RASSEGNA STAMPA

L'Avvenire,
24 ottobre 2001

«Indispensabili soldati europei»
Parla Prodi: la Ue è forte, ma dobbiamo fare di più dopo l'11 settembre «Serve un cambiamento, primo fra tutti nel rapporto tra Paesi ricchi e Paesi poveri»

di Giorgio Ferrari

BRUXELLES. Sogna un'Europa libera dai lacci della burocrazia che rischiano di strangolarla; vorrebbe una forza di intervento rapido che ancora non c'è e che forse avrebbe dato più peso all'Unione; e soprattutto non cede di un millimetro nel suo maestoso euroottimismo, di cui forse è l'unico esponente, come il mohicano di Fenimore Cooper, così come all'epoca della sua nomina a presidente della Commissione Europea era il primo. Siamo obbligati, insomma, a considerare Romano Prodi come un roccioso custode della fiamma, uno che allo "schiaffo" di Gand ha risposto con misurato furore, senza dare a vedere di essersi scomposto più di tanto. Non è così, Presidente?
Quello di Gand era un Consiglio informale, e con questo metro va misurato. La risposta comune europea comunque c'è stata, il Patto di stabilità è stato riaffermato, l'accordo sulla politica economica fra Commissione, Consiglio e Bce è stato raggiunto. Magari non si vedranno i risultati a breve, ma nel lungo periodo sì.
A Gand però c'è stato uno strappo. Chirac, Blair, Schroeder si sono messi, diciamo così, a giocare in proprio, lasciando dodici Paesi dell'Unione Europea fuori dalla porta...
Sì, e debbo riconoscere che la cosa ha avuto un suo peso sui media.
Non a caso forse qualcuno ha parlato di obsolescenza delle grandi istituzioni internazionali, dall'Onu all'Fmi, fino, ammettiamolo, all'Unione Europea. Lei condivide questi giudizi?
L'11 settembre ha cambiato molte cose: alleanze, rapporti internazionali. È evidente che ciò esige un profondo cambiamento nelle organizzazioni mondiali. Tutte, dall'Onu, alla Nato, all'Fmi dovranno adattarsi alla nuova realtà e soprattutto - parlo dell'Onu, del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale - dovranno tenere fortemente presenti temi che erano all'ordine del giorno anche prima, ma che oggi lo sono di più, primo fra tutti il rapporto fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Rimane comunque il fatto che nei momenti difficili si ha bisogno di dare maggior forza proprio alle strutture internazionali.
Nel momento in cui gli equilibri mondiali mutano, nuove alleanze si formano, nuovi disegni si accampano nello scenario internazionale, possiamo ritenere l'Unione Europea ancora all'altezza dei suoi compiti?
Più che mai. Quelle proposte in materia di spazi giudiziari comuni e di lotta al riciclaggio che erano ferme da tempo per una durissima avversione di alcuni Paesi, oggi ridiventano urgenti e il loro iter di approvazione ha avuto una accelerazione straordinaria. Ma certe coraggiose aperture che l'Europa ha inaugurato prima di tutti, penso in particolar modo alla Russia, oggi stanno diventando storiche. È difficile però negare che l'Unione fatichi ad esprimere una sua politica estera. Nonostante la creazione dell'Alto rappresentante, nonostante gli sforzi di Solana.
Non è del tutto vero. La missione della trojka nel mondo islamico è politica estera, la nostra visita a Bush è politica estera. L'interlocutore europeo c'è e se ne tiene conto, non solo dall'altra sponda dell'Atlantico, ma anche ai nostri confini: nei Balcani, in Medio Oriente. Ha un ruolo, l'Europa, ed è destinata ad averlo sempre più incisivo. Come spiega allora che tre leader nazionali come Chirac, Schroeder e Blair muovano passi in proprio, discutano con gli Stati Uniti, tengano un pre-vertice riservato a loro soli?
Non chiudo gli occhi su episodi come questo, li vedo benissimo. Ma si trattava di una questione spiccatamente militare, che la Ue non poteva trattare e quegli Stati membri invece sì. Non mi hanno stupito quindi le visite individuali, anche se ho reagito quando hanno deciso di parlarne, in un gruppo ristretto a ridosso del vertice di Gand.
Si disse a suo tempo di una forza di intervento rapido, fatta apposta per crisi regionali o per emergenze belliche simili a quella in corso. Una forza che conterebbe almeno 60.000 militari. Però questa forza non c'è... Non c'è ancora. Ci vorrà il suo tempo. I soldati europei sono indispensabili, ma si è deciso che saranno preparati alla loro missione solo fra un paio di anni.
Abbiamo perso intanto un'occasione. E non tutti ci approvano.
Hanno ragione gli Stati Uniti quando ci criticano per la nostra scarsa defence capability dicendo che quella europea è pari a un decimo della loro ma in compenso ha un bilancio che è di due terzi rispetto a quello della Difesa americana. Hanno ragione e mi auguro che questa forza di reazione rapida si concretizzi.
Nessuno può dire come sarà il mondo che verrà. Uno slogan che l'Occidente ha fabbricato dopo l'attentato alle Twin Towers, una specie di parola d'ordine subito accolta da milioni di persone dice: «Niente sarà più come prima». Allora le pongo il medesimo quesito: se così sarà, c'è ancora, nonostante tutto, un'idea di Europa?
Noi stiamo dando un esempio di cosa sia la «globalizzazione democratica» proprio continuando sul nostro percorso già preparato: l'euro, l'apertura al Sud del Mediterraneo, l'allargamento. È un messaggio che dice: allarghiamo la famiglia anche a Paesi che hanno un quarto del nostro reddito. C'è chi dice che l'allargamento costerà troppo. Io rispondo che questo processo, come si è verificato per la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda e la Grecia, sarà di beneficio per noi e per loro.
Ma il cittadino comune crede in queste assicurazioni, e poi, le sa davvero?
Il cittadino comune non si infiammerà mai per le politiche europee sull'asilo o sulla sicurezza degli impianti a terra, ma quando passa una frontiera e si accorge che non c'è più il doganiere, quando fra poco avrà la stessa moneta del Paese vicino, queste sono le cose di cui si accorge. E finirà prima o poi per capire che da soli non contiamo nulla. Nei momenti di crisi, come questo, anche i più scettici premono chiedendo più Europa.
Si è parlato più volte di un deficit di democrazia in Europa. Penso anche a quelle migliaia di cittadini non violenti che hanno manifestato al vertice di Nizza, chiedendo più trasparenza di quella che, magari a torto, vedono come la torre d'avorio dell'Europa dei governi e delle burocrazie. Cosa risponde?
Divento furioso quando lo sento dire perché qui c'è il massimo di democrazia. Io personalmente rispondo quotidianamente a quindici capi di Stato e di governo eletti democraticamente e ogni mese espongo il mio lavoro in un Parlamento eletto a suffragio universale. Non riesco a pensare che ci sia un deficit di democrazia nelle decisioni dell'Unione Europea, penso all'opposto che il nostro sia un destino segnato, una strada che è impossibile abbandonare.
Gli euroscettici forse lo vorrebbero.
Anche gli euroscettici sanno che l'Europa è il destino finale di questo continente. Dopo l'11 settembre alcuni di loro pensano perfino che questo destino stia accelerando la sua marcia. Senza retorica, vorrei ricordare che l'Europa è al centro di tutti i grandi drammi della politica contemporanea, dal Medio Oriente al Balcani.
Non sempre purtroppo si riesce ad esserne persuasi.
E invece noi oggi siamo una forza di grande equilibrio e di crescente responsabilità. Non a caso Washington ci ha chiesto di assumere la responsabilità sempre più forte dei Balcani. Non a caso il nostro ruolo nelle tragedie del Medio Oriente è divenuto sempre più importante. Non a caso la trojka ha compiuto, in perfetto accordo con gli Stati Uniti, una difficile missione per allargare l'alleanza contro il terrorismo.
Posto a mezza via fra i Padri Pellegrini e la teoria del Destino manifesto (due dei pilastri morali che hanno reso grandi gli Stati Uniti), Romano Prodi non cede: la sua visione dell'Europa sconfigge, o almeno ci prova, tutti gli scetticismi, di cui il Vecchio Continente abbonda. E allora gli chiediamo:
Che cosa manca perché il destino d'Europa si compia? Dica una cosa che vorrebbe, la più impellente.
Vorrei la fine della frammentazione fatta anni fa, quando venne tolta la linearità e la compattezza dell'Europa creando il secondo e il terzo pilastro e dividendo le competenze nei diversi campi della politica europea. Io vorrei tornare all'unità e alla chiarezza del primo disegno europeo.
C'è chi, come il presidente tedesco e il presidente italiano Ciampi, spinge per un'Europa federale, con una sua Costituzione. Lei è d'accordo con loro?
È la conseguenza più diretta di quell'Europa che vorremmo. La visione del presidente tedesco e quella di Ciampi è la stessa visione della Commissione. Ma sappiamo che ci vorrà tempo e che prima di arrivarci dovremmo risolvere altri problemi. Ma il cammino è già intrapreso: c'è una Carta dei Diritti, che prima non esisteva.
Una Carta senza valore giuridico, però, non vincolante.
Però c'è, esiste, è condivisa, è discussa. Vede, l'Europa è una casa di tutti e non ha perduto le sue radici cristiane originarie, non ha perduto quell'etica di fondo che ne aveva ispirato la nascita. Questo significato profondo a Bruxelles esiste ancora. Vuol dire che i padri fondatori non sono affatto morti?
No. Sono ancora qui tra noi. E sono sicuro che anche loro avrebbero fatto l'euro e l'allargamento. Anche loro avrebbero tradotto la caduta del Muro di Berlino in un fatto positivo, non negativo. È il Muro che ha dato il via all'allargamento. Perché questa è l'Europa: la sola che può far sì che anche il processo di secolarizzazione nella società moderna, avvenga in modo rispettoso dei nostri valori e della nostra tradizione.

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23 ottobre 2001
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