Fondazione Corazzin
I giovani del Veneto tre mesi dopo l'11 settembre
Per metà dei giovani veneti la guerra è un male, ma inevitabile
di
Francesco Jori
Il Gazzettino, 11 dicembre 2001
Sono giovani, ma non comprano risposte e interpretazioni a scatola chiusa; neppure se gliele vogliono regalare. Neppure quando sul tavolo c'è un argomento caldo e complesso come la guerra cominciata giusto tre mesi fa, con quei due aerei e quelle migliaia di morti intrecciatisi nella più devastante mattina di New York. Ci tengono a pensare con la loro testa, e nel farlo non tagliano seccamente e sbrigativamente il mondo in buoni e cattivi, come fanno troppi adulti dell'uno e dell'altro fronte: una ricerca condotta tra i giovani veneti dalla Fondazione Corazzin , propone un panorama molto più articolato e riflessivo. Dove solo un ragazzo su tre si schiera per la guerra, e uno su cique schiera contro. La maggioranza, uno su due, pensa che sia un male inevitabile. Di più, con grande concretezza e senza cimentarsi su scenari planetari, i giovani veneti guardano alle conseguenze della guerra non tanto sul piano dei rapporti economici, ma di quelli sociali: esprimendo il timore che a pagarne le spese saranno soprattutto gli immigrati presenti nel nostro Paese, in termini di chiusura. Dati importanti, soprattutto per quei partiti e movimenti che tentano di mettere il cappello sulle nuove generazioni, sui loro fermenti e sulle loro inquietudini, illudendosi di trarne un «più» di rappresentanza, di spazio, di voti. Illudendosi, appunto. Perché pretendono di trattare le teste come scatole, appiccicandoci un'etichetta sopra. Ed è proprio per questo che oggi si ritrovano in mano solo le etichette.
Indiani e cow-boys? Grazie, no: sul tema della guerra in corso, i giovani veneti hanno opinioni molto articolate, classificabili in tre gruppi di riferimento. Un ragazzo su cinque è contrario, uno su tre è favorevole, ma soprattutto uno su due si schiera per il male sì ma necessario, ritenendo che il conflitto, pur deprecabile in sè, risponda in questo caso al «bene di tutti». È il responso ricavato da un'inchiesta su 700 giovani veneti in età compresa tra i 15 e i 30 anni, promossa dalla Fondazione Corazzin .
Diverse sono anche le opinioni sul modo in cui si dovrebbe portare avanti la lotta al terrorismo. Un giovane su tre ritiene giusta l'alleanza costruita attorno agli Stati Uniti; uno su sei pensa che in realtà la guida andrebbe affidata alle Nazioni Unite; uno su due è convinto che la guerra in realtà non solo non riuscirà a risolvere la questione, ma anzi rischierà di dare nuova benzina al terrorismo stesso.
Ci saranno ricadute anche in casa nostra, ritengono i giovani veneti. Ma anche qui, la loro voce si fa articolata: la maggioranza assoluta ritiene che il conflitto non porterà ripercussioni sostanziali né sul fronte del lavoro, né sull'economia veneta, né sul reddito disponibile. Invece, tre persone su quattro si aspettano un peggioramento dei rapporti nei confronti degli immigrati presenti nel nostro Paese.
Altre interessanti differenze si possono cogliere entrando in una lettura più approfondita dell'esito del sondaggio. Quella più significativa si riferisce al genere, dove si registra una netta diversità di atteggiamento: i maschi favorevoli alla guerra sono quasi il doppio delle donne. L'adesione al conflitto cresce inoltre con l'aumento dell'età, dello status sociale e soprattutto del grado di istruzione: i laureati presentano infatti un livello di consenso che è di circa dieci punti percentuali più di tutti gli altri.
Meno influenti risultano invece i luoghi di residenza e l'impegno culturale, politico e sociale. Così, si coglie un atteggiamento realistico (cioè: la guerra è un male necessario) soprattutto tra i giovani che abitano nei capoluoghi di provincia; cosa che si registra anche tra chi è impegnato nel mondo delle associazioni, solo che in questo caso diventa rilevante anche la quota di coloro che dichiarano di non avere alcuna opinione in proposito.
Un ulteriore approfondimento si può fare per quanto riguarda i possibili cambiamenti conseguenti alla guerra. Su questo i giovani si suddividono in due gruppi, pessimisti e ottimisti: nel primo rientrano soprattutto le donne, i più giovani, quelli che non hanno un titolo di studio, e gli appartenenti alle classi inferiori; nel secondo figurano in particolare i maschi, i giovani con età compresa tra i 20 e i 24 anni, i diplomati e gli appartenenti alle classi superiori.
È interessante notare come le donne presentino una visione più negativa degli uomini su tutti i fronti trattati a proposito delle ricadute del conflitto: il lavoro, l'economia veneta, il reddito disponibile e l'atteggiamento nei confronti degli immigrati. I più giovani invece sono pessimisti in particolare rispetto al lavoro e, assieme a quelli con età compresa tra i 20 e i 24 anni, all'accoglienza degli stranieri. Quelli senza titolo di studio lo esprimo invece con particolare riguardo al lavoro e al reddito disponibile; ma rispetto all'economia veneta e alla qualità dei rapporti con gli extracomunitari, è forte comunque anche il pessimismo dei laureati.
Terenzio Fava, docente all'università di Padova, è la persona che ha condotto la ricerca della Fondazione Corazzin sui giovani veneti e la guerra, leggendone in profondità i dati. Qual è l'aspetto che l'ha più colpito? «Il dato che risulta incrociando la domanda riguardante la posizione rispetto al conflitto e le modalità con cui esso si dovrebbe attuare. Tra i giovani sostenitori della guerra, solo il 66 per cento ritiene giusta l'azione coordinata dei Paesi occidentali a fianco degli Stati Uniti, mentre uno su sei pensa che l'azione di polizia internazionale dovrebbe spettare all'Onu, e uno su cinque vede nella guerra uno strumento capace esclusivamente di incrementare il terrorismo.
«Da qui emerge come i i giovani che aderisocno alla guerra "giusta", seguendo i canoni proposti dalla politica internazionale e nazionale, passino da un terzo iniziale a un quinto dell'intero campione. Una percentuale che non riflette certamente il fronte dello schieramento politico favorevole alla guerra. Il che può far pensare che, al di là dell'etica della responsabilità, vi sia forse da parte della politica, oltre che un eccesso (forzato) di convinzione, anche un eccesso di (pretesa) rappresentanza».
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