RASSEGNA STAMPA

La Repubblica,
22 ottobre 2001

La grande sfida tra la democrazia e il fanatismo
Le idee

di Jean Daniel

Pacifisti, attenzione! Avevo creduto di essere un po' dei vostri. Ma nei vostri cortei si sente dire di tutto. E c'è chi ostenta comprensione per quanto è accaduto l'11 settembre, credendo di sapere quali sarebbero le concessioni utili da fare al terrorismo islamico. Quando in alcuni slogan il manicheismo antiamericano assume i toni di un masochismo antioccidentale, si ha tutto il diritto d'allarmarsi. I Taliban creature degli Usa? Sì, purtroppo. E allora? Non per questo sono meno fascisti. Dovremmo arrivare ad abbassare la guardia davanti a loro? È come se ci avessero chiesto comprensione per il nazismo perché i tedeschi avevano ragione di ritenersi vittime del Trattato di Versailles. Cosa sta succedendo? Semplicemente, c'è un senso di generale sconcerto davanti a questa nuova forma di fascismo.
Si cerca di comprendere, ma inutilmente. Si vorrebbero trovare precedenti ai comportamenti dei kamikaze islamici, ma non se ne trovano. Solitamente i martiri si sacrificano rinunciando alla propria vita, ma a questa rinuncia non s'accompagnano azioni omicide. D'altronde, i desperados che vanno incontro a qualsiasi rischio pur di servire la propria causa non hanno l'obiettivo prioritario di morire. Si sa che le guerre possono richiedere azioni di commandos dalle quali in pratica è assai difficile tornare. Ma c'è un abisso tra il rischio, per quanto altissimo, e il desiderio di morire. Neppure i kamikaze giapponesi erano volontari. Venivano designati, e spesso, a quanto si dice, con loro grande sconforto. Non avevano uno speciale culto della morte, che per loro non era affatto salvifica. Quando il romanziere Mishima decise di suicidarsi, non solo non uccise nessuno, ma non si degnò neppure di coinvolgere nel suo sacrificio amici e familiari. Volle semplicemente inabissarsi insieme a un mondo che scompariva, per lui l'unico degno della sua concezione dell'onore e della vita. La frase pronunciata, secondo un giornale americano, da un influente mullah: "Vinceremo perché amiamo la morte assai più di quanto gli americani amino la vita", sarebbe inconcepibile per gli autori dell'attacco a sorpresa contro Pearl Harbor, che divennero poi le vittime di Hiroshima.
Troviamo il rito del suicidio collettivo in alcune sette. Oggi si rammenta la famosa setta degli Assassini - un'eresia ismaelita - che organizzò nel corso di due secoli l'uccisione di principi e di emiri. Il recentissimo film d'un regista ivoriano rievoca l'esercito delle amazzoni, le donne che in un regno africano del XVII secolo si addestravano a ridurre gli uomini in schiavitù. Ma queste amazzoni erano vittoriose, e non c'era nulla che le facesse vivere più intensamente dell'atto di uccidere.
In origine, il sacrificio è un dono, un'offerta a una divinità; ma in questo caso non si tratta del dono di se stessi. A essere sacrificato è un animale, un bambino, un prigioniero. Contro questa pratica insorge Sant'Ireneo, uno dei padri della Chiesa: "Dio non ha bisogno di ciò che noi gli diamo, poiché tutto gli appartiene, tranne una cosa: la nostra libertà. E ciò che noi possiamo offrirgli è dunque essenzialmente la nostra vita". Non quella altrui. In altri termini, la congiunzione tra il desiderio di morire e il dovere di uccidere, in obbedienza all'ingiunzione della guerra santa, costituisce un fenomeno estremamente raro. Ed è grazie alla strumentalizzazione di questo abbinamento tra assassinio e suicidio che gli "jihadisti", (secondo l'espressione tratta da Olivier Roy dal termine jihad, guerra santa) hanno vanificato tutti gli scenari catastrofici, tutte le simulazioni degli strateghi occidentali.
Costretti a rinunciare a una spiegazione basata sui riti ancestrali, tendiamo a ripiegare, nella nostra sete di comprendere, sulle cause mobilitanti del passato: quelle di un terzo mondo ringiovanito al tempo della globalizzazione. La rivolta contro gli sfruttatori, gli indigenti contro i benestanti, i virtuosi contro i corruttori, i puri contro gli inquinatori. Evidentemente, gli jihadisti non chiederebbero di meglio che cristallizzare lo scontento e la rivolta di una parte del pianeta. Ma sarebbe solo un effetto secondario, dato che la loro santa ambizione è più ispirata alla volontà di dominio. E anche più satanica, nel caso di Osama Bin Laden. Oltre tutto, c'è da notare che i nuovi jihadisti e i loro migliori agenti non provengono certo dal mondo dei diseredati. Bin Laden e i suoi ostentano con orgoglio le loro ricchezze, indipendentemente dalla loro origine - che si tratti del petrolio saudita o dall'oppio dei Taliban - così come il loro livello culturale e il carattere scientifico delle loro strategie. Non fanno riferimento a una situazione risentita come ingiusta ma a un'ingiunzione sacra, ricordando l'incredibile rapidità con cui l'Islam si diffuse nel mondo arabo tra il VII e il IX secolo, per estendersi fino alla Cina tra il XII e il XIV. E preconizzano l'universalismo religioso, il proselitismo senza confini territoriali o di razza. Ora, sono precisamente gli Stati Uniti a incarnare oggi l'ostacolo principale a questa espansione, con l'arrogante convergenza della forza, della potenza, della grandezza ma anche della vita. E c'è in questa congiunzione una sfida insopportabile per il credente fanatico. Perciò questi nuovi giustizieri terroristi scommettono sulla nostra debolezza e contano su un aumento della loro popolarità con il protrarsi dei bombardamenti, poiché la potenza che ieri era vittima oggi si trasforma in aguzzino.
Infine, si potrebbe ripiegare anche su cause più immediate e recenti: la guerra del Golfo, il conflitto israelopalestinese. Dovremmo recensire tutto ciò che si può rimproverare agli Usa per cercare di spiegare quest'odio nei loro confronti, divenuto ormai un'ossessione. Al punto che le loro maggiori riviste hanno dedicato interi numeri a questo tema. Certo, non dimentichiamo che gli Stati Uniti hanno finito per attirare su di sé, e in maniera esclusiva, tutti i risentimenti e le ostilità suscitati nel mondo arabo dal colonialismo, soprattutto francobritannico. Dio sa quanto fossero profonde e mal cicatrizzate quelle ferite, e con quanta facilità gli Usa le abbiano imprudentemente riaperte quando l'Arabia Saudita permise agli "infedeli" d'insediare le proprie basi militari sulla loro santa terra. Mai l'umiliazione era stata così profonda. E poi, ovviamente, c'è Israele. Chiunque non abbia atteso l'11 settembre per allarmarsi davanti alla situazione in Medio Oriente, postulando l'applicazione del rapporto Mitchell e l'evacuazione da parte del governo israeliano delle colonie recentemente insediate, è indubbiamente in diritto di sottolineare che gli jihadisti non sono stati mossi in particolare dalla sorte avversa dei palestinesi. Come tutti sanno, essi non vogliono la pace e considerano Arafat come un nemico. E nessuno ignora che nel momento in cui i pirati del terrore stavano già preparando i loro attacchi contro New York e Washington, gli israeliani e i palestinesi si ritenevano ormai vicini a un accordo. Quanto al sostegno a Israele, di fatto per molto tempo incondizionato, era cessato con l'investimento personale di Bill Clinton, tanto che due autori vicini alla Casa Bianca (Robert Malley e Hussein Agha, "New York Rewiew of Book", agosto 2001, n.d.a.) hanno rivelato come il presidente americano si fosse opposto a più riprese a Ehud Barak. Ma questo non ha impedito le azioni terroristiche, e neppure la sproporzionata repressione e l'asfissia economica della popolazione martire di Gaza. Ma nulla dimostra che in quel momento, al di fuori di Hamas e Jihad islamica, i palestinesi avessero un qualsiasi legame con gli jihadisti di Kabul.
Dunque, l'irriducibile singolarità del terrore jihadista dovrebbe indurci ad ignorare le cause indirette che ne hanno favorito la logistica e il dispiegamento? Al contrario. Quanto sopra sta a dimostrare che per la sua singolarità, questo fenomeno è a un tempo isolato e minoritario; e potrebbe rimanere tale se tutti quanti, musulmani e occidentali, prendessimo coscienza di alcune realtà evidenti.
Innanzitutto, non dimentichiamo mai che i musulmani sono le prime vittime dell'islamismo. Dobbiamo ricordare ovunque che in Algeria, paese estraneo alla Guerra del Golfo e al problema israeliano, si sono contate finora 130mila vittime in seguito alla penetrazione tra gli oppositori del Fis (Fronte islamico di salvezza) dei Gia (Gruppi armati islamici) formato in Afghanistan. Che l'Islam deve assolutamente modernizzarsi e riformarsi per evitare di essere preso a pretesto; ma a farlo possono essere solo gli stessi musulmani. Il Consiglio di Sicurezza, l'Ue e gli Usa devono imporre l'applicazione immediata del rapporto Mitchell in Medio Oriente, cosa che Bush e Blair stanno incominciando a fare, e che dovrebbe far tornare la sinistra israeliana alla sua antica ed eroica saggezza. E infine, è sicuramente venuto il momento di pensare a voce alta e pubblicamente a un nuovo ordine mondiale, in cui i pochi valori che malgrado tutto rimangono patrimonio comune conducano a preferire la giustizia alla fede, la democrazia alla religione, e a conciliare l'universalità dei principi con la diversità delle culture.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

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24 ottobre 2001
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