha stabilito i pieni rapporti diplomatici con lo stato ebraico, 46 anni dopo la fondazione dello stato d'Israele. Un gesto profetico, se dopo 12 anni, quell'Accordo non è stato ancora recepito all'interno delle leggi israeliane. In più, l'Accordo Fondamentale è rimasto incompleto su alcune materie importanti, in particolare le relazioni fiscali fra la Chiesa e lo stato e la sicurezza delle proprietà religiose della Chiesa. I negoziati su questi temi stanno andando avanti anche in questo periodo.
Accettando di stabilire piene relazioni diplomatiche con lo stato d'Israele prima di risolvere alcune questioni pratiche fondamentali per la sicurezza della Chiesa cattolica in Terra Santa, Giovanni Paolo II ha agito con coraggio e profezia: egli ha compiuto un atto di fiducia nel futuro. Soprattutto, ha dato fiducia all'interlocutore dei negoziati. Ha creduto che, garantendo pieno riconoscimento e relazioni diplomatiche, il giovane stato d'Israele avrebbe risposto col pieno riconoscimento dei diritti e delle libertà acquisite nel corso di molti secoli dalla Chiesa in Terra Santa.
Mi auguro che lo stesso coraggio sia stato all'origine del Summit svoltosi a metà febbraio a Sharm-e-Sheikh, tra il primo ministro israeliano Ariel Sharon, il presidente dell'ANP Mahmud Abbas (Abu Mazen), il presidente egiziano Hosni Mubarak e il re di Giordania Abdullah. Esso ha rappresentato - secondo la visione di Israele - un'occasione storica per l'inizio di una nuova era in Medio Oriente. Entrambe le parti hanno la responsabilità di cogliere questa nuova opportunità creatasi, per il bene dei due popoli.

Le esigenze di Israele nel negoziato. Vediamo quale è la posizione israeliana di fronte alle prospettive aperte dal vertice di Sharm-e-Sheikh, conseguente alle elezioni palestinesi e alla nuova guida palesatine.
Secondo gli israeliani gli accordi sono importanti, ma non bastano più: adesso è il tempo di fatti concreti, sul campo.
La chiave di qualsiasi cambiamento nella regione sta nella cessazione del terrorismo. Un vero nuovo cammino può essere intrapreso soltanto se cesserà il terrorismo, se saranno sciolte le organizzazioni terroristiche e smantellate le loro infrastrutture, se saranno sequestrate le armi illegali e se cesserà anche l'incitamento e l'istigazione alla violenza. Ciò che viene definito "cessate il fuoco" non può essere una soluzione a lungo termine. Un cessate il fuoco che non comprenda lo smantellamento delle infrastrutture del terrorismo è soltanto una "illusione ottica" e una bomba a orologeria destinata ad esplodere. Non vi è alternativa allo smantellamento delle infrastrutture del terrorismo.
Da parte sua, Israele si dice conscia dell'importanza storica di questa opportunità, ed assicura che sta compiendo o si accinge a compiere dei passi concreti per alleviare e agevolare la vita dei palestinesi: rilascio di prigionieri, apertura di valichi, rimozione di posti di blocco, passaggio del controllo di alcune città palestinesi all'ANP. Israele, inoltre, è disposta a coordinare il processo di disimpegno con la parte palestinese, sempre a condizione che prosegua il processo di smantellamento del terrorismo e delle sue infrastrutture.
Ciò comporta - dicono ancora gli israeliani - rinunce e concessioni dolorose, che spesso riguardano importanti interessi di Israele e che creano anche tensioni e divisioni interne. Ma tutto ciò mostra il senso di responsabilità e di buona volontà, da parte di Israele, di favorire un'intesa tra le parti.
Finché diminuirà la violenza Israele potrà continuare ad alleviare le condizioni di vita quotidiana dei palestinesi. La questione chiave - concludono gli israeliani - continuerà a essere il senso di responsabilità e l'impegno che mostrerà l'Autorità Palestinese nella lotta contro le infrastrutture del terrorismo.

Le concessioni territoriali. Sharon ha anche affermato la propria disponibilità a coordinare il ritiro da Gaza con l'Autorità Nazionale Palestinese; appare dunque possibile una decisione non più unilaterale riguardo al disimpegno israeliano. Il premier israeliano ha infatti dichiarato al New York Times: "Se l'Autorità palestinese inizia a coordinarsi con i nostri servizi di sicurezza, e se loro - ma non Hamas né la Jihad - si assumono la responsabilità dei territori che stiamo per lasciare, io coordinerò il disimpegno". L'importanza di questa dichiarazione risalta in particolare rispetto alle affermazioni di pochi mesi fa, quando l'unilateralità del ritiro era uno dei postulati del piano.
Questa settimana Sharon ha poi anche fatto sapere di voler lasciare intatta la maggior parte degli edifici delle colonie della Striscia di Gaza, dopo il completamento del piano di ritiro israeliano previsto per la prossima estate. In una intervista alla Cnn, il primo ministro israeliano ha precisato che il futuro delle strutture abitative delle colonie dipende comunque dal coordinamento con l'autorità palestinese. Un coordinamento, ha aggiunto, che non ha ancora avuto luogo a causa di quello che egli stesso ha definito disaccordi tra palestinesi.
"La mia posizione è quella di spostare le sinagoghe e i cimiteri in Israele e di lasciare gli edifici intatti", ha detto Sharon. "Compierò ogni sforzo per lasciare queste costruzioni intatte". Israele evacuerà tutti i 21 insediamenti nella Striscia di Gaza e 4 colonie in Cisgiordania.
Sempre questa settimana, nel corso dell'incontro con Bush, il premier israeliano ha ribadito che c'è "un'atmosfera che sembra preludere alla guerra civile" a proposito del piano di evacuazione degli insediamenti, ma "saranno compiuti dei passi affinché ciò non avvenga".

La nuova coalizione in Israele. Gli occhi dell'opinione pubblica internazionale ed italiana sono stati prevalentemente puntati sui Palestinesi, per via della morte di Arafat, della sua successione, del successo delle elezioni presidenziali. In particolare le elezioni sono state giudicate un buon segnale da parte palestinese.
Ma anche Israele si è preparato. Poiché Ariel Sharon continua ad essere il primo ministro di Israele, è passata nell'opinione pubblica italiana ed internazionale in secondo piano un'altra notizia: la formazione del nuovo governo di unità nazionale in Israele, che ha ottenuto la fiducia alla Knesset con uno stretto margine di voti. Ma in questo caso il Parlamento israeliano non interpreta appieno i cittadini.
I sondaggi mostrano come i due popoli siano in attesa, se non proprio della pace, almeno di una tregua. Con Sharon e Peres - dunque contro i coloni e gli altri irriducibili dell'estrema destra - ci sono il 70 per cento almeno degli israeliani, mentre il 55 per cento dei palestinesi si dice contrario ad altre azioni armate contro Israele.
Questo governo di unità nazionale nasce per portare a termine il piano di ritiro da tutti i 21 insediamenti di Gaza e da 4 in Cisgiordania, e, secondo molti osservatori, potrebbe riavviare i negoziati con l'Autorità Nazionale Palestinese e porre le premesse per negoziati di pace tra Siria e Israele.
La speranza del Labour e del suo leader, Shimon Peres, è di poter partecipare a un accordo che ponga fine al conflitto arabo-israeliano; la dirigenza del partito ha dichiarato apertamente che lo scopo della partecipazione al governo è quello di assicurare la realizzazione del piano di ritiro da Gaza e di garantire che l'intera operazione non si risolva in un riconoscimento de facto dell'occupazione della Cisgiordania.
Obiettivo comune del Likud e del Labour è quello di evitare nuove elezioni, dall'esito più che mai incerto, che rischierebbero di affossare per sempre il piano. Il mandato dell'attuale Knesset avrebbe la sua scadenza naturale nel novembre 2006, mentre l'evacuazione da Gaza è calendarizzata per l'inizio di luglio 2005.
La formazione del governo di unità nazionale rappresenta una grande opportunità per Israele e per l'intera regione; il fatto che i due maggiori partiti israeliani abbiano deciso di assumersi insieme la responsabilità di una decisione difficile, ma indispensabile, come quella dell'evacuazione degli insediamenti di Gaza, rappresenta un'occasione storica che potrebbe aprire nuove prospettive di pace per il Medio Oriente. Conseguenza prima del ritiro, come affermato chiaramente da Sharon, e ribadito da Blair, sarebbe la cessione della sovranità sulla striscia di Gaza all'Autorità Nazionale Palestinese, configurando quest'ultima come un effettivo partner per i negoziati di pace.

Possibile una disobbedienza civile. Il rischio è che questa decisione provochi all'interno della società israeliana una profonda frattura dagli esiti ancora imprevedibili. Ma il governo israeliano va avanti.
Il 29 marzo scorso il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha ottenuto l'approvazione della legge di bilancio 2005, evitando la caduta del suo governo e rimuovendo un altro ostacolo dalla strada verso l'attuazione del piano di disimpegno. Il giorno prima la Knesset aveva respinto lunedì pomeriggio una proposta di legge volta a indire un referendum nazionale sul piano di disimpegno dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale. Se approvato, il referendum avrebbe potuto bloccare per molto tempo l'attuazione del disimpegno che dovrebbe iniziare, in base al piano approvato da governo e parlamento, il prossimo 20 luglio.
Ma sono eventi che potrebbero offrire solo un breve respiro, forse lungo abbastanza per arrivare soltanto all'attuazione dello sgombero dalla striscia di Gaza e dall'area di Jenin nella Cisgiordania settentrionale.
Secondo un rapporto presentato alla Knesset da Avi Ditcher, direttore del servizio di sicurezza israeliano Shin Bet, vi è un rischio concreto che i coloni non si limitino alla disobbedienza civile, rifiutandosi di eseguire gli ordini di evacuazione dagli insediamenti, ma reagiscano con le armi nei confronti dei militari. Per ora, sul modello della protesta svoltasi recentemente in Ucraina, i coloni si limitano a esprimere il loro dissenso nei confronti della linea politica di Sharon attraverso sit-in, manifestazioni, catene umane, picchettaggi e pressanti appelli ai soldati affinché si rifiutino di obbedire agli ordini, attuando una "obiezione di coscienza". Il premier israeliano ha già annunciato che l'esercito risponderà con la forza a qualunque tentativo di organizzare la disobbedienza e alle aggressioni nei confronti delle forze dell'ordine, incaricate di attuare l'evacuazione degli insediamenti.
Nei mesi scorsi numerosi leader estremisti dei coloni avevano pesantemente attaccato Sharon, minacciandolo anche personalmente; ma l'attacco politicamente più rilevante è stato quello dello Yesha Council (acronimo ebraico che sta per Giudea, Samaria e Gaza; Giudea e Samaria sono i nomi biblici della Cisgiordania) un gruppo "ombrello" che raccoglie numerose formazioni minori ed è considerato il rappresentante dei più di 225.000 coloni che vivono in Cisgiordania e a Gaza. Il loro rappresentante, Bentzi Liebermann, ha dichiarato che "la proposta di espellere gli ebrei dalle loro case è una decisione immorale e una violazione dei diritti umani, configurandosi come un vero e proprio crimine nazionale e storico". Un altro influente rappresentante dei coloni, Pinchas Wallerstein, ha pubblicamente invitato i coloni ad opporsi in massa al piano di ritiro, anche a rischio di essere incarcerati. La Knesset sta infatti elaborando un progetto di legge secondo cui la resistenza allo smantellamento degli insediamenti sarà punita con la detenzione fino a tre anni. Ad alcuni osservatori israeliani i violenti toni del dibattito politico ricordano quelli del 1995, quando il primo ministro Yitzhak Rabin fu assassinato da un giovane ultranazionalista.

Verso la rivoluzione dei partiti in Israele? La partita che si gioca sia per Sharon che per Simon Peres è di grande rilevanza non solo elettorale.
Le tensioni legate al disimpegno israeliano dai Territori palestinesi potrebbero innescare cambiamenti più importanti di quelli legati a eventuali elezioni anticipate, conducendo a una generale ricomposizione del panorama politico israeliano. Mentre il processo va avanti, infatti, il divario ideologico-emotivo fra destra e sinistra verrà rimpiazzato da un dibattito politico dominato dai pragmatici.
La cornice che ha dominato la politica israeliana negli ultimi due decenni rifletteva il profondo divario emotivo sulle opzioni della pace con i palestinesi.
Nel 1992 la vittoria di stretta misura di Isac Rabin aprì la strada all'ottimistico processo di Oslo, e le frizioni fra i due principali campi ideologici aumentarono. Ma quando i negoziati avviati da Oslo saltarono per aria alla fine del 2000, quella cornice divenne improvvisamente insignificante. I due maggiori blocchi, Laburisti e Likud, sono stati lacerati al loro interno dalla campagna terroristica palestinese, ed entrambi si divisero.
I Laburisti sono esplosi per primi quando i membri dell'ala ideologica guidata da Yossi Beilin (strettamente identificati con il processo di Oslo) sono stati sconfitti nelle votazioni interne e sono usciti dal partito per formare un nuovo partito insieme al Meretz, lo Yahad. Viceversa i pragmatici, compreso Shimon Peres, hanno capito che le cicatrici di tanto fallimento rappresentavano un pesante fardello che non sarebbe stato facilmente superato da molti elettori israeliani. Su queste basi, e nel pieno della campagna terroristica, il partito laburista la lasciato cadere la ricerca di un accordo di pace messianico ed è entrato nel governo guidato da Sharon.
Bisogna ricordare che quando i Laburisti abbandonarono l'ampia coalizione per tentare di guadagnare un angusto vantaggio politico-elettorale, i loro tradizionali sostenitori si erano ribellati e il partito rischiò quasi di scomparire dal panorama politico israeliano. Sotto Peres, i Laburisti hanno ricuperato un po' del terreno perduto rientrando a far parte della coalizione di Sharon con lo scopo di sostenere l'attuazione del piano di disimpegno. Ma senza una nuova leadership e una strategia politica realista, il partito laburista farà molta fatica a conservare i 22 seggi in parlamento, nonostante il diffuso malcontento verso Sharon e il Likud.
Dopo la rottura dei Laburisti, è stata la volta del blocco del Likud che si è diviso fra le sue ali ideologica e pragmatica. Come primo ministro, Sharon è stato politico accorto e razionale, arrivando gradualmente alla logica del disimpegno unilaterale e alla costruzione della barriera di separazione.
Tale posizione corrisponde all'opinione della maggioranza degli israeliani nell'era post-Oslo, e riflette la realtà politica e demografica. Molti israeliani sono tutt'altro che entusiasti del disimpegno e non corrono alle manifestazioni in sostegno del piano, ma tutti i sondaggi indicano che l'opinione pubblica riconosce che si tratta della politica più razionale date le circostanze.
Come che sia, il piano di disimpegno ha però alienato lo zoccolo duro dell'elettorato di Sharon all'interno del Likud e tra i sostenitori della politica degli insediamenti. Come nel caso dei Laburisti, la spaccatura nel Likud fra ideologi e pragmatici va aumentando, come si può vedere nelle accese riunioni del partito e nei velenosi attacchi ai suoi leader. Le prossime elezioni, che potrebbero aver luogo pochi mesi dopo il disimpegno, potrebbero portare alla divisione ufficiale, con due varianti del Likud a contendersi il sostegno degli elettori. I sondaggisti stanno già cercando di saggiare lo scenario in cui un Likud ideologico, guidato da Binyamin Netanyahu, si contrapponesse a un Likud realista, guidato da Sharon.
Negli ultimi trent'anni le formazioni centriste non sono andate molto bene nella vita politica israeliana. Tuttavia gli spostamenti oggi in corso verso il pragmatismo potrebbero invertire questo schema. Lo Shinui, nato come un partito di protesta improntato a un'ideologia laicista, si è spostato verso il centro come testimonia la decisione di votare a favore della legge di bilancio, pur essendo uscito dalla coalizione, per permettere l'attuazione del disimpegno.
Con quest'ordine del giorno, una così radicale ricomposizione pone una sfida formidabile alle prossima generazione della dirigenza politica israeliana. Ma il processo è già avviato e, come per il disimpegno, in mancanza di una vera alternativa non farà che andare avanti. Gli israeliani hanno già pagato un prezzo troppo alto a ideologie, su entrambi i lati dello spettro politico, che difettavano di autentiche fondamenta nella realtà.

Quali i confini tra i due futuri Stati? Il tema dei confini resta al centro delle scelte israeliane e non tutto è coerente. Fondate critiche e altrettanto fondati sospetti si sono addensati in queste settimane sul governo israeliano e sul primo ministro Ariel Sharon, perché in concomitanza con il disimpegno da alcuni territori occupati sta mettendo in atto provvedimenti amministrativi tesi a creare uno stato di fatto che modifica i confini di Israele e determina una situazione "confino" dei palestinesi in veri e propri cantoni senza affettiva sovranità.
Questa settimana si è svolto l'incontro tra George W. Bush e Ariel Sharon nel ranch texano del presidente Usa a Crawford, incontro non privo di qualche attrito tra i due stretti alleati. Il governo israeliano ha cercato di minimizzare la reale entità del contrasto con la Casa Bianca a proposito degli insediamenti nei territori autonomi palestinesi, considerati illegali sulla base del diritto internazionale ma contrastanti anche con la cosiddetta road-map, il piano di pace per il Medio Oriente elaborato dal Quartetto.
Mercoledì per ben tre volte Bush aveva pubblicamente richiamato Sharon agli obblighi di congelare le attività legate agli insediamenti medesimi, e soprattutto di non espanderne l'ambito, che incombono su Israele in forza proprio della road-map; Sharon dal canto suo aveva evitato di assumersi impegni espliciti. E giovedì, parlando alla radio militare, il suo consigliere Dov Weisglass ha ricordato come "mai gli Stati Uniti siano stati d'accordo sulle iniziative israeliane concernenti gli insediamenti in Giudea e Samaria nonché nella Striscia di Gaza". E ha puntualizzato che Washington "non concorda nemmeno adesso" su ciò. "Pertanto - ha concluso il collaboratore del presidente - non esiste alcuna disputa". George W. Bush ha costruito la road-map per la pace tra Israele e Palestina insieme alle Nazioni Unite, la Russia e L'Europa Unita in modo da stabilire una situazione di pace tra i due paesi. Il presidente USA si è detto "favorevole al mantenimento di alcuni insediamenti ma contrario ad ogni espansione territoriale nella West Bank". Perché un cambiamento nello "scacchiere" palestinese potrebbe rivelarsi fatale ai progressi finora compiuti tra i due stati.
L'incontro di martedì tra Sharon e Bush è stato centrato sulla road-map. Esiste un progetto di espansione israeliano che prevede la costruzione di circa 3.500 case nell'area di Maale Adumim, una sorta di nuovo "corridoio" verso Gerusalemme che Sharon vorrebbe far costruire.
Questo progetto non è chiaramente benvenuto dal resto dei politici coinvolti in questo "affaire" di relazioni internazionali. Lo stesso presidente Bush ha recentemente "suggerito" a Sharon di "aderire agli obblighi della road-map".
Obblighi che sono, a grandi linee, i seguenti: Israele deve smantellare gli insediamenti illegali nella West Bank e nella Striscia di Gaza e fermare nel contempo ogni attività militare così da ritirarsi dai territori occupati entro il prossimo anno. La Palestina, dal canto suo, deve tentare in ogni modo il dialogo con i gruppi di resistenza armata per prevenire ogni forma di violenza nei riguardi dei villaggi ebrei che si trovano ai confini con lo stato palestinese.

Illusorio mantenere gli insediamenti in Cisgordania? Alcuni esperti avevano già pronosticato la risposta negativa che il presidente americano ha dato al Primo Ministro Israeliano riguardo alla possibilità di espandere il progetto edilizio nell'area di Maale Adumim.
Il vice-presidente di Israele, Simon Peres, aveva già "bocciato" il progetto di Sharon, "Fino a quando il processo di fuoriuscita da Gaza non sarà finito, sarà meglio non creare ulteriori problemi", aveva detto alla stampa.
Commentando l'incontro Bush-Sharon, il quotidiano israeliano di centro sinistra Ha'aretz scrive: Lunedì in Texas George W. Bush e Ariel Sharon hanno tracciato i confini più ampi che qualunque primo ministro israeliano potrebbe mai sperare di ottenere. C'è da dubitare che Israele possa mai contare su un presidente americano più amichevole di Bush, e più combattivo verso i suoi nemici. Se Bush traccia quella linea per il suo ospite Sharon e per il mondo che li guarda, significa che qualunque campagna volta a conservare le decine di insediamenti che si trovano al di là di quella linea è destinata al fallimento. Molti israeliani, che da tempo sperano in un compromesso basato grossomodo sulle linee del 1967, non considereranno questo come una sconfitta, ma anzi il contrario. Altri, invece, compresi alcuni che sono stati al governo per anni e quelli che schierati in quell'estrema destra e che rende le cose difficili ai governi, si trastullano con l'illusione di poter mantenere tutti gli insediamenti in Cisgiordania.
Scrive un altro giornale israeliano, Yediot Aharonot: Dal 1967 si sono succeduti dieci primi ministri in Israele, ma una cosa non è mai cambiata: la politica degli Stati Uniti contraria agli insediamenti israeliani e la loro richiesta che Israele torni sulle linee del 1967 con "lievi aggiustamenti". Scrive ancora il quotidiano Hatzofeh: Bush ha deciso di voltare pagine con l'Europa e lo Stato di Israele dovrà pagarne il prezzo. Tutta la faccenda immaginaria del consenso degli americani sui blocchi di insediamenti è ora smascherata. A Israele si chiede di ritirarsi senza ottenere nulla in cambio, ed è un peccato che Sharon stia dando una mano all'eventualità di uno scontro civile.
La questione dei confini di Israele resterà comunque un tema di scontro finché non verranno risolti i due veri ed essenziali timori per i cittadini israeliani: le dinamiche demografiche e la sicurezza esterna legata ai rapporti con la Siria.

Profughi palestinesi e stato religioso. È forte la preoccupazione in Israele, a destra come a sinistra, derivante dalle dinamiche demografiche, che rischiano di alterare il carattere di Stato ebraico portando alla nascita di uno stato bi-nazionale de facto tra il Giordano e il Mediterraneo.
Durante i negoziati del Processo di pace, le posizioni di Israele e palestinesi sono risultate assai differenti: se da una parte i primi non comprendono perché i rifugiati palestinesi, una volta data loro la possibilità di vivere in un futuro stato palestinese, debbano scegliere di ritornare in quelli che oggi sono villaggi e città israeliane, dall'altra i secondi reclamano il diritto del ritorno come uno dei punti fondamentali per potere raggiungere una pace duratura e comprensiva.
Uno degli ostacoli maggiori nella soluzione della questione dei profughi è proprio il problema demografico.
Israele, la cui popolazione ora comprende un 20 per cento di minoranza araba con un tasso di crescita superiore rispetto alla maggioranza ebraica, non è disposto ad accogliere oltre due milioni di rifugiati, cifra che renderebbe gli ebrei una minoranza nel loro stato. Tuttavia, il senso d'ingiustizia tra i palestinesi della diaspora, e circa due terzi dell'intero popolo palestinese accolto in campi per rifugiati, alimenta il desiderio di rivincita contro Israele. Infine, negare il diritto al ritorno per i palestinesi, placa a breve termine l'ansia demografica di Israele, ma di certo non è una soluzione a lungo termine per porre fine al conflitto.
Una delle proposte europee, non ufficiali ma sviluppate a livello accademico, per la soluzione della questione, si fonda su due principi basilari:
- libera scelta ai rifugiati per il ritorno nella stessa area che lasciarono nel 1948 (insieme con la scelta di vivere in Palestina, in un paese terzo o rimanere nel loro attuale paese, se d'accordo;
- possibilità per Israele di esercitare potere all'entrata e nell'insediamento dei rifugiati.
Molti rifugiati, infatti, desidereranno tornare a casa nelle loro abitazioni originarie. Ma queste case, e, in molti casi, interi villaggi, sono oggi o inesistenti o interamente abitati da ebrei. L'opzione migliore per i rifugiati sarà di sicuro quella di vivere tra gente che parla la stessa lingua, con le stesse tradizioni, religione e abitudini, e cioè tra gli attuali cittadini arabi di Israele. Per questo Israele permetterà ai rifugiati di insediarsi in primo luogo nei territori popolati dagli arabi, e cioè lungo i confini con la Cisgiordania, dove la popolazione ebraica è in minoranza. Queste aree, saranno cedute al futuro stato palestinese, in cambio delle aree Cisgiordane con gli insediamenti israealiani maggiori e a maggioranza ebraica.
In questo modo, Israele si annetterebbe parte della Cisgiordania, ma darebbe ai palestinesi una parte uguale di terra dell'attuale stato israeliano. Infine, finanziamenti e incentivi per incoraggiare i rifugiati palestinesi a trasferirsi in altri paesi o nel territorio palestinese, permetterebbero una soluzione della questione a lungo termine. Sarebbero così soddisfatte le richieste palestinesi per il diritto al ritorno, e sarebbe mantenuto intatto l'equilibrio demografico israeliano.

La sicurezza internazionale. L'altro dibattito in corso in Israele riguarda la possibile ripresa dei negoziati con Damasco tra chi ritiene prioritario il binario palestinese e non vede alcuna urgenza di aprire un altro fronte negoziale e chi crede al contrario che Israele si trovi in una posizione di vantaggio che deve essere sfruttata per giungere ad un accordo ad essa favorevole. Un accordo avrebbe, tra l'altro, l'ulteriore vantaggio di porre fine al sostegno siriano ad Hezbollah e alle forze militanti palestinesi, di spezzare l'asse Damasco-Teheran e, in prospettiva, di rompere il fronte arabo del "rifiuto", aprendo la strada alla normalizzazione, dapprima con Siria e Libano e in seguito, probabilmente, con i Paesi moderati del Maghreb e del Golfo.
Questo aspetto richiede che prosegua lo sforzo internazionale affinché i palestinesi s'impegnino a mettere in pratica un programma di riforme nei settori politico, economico e della sicurezza, in vista del controllo che dovranno assumere sui territori lasciati liberi a seguito dell'attuazione del Piano Sharon.
In particolare l'Europa deve riprovare ad assumere un suo ruolo. Non è tanto per l'Europa, ma per le parti in causa.
Bisogna puntare con decisione ad uno spazio comune Euro-Mediterraneo, anche se esso è impegnativo ed apparentemente impossibile. Bisogna provarci, facendo base sulla storia trascorsa ed utilizzando le nuove opportunità che si aprono. Il negoziato con la Turchia per l'adesione all'Unione Europea più ancora della politica euromediterranea stabilita a Barcellona nel 1995, potrà diventare lo strumento politico per il ruolo dell'Europa in quest'area. Si tratta di sviluppare gli strumenti necessari per un reale riconoscimento reciproco, non solo politico ma anche sociale e culturale, in modo da creare fiducia in una regione dove le contrapposizioni ideologiche e religiose sono particolarmente profonde.

Sant'Angelo di Piove, 15 aprile 2005


17 maggio 2005
ci-050
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