Pubblichiamo la Comunicazione di Tino Bedin al dialogo organizzato dalla Margherita Padovana, nell'ambito del progetto "Padova città aperta all'Oriente", che si è svolto venerdì 4 febbraio 2005 nella sede della Margherita di piazza De Gasperi 28 a Padovan. Hanno partecipato Garaba Jamil, presidente dell'Associazione Sit U Zatar, Raya Cohem, docente istraeliana di storia all'università di Tel Aviv, Amin Nabulsi, console palestinese per il Nord Est d'Italia, e Tino Bedin, senatore della Margherita. Ha introdotto Dino Scantamburlo, coordinatore provinciale del partito. La relazione di Tino Bedin raccoglie materiali di vari analisti e commentatori, oltre a documenti dell'Unione Europea.
a cura di Tino Bedin senatore
Le elezioni sono così decisive da determinare la storia? Si può fare la rivoluzione con le elezioni? Il tema proposto per il nostro confronto, "Le prospettive di pace dopo le elezioni in Palestina", lascia intendere risposte positive.
Non è una aspettativa isolata. Secondo molti, se non tutti, le elezioni di questa settimana in Iraq sono state un evento che cambierà non solo la storia irachena, ma la politica internazionale. Secondo molti le elezioni di un mese fa in Palestina possono determinare quella pace che sta sfuggendo alla vita di milioni di palestinesi e di israeliani da molti decenni.
È realistico questo giudizio? Oppure è solo una speranza, che noi democratici, che noi popoli di pace riponiamo sulle possibilità della democrazia e delle sue regole di arrivare là dove la guerra non riuscirà comunque ad arrivare?
Ho l'impressione che vogliamo attribuire alle elezioni poteri che esse non hanno, neppure nelle democrazie consolidate. È giusto vivere il nuovo clima di speranza, avendo tuttavia ben presenti alcuni elementi di valutazione sui quali mi soffermerò:
- le elezioni palestinesi sono parte di un processo già iniziato, ma non ne sono l'elemento decisivo;
- nell'organizzazione politica sia dei palestinesi che degli israeliani sono avvenuti cambiamenti profondi: sarà il successo di questi cambiamenti il fattore decisivo per un effettivo inizio del processo di pace;
- la stabilizzazione della pace richiede in Medio Oriente una presenza politica multilaterale: gli Stati Uniti sono decisivi nel determinare l'avvio del processo, ma solo un ruolo riconosciuto dell'Europa consentirà quell'equilibrio di riferimenti senza il quale nessuno dei due popoli si sentirà effettivamente garantito.
L'agenda di sei mesi. Comincio dal processo in corso, dentro al quale sono avvenute le elezioni per l'Assemblea nazionale palestinese.
Già al momento della sua elezione era chiaro che in sei mesi Abu Mazen deve mettersi nelle condizioni di ottenere che il governo israeliano faccia alcune cose urgenti:
- Sharon deve incontrarsi al più presto con Abu Mazen per riprendere i negoziati;
- la nuova leadership palestinese deve essere coinvolta nel processo del ritiro israeliano dalla striscia di Gaza;
- gli israeliani devono impegnarsi per il miglioramento della qualità della vita nei territori occupati;
- servono cambiamenti nel tracciato della barriera di separazione tra Israele e i territori palestinesi tenendo conto, il più possibile, delle esigenze dei palestinesi;
- bisogna allentare gli stretti controlli ai check point;
- e bisogna liberare i prigionieri politici attualmente detenuti nelle carceri israeliane.
Alcune delle previsioni di questa agenda stanno già succedendo. Succedono in fretta, più in fretta possibile. Sembra che israeliani e palestinesi vogliano provare ad essere protagonisti del loro destino, pur senza isolarsi.
Il Medio Oriente si è preparato alla visita di Condoleezza Rice di domenica prossima con un annuncio ancora più rumoroso politicamente: Ariel Sharon, Abu Mazen, Hosni Mubarak e re Abdullah di Giordania si incontreranno martedì a Sharm El Sheikh nel Sinai, su territorio egiziano.
L'attività diplomatica internazionale. Il tassello che manca ancora all'inizio di una trattativa autentica è la sicurezza. Questa non sarà certo raggiunta con intese a Sharm, dove di fatto si tratterà sostanzialmente di come fermare il terrorismo e di cosa prometterà in cambio Sharon: liberazione di prigionieri, cessazione delle eliminazioni mirate, uscita dell'esercito dalle città palestinesi del West bank e lo sgombero degli insediamenti da Gaza.
Tutte scelte che costano la rabbia e il dolore dei coloni e di tanta altra gente. Sharon chiederà garanzie e gli egiziani saranno i garanti.
È positivo e meritevole di sostegno questo rinnovato attivismo diplomatico del Cairo: le aperture verso Israele per ridare fiato alla pace fredda; gli appelli di Mubarak ad Assad per spingere la Siria a riannodare il negoziato con Israele e a non frapporsi alla hudna (la tregua); infine il tentativo di riprendere il dialogo con Teheran allo scopo di avvicinare l'Iran alla "Nazione Araba" (la prospettiva è di concedergli una posizione di osservatore nella Lega Araba).
Non c'è però solo lo sforzo di israeliani e palestinesi in questi giorni; non c'è solo l'impegno di Egitto e Giordania. E non c'è solo il tema della violenza e della guerra al centro delle iniziative.
Prosegue lo sforzo internazionale affinché i palestinesi s'impegnino a mettere in pratica un programma di riforme nei settori politico, economico e della sicurezza, in vista del controllo che dovranno assumere sui territori lasciati liberi a seguito dell'attuazione del Piano Sharon. Il 1° marzo si terrà una conferenza internazionale a Londra sul rafforzamento dell'Autorità palestinese: sarà importante valutare ciò che la comunità internazionale è realmente disposta a fare. L'incontro - articolato in tre gruppi di lavoro: sicurezza (guidato dagli Stati Uniti), economia (Banca Mondiale), governance (Unione Europea, insieme agli Stati Uniti) - avrà una valenza essenzialmente politica in quanto sarà la misura dell'effettivo impegno Ue/Usa.
La preparazione palestinese. L'Autorità palestinese parteciperà attivamente alla conferenza di Londra nell'ambito del più generale processo con il quale la dirigenza politica palestinese si è preparata al confronto con Israele.
Malgrado la netta affermazione di Hamas nelle ultime elezioni municipali del 27 gennaio, Abu Mazen si è dichiarato ottimista sul corso delle trattative con le varie fazioni e starebbe definendo i termini del loro coinvolgimento: un passo necessario per consolidare la sua legittimazione interna. Il presidente palestinese continua nei suoi sforzi per ottenere una tregua degli attentati contro Gerusalemme e per il dispiegamento della polizia palestinese a Gaza, in preparazione del ritiro israeliano. Israele, da parte sua, attua la liberazione di 900 detenuti palestinesi, si dichiara pronto ad astenersi da qualsiasi attività di tipo militare nei Territori e a favorire il dispiegamento della polizia palestinese in cinque città della Cisgiordania.
Sharon ha anche affermato la propria disponibilità a coordinare il ritiro da Gaza con l'Autorità nazionale palestinese; appare dunque possibile una decisione non più unilaterale riguardo al disimpegno israeliano. Il premier israeliano ha infatti dichiarato al New York Times : "Se l'Autorità palestinese inizia a coordinarsi con i nostri servizi di sicurezza, e se loro - ma non Hamas né la Jihad - si assumono la responsabilità dei territori che stiamo per lasciare, io coordinerò il disimpegno". L'importanza di questa dichiarazione risalta in particolare rispetto alle affermazioni di pochi mesi fa, quando l'unilateralità del ritiro era uno dei postulati del piano.
Questa accelerazione parte indubbiamente dalle elezioni, che sono state un grande segno di maturità politica e democratica del popolo palestinese. Secondo il quotidiano israeliano di centrosinistra Ha'aretz, l'elezione di Abu Mazen può modificare profondamente i rapporti tra la leadership palestinese e il primo ministro Ariel Sharon: "Se Abu Mazen riuscirà ad esercitare il pieno controllo a Gaza e in Cisgiordania e la lotta contro l'occupazione assumerà una forma non violenta, Israele non avrà più alcun alibi per mantenere gli insediamenti ebraici nel Territori. E la tanto criticata barriera di separazione potrebbe favorire il ritiro israeliano entro i confini del 1967".
La preparazione israeliana. Anche Israele si è preparato. Poiché Ariel Sharon continua ad essere il primo ministro di Israele, nell'opinione pubblica italiana ed internazionale è passata in secondo piano un'altra notizia: la formazione del nuovo governo di unità nazionale in Israele, che ha ottenuto la fiducia alla Knesset con uno stretto margine di voti. Ma in questo caso il Parlamento israeliano non interpreta appieno i cittadini. I sondaggi mostrano come i due popoli siano in attesa, se non proprio della pace, almeno di una tregua. Con Sharon e Peres - dunque contro i coloni e gli altri irriducibili dell'estrema destra - ci sono il 70 per cento almeno degli israeliani, mentre il 55 per cento dei palestinesi si dice contrario ad altre azioni armate contro Israele.
Obiettivo comune del Likud e del Labour è quello di evitare nuove elezioni, dall'esito più che mai incerto, che rischierebbero di affossare per sempre il piano. Il mandato dell'attuale Knesset avrebbe la sua scadenza naturale nel novembre 2006, mentre l'inizio dell'evacuazione da Gaza è fissata per marzo 2005.
Questo governo di unità nazionale nasce per portare a termine il piano di ritiro da tutti i 21 insediamenti di Gaza e da 4 in Cisgiordania, e, secondo molti osservatori, potrebbe avviare i negoziati formali con l'Autorità nazionale palestinese e porre le premesse per negoziati di pace tra Siria e Israele.
La speranza del Labour e del suo leader, Shimon Peres, è di poter partecipare a un accordo che ponga fine al conflitto arabo-israeliano; la dirigenza del partito ha dichiarato apertamente che lo scopo della partecipazione al governo è quello di assicurare la realizzazione del piano di ritiro da Gaza e di garantire che l'intera operazione non si risolva in un riconoscimento di fatto dell'occupazione della Cisgiordania.
La formazione del governo di unità nazionale rappresenta una grande opportunità per Israele e per l'intera regione; il fatto che i due maggiori partiti israeliani abbiano deciso di assumersi insieme la responsabilità di una decisione difficile, ma indispensabile, come quella dell'evacuazione degli insediamenti di Gaza, rappresenta un'occasione storica che potrebbe aprire nuove prospettive di pace per il Medio Oriente. Conseguenza prima del ritiro, come affermato chiaramente da Sharon, e ribadito da Blair, sarebbe la cessione della sovranità sulla striscia di Gaza all'Autorità Nazionale Palestinese, configurando quest'ultima come un effettivo partner per i negoziati di pace.
Il rischio è che questa decisione provochi all'interno della società israeliana una profonda frattura dagli esiti ancora imprevedibili.
I rifugiati palestinesi e lo sviluppo demografico. Non è una questione di territorio; non è principalmente una questione di dimensioni territoriali. Per la nostra storia, noi europei siamo naturalmente portati a far coincidere indipendenza con sovranità territoriale. In Palestina il territorio è legato prima di tutto alla condizione dei rifugiati, che da molti è considerata la questione più spinosa dell'intero processo di pace; spinosa per i palestinesi e spinosa per gli israeliani.
L'Unione Europea ritiene che la soluzione debba essere trovata nell'ambito di negoziati bilaterali tra palestinesi ed israeliani, ma durante i negoziati del precedente Processo di pace, le posizioni di Israele e dei palestinesi sono risultate assai differenti: se da una parte i primi non comprendono perché i rifugiati palestinesi, una volta data loro la possibilità di vivere in un futuro stato palestinese, debbano scegliere di ritornare in quelli che oggi sono villaggi e città israeliane, dall'altra i secondi reclamano il diritto del ritorno come uno dei punti fondamentali per potere raggiungere una pace duratura e comprensiva.
Uno degli ostacoli maggiori nella soluzione della questione è il problema demografico.
Israele, la cui popolazione ora comprende un 20 per cento di minoranza araba con un tasso di crescita superiore rispetto alla maggioranza ebraica, non è disposto ad accogliere oltre due milioni di rifugiati, cifra che renderebbe gli ebrei una minoranza nel loro stato. Tuttavia, il senso d'ingiustizia tra i palestinesi della diaspora, con circa due terzi dell'intero popolo palestinese accolto in campi per rifugiati, alimenta il desiderio di rivincita contro Israele. Infine, negare il diritto al ritorno per i palestinesi, placa a breve termine l'ansia demografica di Israele, ma di certo non è una soluzione a lungo termine per porre fine al conflitto.
Una delle proposte europee, non ufficiali ma già sviluppate a livello di studio, per la soluzione della questione, si fonda su due principi basilari:
- libera scelta ai rifugiati per il ritorno nella stessa area che lasciarono nel 1948 (insieme con la scelta di vivere in Palestina, in un paese terzo o rimanere nel loro attuale paese, se d'accordo);
- possibilità per Israele di esercitare potere all'entrata e nell'insediamento dei rifugiati.
Molti rifugiati, infatti, desidereranno tornare a casa nelle loro abitazioni originarie. Ma queste case, e, in molti casi, interi villaggi, sono oggi o inesistenti o interamente abitati da ebrei. L'opzione migliore per i rifugiati sarà di sicuro quella di vivere tra gente che parla la stessa lingua, con le stesse tradizioni, religione e abitudini, e cioè tra gli attuali cittadini arabi di Israele. Per questo Israele permetterà ai rifugiati di insediarsi in primo luogo nei territori popolati dagli arabi, e cioè lungo i confini con la Cisgiordania, dove la popolazione ebraica è in minoranza. Queste aree, saranno cedute al futuro stato palestinese, in cambio delle aree cisgiordane con gli insediamenti israeliani maggiori e a maggioranza ebraica. In questo modo, Israele si annetterebbe parte della Cisgiordania, ma darebbe ai palestinesi una parte uguale di terra dell'attuale stato israeliano. Infine, finanziamenti e incentivi per incoraggiare i rifugiati palestinesi a trasferirsi in altri paesi o nel territorio palestinese, permetterebbero una soluzione della questione a lungo termine.
Sarebbero così soddisfatte le richieste palestinesi per il diritto al ritorno, e sarebbe mantenuto intatto l'equilibrio demografico israeliano.
Gli Stati Uniti come mediatore immediato. Per ciò che riguarda il processo di pace più generale, esistono due differenti approcci.
A breve termine, esso può essere realizzato essenzialmente con una serie di accordi tra Israele e Autorità Palestinese. In questo caso, il mediatore di maggior rilievo sono gli Stati Uniti. Quest'approccio è limitato, poiché semplicemente di natura politica: esso coinvolge solo le elite politiche delle parti in causa.
A lungo termine il criterio di cooperazione deve essere diverso: deve comprendere la costruzione di legami tra comunità culturali differenti, e adottare quindi un'altra prospettiva del confronto. In questo caso si tratta di sviluppare gli strumenti necessari per un reale riconoscimento reciproco, non solo politico ma anche sociale e culturale, in modo da creare fiducia in una regione dove le contrapposizioni ideologiche e religiose sono particolarmente profonde.
Ne sono convinte anche le parti in causa. "Famiglia Cristiana" ha pubblicato nel numero del 9 gennaio una breve intervista a Oded Ben-Hur, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede. Cito una parte dell'intervista perché aggiunge elementi molto concreti al processo in corso.
"Due settimane fa - spiega l'ambasciatore Ben-Hur - i ministri del Turismo israeliano e palestinese si sono incontrati e hanno messo a punto un programma che prevede una serie di agevolazioni per consentire la ripresa del turismo in Terra Santa. La ripresa dei pellegrinaggi in Giordania, Egitto, Israele, Territori palestinesi darebbe un grande impulso alla pace e fornirebbe un sostegno economico forte alla popolazione palestinese stremata da anni di Intifada e di guerra; il che costituirebbe un motivo in più per bloccare gli estremisti. Il dialogo tra le religioni, prima ancora di quello politico ed istituzionale, deve costituire il principale ponte verso la pace".
Insufficienti i risultati ottenuti dall'Europa. Tornando al ruolo dell'Unione Europea e degli Stati Uniti, le due politiche sono complementari nel lungo periodo: nel breve periodo, invece, la Politica euromediterranea ha uno scarso impatto sull'evoluzione del processo di pace, mentre la crisi tra israeliani e palestinesi impedisce uno sviluppo del processo di Barcellona. Lo confermano gli insufficienti risultati fin qui ottenuti.
Dalla Dichiarazione di Venezia nel 1980, gli stati membri dell'allora Comunità Europea hanno sostenuto il diritto per l'autodeterminazione del popolo palestinese e la formazione di uno stato autonomo nella striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Successivamente, dopo la conferenza di Madrid nel 1991, l'Europa ha avuto un coinvolgimento limitato nella regione, giocando essenzialmente il ruolo di osservatore e di finanziatore economico. Poiché i principali mediatori erano gli Stati Uniti, essa ha rivestito un ruolo marginale nella cooperazione politica, restando però attiva negli altri campi del processo di pace in medio Oriente (MEPP, Middle East Peace Process).
Uno dei principi su cui fu impostato il MEPP quindi era la collaborazione economica: secondo questo modello, un accelerato sviluppo avrebbe potuto compensare le difficoltà nel raggiungimento di accordi politici. In questa direzione si è mossa l'UE: durante il MEPP, infatti, l'Unione è stata il maggior donatore di fondi verso l'Autorità Palestinese ed il 45 per cento di tutti i finanziamenti internazionali a favore della causa palestinese sono giunti dall'Europa, al fine di incentivare la crescita economica sia palestinese sia israeliana, compresa la sicurezza dell'intera regione. Nonostante ciò, non solo la situazione economica nei territori non è migliorata, ma si è allargato il divario politico tra le leadership israeliane e palestinesi.
È sufficiente una "potenza dolce"? Durante gli anni del Middle East Peace Process, comunque, l'Unione Europea ha sostanzialmente rinforzato la propria posizione politica sia verso Israele sia verso i palestinesi e gli stati arabi. Essa è stata, infatti, l'attore principale nell'enfatizzare la rilevanza dell'integrazione economica regionale, partecipando attivamente al "Multilateral Economic Working Group on regional economic development" per il processo di pace. A livello di cooperazione e mediazione politica, però, gli Stati Uniti hanno costantemente impedito che l'Europa giocasse un ruolo importante nel MEPP.
La collaborazione europea è stata concepita essenzialmente come uno strumento politico-economico di "potenza dolce", poiché l'UE non ha posto in primo piano l'elemento militare e di difesa nell'attuazione degli obiettivi di Barcellona, bensì gli investimenti nel campo economico e l'assistenza finanziaria e sociale. La cooperazione europea nel campo della difesa e della sicurezza, del resto, al tempo della dichiarazione di Barcellona non era ancora nata (ricordo che i primi passi per la nascita della politica di difesa comune sono stati fatti nel 1998 con l'accordo anglo-francese di Saint Malo). Tuttora l'Europa non dispone degli strumenti necessari per agire nel campo della collaborazione alla sicurezza e alla difesa militare e non è quindi in grado di giocare un ruolo rilevante come security-actor.
Due Stati e una capitale condivisa. Non è del resto neppure il ruolo che l'Europa aspira a ricoprire. Pur non essendo riuscita a realizzare la pace attraverso lo strumento dell'integrazione economica, l'Unione Europea ha costituito in questi anni un riferimento essenziale per le posizioni che all'interno sia della Palestina che di Israele sostenevano in reciproco riconoscimento. Questa è stata ed è infatti la posizione dell'Unione Europea di fronte al conflitto arabo-israeliano.
L'UE riconosce il diritto irrevocabile ad Israele di vivere in pace e sicurezza entro confini riconosciuti internazionalmente. Allo stesso tempo riconosce la necessità della costituzione di uno stato palestinese democratico e sovrano, sulla base dei confini del 1967, con la possibilità di aggiustamenti e scambi di territorio concordati tra le parti.
Il 26 marzo del 1999, l'UE ha pubblicato la dichiarazione di Berlino nella quale ha ribadito il supporto per la costruzione di uno stato indipendente palestinese. La Dichiarazione, tuttavia, riflette un cambiamento qualitativo nella posizione ufficiale europea: infatti, il diritto palestinese ad uno stato non è messo in relazione e subordinato ai negoziati con Israele. La dichiarazione di Berlino apre per la prima volta la possibilità di un riconoscimento europeo ad uno stato palestinese indipendente, anche se questo è dichiarato unilateralmente, a seguito di un fallimento dei negoziati bilaterali.
L'UE ha nel corso del tempo di fatto accettato il controllo di Israele sui quartieri di Gerusalemme Ovest. Anche se a lungo l'Europa ha invocato l'internazionalizzazione della città, essa ne ha però sostanzialmente riconosciuto la sovranità israeliana sulla parte occidentale mediante visite ufficiali di leader europei alle istituzioni israeliane situate a Gerusalemme ovest.
Per ciò che riguarda la parte orientale di Gerusalemme, l'UE si è espressa a più riprese: in generale, l'Europa ritiene "Gerusalemme est soggetta ai principi espressi dalla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in particolar modo per quel che riguarda l'inammissibilità dell'acquisizione di territori con la forza, e per questo (Gerusalemme est) non è sotto sovranità israeliana. L'Unione dichiara che la quarta convenzione di Ginevra è pienamente applicabile a Gerusalemme est, così come a tutti i territori posti sotto occupazione.
Secondo questa dichiarazione, quindi, l'UE pensa alla soluzione di una capitale condivisa tra palestinesi ed israeliani.
Un calendario corto. Anche qui questa sera, dalle voci di questo dialogo promosso dalla Margherita padovana si respira una innegabile aria di speranza. La si respira in Italia, in Occidente, ma anche in Medio Oriente. Non so quanto di tutto questo si avverta in Palestina. Importante è che la speranza in una svolta storica, capace di dare pace a quella regione e una terra ai palestinesi, non impedisca di vedere la durissima realtà dell'occupazione e quella angosciante dell'incertezza delle proprie vite sia per l'uno che per l'altro popolo. E quindi di capire l'urgenza con quale è necessario approfittare degli spiragli che si sono aperti.
Il successore di Arafat ha davanti a sé settimane difficilissime perché dovrà dimostrare al suo popolo di meritarne la fiducia. Ho detto settimane perché non si tratta di un tempo indefinito. Sul calendario di Abu Mazen c'è già segnata una data fondamentale: domenica 17 luglio 2005, giorno per il quale sono state fissate le elezioni politiche palestinesi, che costituiranno un vero test di gradimento per il presidente dell'Autorità nazionale palestinese. Abu Mazen ha sei mesi di tempo per soddisfare le esigenze, in alcuni case opposte, di chi l'ha sostenuto sia all'interno che all'esterno della Palestina.
L'Europa come equilibrio multipolare. L'Europa deve riprovare ad assumere un suo ruolo. Non è tanto per l'Europa, ma per le parti in causa che serve questo impegno politico e diplomatico dell'Unione Europea.
Può essere questa l'occasione per indicare il nuovo percorso dell'Unione dopo l'allargamento e per capire come riesce a soddisfare la missione di "attore globale", che Romano Prodi ha costantemente indicato durante la sua presidenza. La presenza attiva dell'Unione Europea dimostrerebbe anche la consapevolezza che una parte delle difficoltà che il Medio Oriente patisce da alcuni anni sono derivate e derivano dalla scarsità di interlocutori esterni all'area.
L'incertezza e la denunciata ambiguità della politica di Arafat non avevano origine sono all'interno dell'area mediorientale. Arafat aveva capito che dopo il crollo dell'Unione Sovietica e del blocco socialista, il peso di questo blocco a favore dei palestinesi non poteva più esserci. Del resto sono scomparsi anche i non-allineati. Arafaf ha dovuto cedere passo dopo passo e per non alimentare la rabbia della popolazione palestinese non diceva la verità.
Anche la nuova leadership si trova nella stessa situazione: essa dipende esclusivamente da Israele.
Si confrontano drammaticamente, fino a scontrarsi, due diaspore: quella antica e tragica del popolo ebreo, quella più recente del popolo palestinese. L'ebreo che arriva in Israele trova casa, lavoro, cittadinanza e assistenza. Il palestinese che è stato cacciato dalla propria casa, che ha ancora la memoria fresca della sua terra, non può nemmeno ritornare.
È difficile capire perché i diritti inalienabili dei palestinesi, riconosciuti anche dalle Nazioni Unite, possano dipendere da un referendum o dalle decisioni di un governo, quello israeliano. I diritti dei palestinesi restano "inchiostro su carta, come dicono gli arabi. E "inchiostro su carta" rischiano di restare le promesse dei 22 stati arabi.
Bisogna che i diritti dei palestinesi, pur contrattati e collegati con quelli degli israeliani, hanno un ancoraggio diverso dal solo governo israeliano. Bisogna puntare con decisione ad uno spazio comune euro-mediterraneo, anche se esso è impegnativo ed apparentemente impossibile.
Il tentativo di costruzione di legami e connessioni economiche, istituzionali e civili, necessita di valori e identità comuni. Invece i membri della politica euro-mediterranea non spartiscono nessun tipo di tradizione culturale, linguistica, religiosa, o anche solo di organizzazione amministrativa. Nella sponda sud del Mediterraneo esistono un'ampia gamma di sistemi politici, dalla democrazia liberale al sistema autoritario. Neppure i paesi della sponda sud affrontano le stesse questioni e le medesime sfide, al fine di creare interessi comuni e sviluppare un'alleanza funzionale.
Bisogna però provarci, facendo base sulla storia trascorsa ed utilizzando le nuove opportunità che si aprono. Il negoziato con la Turchia per l'adesione all'Unione Europea più ancora della politica euromediterranea stabilita a Barcellona nel 1995, potrà diventare lo strumento politico per il ruolo dell'Europa in quest'area.
Rimane pur sempre il futuro. Un proverbio semita recita: "Quando tutto ti sembra perduto, ti rimane pur sempre il futuro".
Migliaia di palestinesi sono nati e cresciuti senza futuro. I campi profughi non hanno storia, ma soprattutto non danno speranza. La comprensione di quello che sta avvenendo in Medio Oriente non può prescindere da questa condizione esistenziale, personale e collettiva insieme. Impoveriti di speranza, molti palestinesi hanno rinunciato per anni al futuro, addirittura al futuro esistenziale con gli attentati suicidi.
La vita però è sempre pronta a rintuzzare la morte, facendo intuire che il futuro c'è e può essere migliore della condizione di oggi. Il bisogno di futuro è probabilmente una delle ragioni del voto in Palestina e del voto in Iraq. Utilizzando lo strumento che le democrazie hanno nei secoli perfezionato per costruirsi e conservarsi un futuro, anche palestinesi ed iracheni sono tornati a voler guardare oltre il buio del presente.
Il futuro non dipende però solo da loro. Anche le nostre democrazie giocano una parte del proprio futuro in Medio Oriente, perché lì si sperimenta che la politica estera concepita come politica di forza non è più sufficiente non dico a creare la pace, ma a consentire una tregua. L'Europa, che si è ingrandita come "grande potenza civile", mostra che è possibile inventare il futuro con la pace e con la democrazia.
Iracheni e Palestinesi hanno chiesto di adoperare la pace per fare il futuro. Questo è il messaggio che ci mandato. Questo è il messaggio che la Margherita di Padova ha raccolto.
Padova, 4 febbraio 2005
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