Ricominciare con l'Iraq per ricominciare con gli Usa
Diventa sempre più chiaro che il voto su cui è chiamato il Parlamento non riguarda i nostri militari impegnati in missioni internazionali. Il voto che saremo chiamati ad esprimere riguarda il governo, le velleitarie ambizioni di un presidente del Consiglio che crede di apparire grande solo perché si mette alla destra di Bush. E non ha lui poi il coraggio di andare a Nassiriya neppure per un giorno accanto ai nostri militari. Aspettavamo un emendamento dal governo, che consentisse al Senato il percorso legislativo già positivamente sperimentato sei mesi fa, distinguendo distinguendola spedizione in Iraq, che è la meno tradizionale dal punto di vista operativo e la più discussa politicamente, dalle altre missioni. E' arrivato un emendamento che, nell'apparente ordinaria amministrazione, quella di trasferire materiale logistico e tecnico alla guardia irachena, contiene un messaggio politico preciso: la guardia irachena è infatti agli ordini degli occupanti ed è in questa fase uno degli elementi di destabilizzazione dell'Iraq. Il governo schiera l'Italia ancora più apertamente dalla parte degli occupanti. Sarà dunque ancora più chiaro che la conferma del "no" all'intervento militare italiano in Iraq non riguarda i soldati, ma il governo. Il nostro "no" è un atto di rispetto verso i nostri militari delle altre missioni. Noi siamo accanto ai nostri militari. Abbiamo onorato, con angoscia, la morte di un gruppo di loro a Nassiriya. Siamo vicini a coloro che sono rimasti in Iraq, a quelli che hanno sostituito i caduti. Siamo vicini agli italiani che sono nei Balcani, a quelli che sono in Palestina, a chi è rimasto in Afghanistan. Sappiamo che fanno il loro lavoro con dedizione e professionalità. Proprio per questo abbiamo chiesto alla maggioranza un atto di rispetto nei confronti dei militari italiani: discutere in Parlamento delle questioni militari che li riguardano, affrontare i temi della delle persone italiane impegnate in Iraq; dare senso e sbocco alla loro missione inquadrandola in scelte politiche, ed analizzando le vie d'uscita. Invece il governo e la maggioranza dicono che si tratta di un atto amministrativo, che il decreto è solo una questione di soldi, che non c'è niente da discutere. Non c'è un emendamento presentato dalla maggioranza: tutto perfetto in Iraq, tutto uguale a sei mesi fa, nessun dubbio. La strage di Nassiriya è come non ci fosse stata. Il sacrificio dei militari italiani caduti e delle loro famiglie è citato per tuonare che non si può indietreggiare; viene anche utilizzato per zittire chi, come me, propone di cambiare la natura della nostra missione, anche per evitare che i militari italiani finiscano per essere confusi con gli occupanti e patiscano da questo giudizio altre conseguenze. La maggioranza non ha voglia di parlare dei nostri militari, perché accettare la discussione significherebbe farsi venire qualche dubbio sulla scelta di partecipare all'intervento unilaterale in Iraq, interrogarsi sulle ragioni della nostra presenza, fare quello che persino gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno facendo: promuovere un'inchiesta sulle informazioni fasulle, ora che tutti ammettono che l'Iraq non aveva armi di distruzione di massa. Significherebbe andarsi a rileggere le sicurezze esposte in Parlamento da Berlusconi, da Frattini, da Martino a proposito di Saddam Hussein e chiedere loro chi li ha imbeccati. Per i senatori della maggioranza meglio stare zitti e votare contro ogni cambiamento, contro ogni aggiornamento della missione; e votare il più presto possibile. Da parte sua il governo ha costruito per i parlamentari della sua maggioranza una trincea a difesa della quale non ha schierato né il ministri degli Esteri né quello della Difesa: ha schierato i militari italiani. Contraddicendo il comportamento tenuto sei mesi fa, il governo ha messo in un unico decreto sia l'intervento in Iraq che le altre numerose missioni internazionali. La finalità è fin troppo chiara: tutti i circa novemila militari italiani impiegati all'estero devono "difendere" la decisione del governo di stare in Iraq; votare contro il decreto significherebbe votare contro anche agli interventi in Kosovo o in Palestina. L'opposizione, pensano gli strateghi del governo, dovrà difendersi; magari battaglierà tra sé e non con la maggioranza. Non è una trincea sicura. Aggiunge infatti "munizioni" a chi - come me - sei mesi fa ha votato "no" all'intervento. Votare contro il decreto significa tra l'altro votare contro un governo che utilizza persone generose quali sono i militari italiani all'estero non per dare una mano a popolazioni in difficoltà, ma per creare difficoltà alle opposizioni. Ho votato "no" al decreto inm commissione per rispetto di tutti i nostri militari. E confermerò il voto in Aula. Al rispetto della "specializzazione in missione di pace" dei militari italiani sono ispirati gli emendamenti presentati in Commissione e che ripresentiamo per il dibattito nell'Aula del Senato. Hanno due obiettivi: interrompere il legame tra l'Italia e le forze di occupazione; rilanciare concretamente il ruolo delle Nazioni Unite. C'è chi ci invita a prendere atto che i nostri militari "ormai" sono in Iraq. C'è chi mette in risalto la condizione della popolazione irachena in assenza di un potere efficace. C'è chi continua a dire che non bisogna lasciare soli gli americani (e non sai mai se lo dicano perché amano gli Usa o perché li temono). Credo che il bene dell'Italia, il bene dell'Iraq, il bene degli Usa si raggiungono con meno difficoltà e meno tragedie se si ricomincia da capo, in molti, insieme con gli iracheni. Per ricominciare una strada insieme, bisogna dichiarare che quella che si è intrapresa in maniera solitaria e avventurosa è finita. E' finito anche l'intervento italiano. Si vota "no" alla proroga. Si riparte. Con un emendamento proponiamo che si stabilisca fin da subito e per legge che il contingente italiano è immediatamente a disposizione della Nazioni Unite; significa: non abbandonare gli iracheni, spingere l'Onu a ritornare, garantire un nuovo status politico ai nostri militari. Ecco una strada concreta che indichiamo per ripartire in molti; per ripartire con gli iracheni. Per ripartire con gli americani che stanno scegliendo John Kerry come loro futuro presidente. Molti tra noi, molti tra gli italiani desiderano "stare con gli americani", con i valori della Costituzione deli Stati Uniti, nella quale non c'è la "democrazia da esportazione". C'è invece, da sempre, "una nuova frontiera", da cercare insieme, come ci ha indicato un altro JFK.
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