La polemica I moderati "embedded"
QUALCHE tempo prima che cominciasse la verifica che sarebbe sfociata nella buonuscita di Giulio Tremonti, il moderato Marco Follini si rivolgeva sconsolato a Berlusconi: "Silvio, non puoi pensare di affrontare il problema Bossi con una cena a settimana". Già, il premier era infastidito dal pressing del Senatur, dal suo marcamento stretto sulla devolution, e non concepiva altro modo di controllarlo se non concedendogli tutto, con la liberalità annoiata di chi non sopporta i discorsi politicisti tipici del leader del Carroccio. Solo che in questo modo, commentava Follini, "si sposta tutto l´equilibrio della Casa delle libertà". Anche queste erano sofisticherie da politicanti, secondo Berlusconi.
Il risultato è che è in avanzato stato di approvazione una nuova Costituzione, fortemente condizionata dalla volontà leghista; e che i moderati del centrodestra sono prigionieri del cosiddetto "Asse del Nord", costretti a firmare una nuova legge fondamentale che contraddice il loro pensiero e la loro cultura politica. È un capolavoro politico, per i gregari di Bossi come Roberto Calderoli, e per il principale regista dell´accordo tra Forza Italia e la Lega, cioè il redivivo Tremonti. Ed è una mezza catastrofe, se non una catastrofe intera, per Follini e Casini, come pure per Gianfranco Fini e i suoi colonnelli, anche quelli che mugugnano come Gianni Alemanno. Sarebbero loro i moderati "embedded" nel funzionalissimo accordo tra Berlusconi e Bossi, gli ostaggi dello scambio siglato cinicamente dai due cattivi ragazzi dell´Asse del Nord, il Cavaliere e il Leghista. Un baratto perfetto, con il capo del Carroccio che concede graziosamente al capo del governo il premierato, nuovi poteri, il ruolo di dominus della coalizione; e il premier che offre a Bossi il dono storico della devolution. Sarà stata pure il frutto degli intimi tête-à-tête del lunedì sera ad Arcore, prima che Bossi venisse colpito dal male, ma la transazione risulta così ben costruita da abbagliare anche gli uomini di Alleanza nazionale, per cui "patria" e "Roma" sono ancora parole di un certo peso: il miraggio di un simil-presidenzialismo smorza le loro riserve sul regime "federale", e mette la sordina ai dubbi su un ridisegno che non si direbbe vantaggioso per la geografia elettorale di An e per i suoi elettori del Mezzogiorno. Ma c´è un patto implicito, ed è di micidiale efficacia, fra Berlusconi e i suoi alleati. Alla resa dei conti, infatti, i contestatori, i possibili rivali o successori di Berlusconi abbassano le armi e rinviano il conflitto politico. Dopo mesi di attività frondista, il presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini ha espresso stima e amicizia a Marcello Dell´Utri, poco prima della sua condanna a nove anni, rinnovando così il legame con Berlusconi. Marco Follini si è insediato a Palazzo Chigi nel ruolo di vicepremier, sapendo che questa funzione implica la condivisione senza sconti del berlusconismo. Gianfranco Fini ha coronato una carriera acrobatica con l´incarico alla Farnesina. Dopo di che, sono tutti ridotti al silenzio. È un congegno di implacabile efficacia, il centrodestra, perlomeno nel senso che riesce a murare i moderati nella casa dell´estremismo. Se i capi tacciono, potranno parlare forse i gregari? Non è un gregario e non tace Domenico Fisichella, che non perde occasione per spargere disprezzo sul "federalismo disgregativo", e lancia l´anatema contro una riforma che non rispetta "i valori di An" (e siccome il progetto post-missino l´ha creato lui, manda a dire che la dirigenza del partito quei valori non li conosce, oltre a ignorare i classici della scienza politica). Sarà che An non appartiene al novero delle forze politiche e culturali che scrissero la costituzione del 1948, e quindi si capisce che non ha né nostalgie né remore nel macerarla. Ma i cattolici no, la Carta l´hanno negoziata con i comunisti, i socialisti, i socialdemocratici, i partiti laico-liberali, insomma con "l´arco costituzionale", e sono sempre stati prudentissimi rispetto ai cambiamenti. Dunque non si capisce quale sia lo spirito maligno che due giorni fa si è impossessato di Francesco D´Onofrio, e lo ha indotto a dire in Senato che nel '47 non ci fu affatto uno "spirito costituente", bensì una guerra fra "i partiti della libertà e chi voleva importare la costituzione sovietica" (prendendosi del "demente" da Gavino Angius). Gli ex democristiani più autentici ragionano diversamente. Il cattolico apostolico romano, e democristiano nell´anima, Giulio Andreotti, che i membri di Comunione e liberazione considera l´erede ideale e concreto di Alcide De Gasperi, ha condannato come "pericolosa" la riforma, annunciando mobilitazioni e iniziative, e ha ricordato di converso la "quasi unanimità" con cui l´Assemblea costituente approvò il testo definitivo, nonostante la rottura dell´unità nazionale del 1947. Un classico uomo della Dc intesa come "partito d´ordine", Oscar Luigi Scalfaro, si è scagliato contro il premier "onnipotente" e sul presidente della Repubblica ridotto "in canottiera", facendo riemergere le diffidenze dei costituenti, memori della dittatura, verso la concentrazione dei poteri in una sola figura istituzionale. Praticamente tutta la vecchia Dc avverte il premierato e la devolution come due forzature simmetriche. Semmai sono gli homines novi premiati dal potere, i supergovernativi, a manifestare indifferenza e a minimizzare gli effetti dello stravolgimento costituzionale, a considerarli un sottoprodotto magari fastidioso ma necessario del contratto di governo. Ma gli eredi più credibili della tradizione democristiana, come Bruno Tabacci, allievo di Giovanni Marcora, non esitano a promettere lotta senza quartiere contro "una riforma che fa slittare il nostro paese verso il presidenzialismo, senza nemmeno il coraggio di ammetterlo", e nello stesso tempo "un pasticcio che getterebbe il nostro paese nell´ingovernabilità". Adesso, dopo mesi di inerzia, saltano fuori tutte le riserve mentali dei "non estremisti" inquilini della Cdl, i repubblicani, i socialisti, Giorgio La Malfa, Bobo Craxi, Gianni De Michelis. Chissà se si sono accorti di un altro nodo implicito nella nuova Carta. Proprio la combinazione stigmatizzata da Tabacci: un presidente con i superpoteri più la devolution, più la farragine insensata del bicameralismo imperfetto e pseudofederale. L´ingovernabilità, appunto. Un sistema che, lasciato alla propria disfunzionalità genetica, può grippare. Non tanto la "patria perduta" richiamata dall´insofferenza civile di Ernesto Galli della Loggia ("un´intemerata patriottica non credibile", secondo uno degli ideologi del pragmatismo estremista berlusconiano, Giuliano Ferrara); bensì il paese inceppato, bloccato e infine a pezzi. Uno scenario che può essere interessante per una sola persona, per un solo leader politico: vale a dire per chi sente "fastidio per il Tricolore", per chi non ha mai negato di puntare nel lungo periodo a una qualsiasi variante della secessione. E che dunque si dichiara felice per la devolution. E anche per poter immaginare che il sistema creato per "los italianos" è la corda che legherà le mani all´Italia e la porterà al disfacimento. Non a caso Umberto Bossi brinda a Coca-Cola, e "piange di gioia". Ma si sa che quando esulta un estremista, ai moderati, veri e presunti, non resta che piangere.
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