IN PARLAMENTO

Con i tagli micidiali al Fondo per l'editoria
duecento giornali a rischio

L'Italia di provincia sta perdendo la voce
La Costituzione è una buona base di partenza
per affrontare un tema di libertà e di democrazia

di Tino Bedin

Meglio andare al cinema che leggere un giornale: l'invito è del governo; non è scritto con le parole, ma con i numeri degli stanziamenti pubblici; e i numeri sono spesso - come in questo caso - più convincenti delle parole. Eccoli: il Fondo per l'editoria è passato dai 172 milioni di euro del 2013, ai 130 del 2014 ai 107 del 2015, con previsione di scendere a 103 dal 2016. I soliti tagli? Non proprio: fino a pochi anni prima il Fondo per l'editoria e il Fondo unico per lo spettacolo avevano più o meno la stessa consistenza di 250 milioni di euro; nel 2015 il Fondo per lo spettacolo è a 407 milioni di euro, quello per l'editoria è molto meno della metà rispetto alla parità iniziale.

500 mila pagine in meno di informazione. Tagli mirati, dunque. Tagli profondi, che stanno diventando micidiali. Almeno 200 testate giornalistiche rischiano la chiusura, anche perché la riduzione del finanziamento pubblico è stata drastica; anzi nel 2013 è stata addirittura retroattiva, perché annunciata quando i bilanci delle aziende giornalistiche erano già stata chiusi. Non è solo un rischio: nel 2014 sono state chiuse 30 testate di antica tradizione e conseguentemente hanno perso il lavoro circa 800 giornalisti e un migliaio fra grafici e poligrafici.
Senza un cambio di politica da parte del governo, potrebbero essere circa tremila i posti di lavoro che si perderanno (tra giornalisti, grafici, poligrafici, amministrativi). Complessivamente circa 300 milioni di copie di giornali non verranno più stampate, con conseguenze dirette per tipografie, pubblicità, trasportatori, distributori ed edicole. Per i lettori si tratterà di 500 mila pagine in meno di informazione. E si tratta in gran parte di quotidiani locali, settimanali diocesani, periodici di comunità, riviste di idee. Per la grande maggioranza si tratta di società editoriali senza scopo di lucro o di cooperative.
Per invertire la tendenza e bloccare questa emorragia è in corso la campagna nazionale "Meno Giornali = Meno Liberi". L'hanno lanciata e la sostengono nove fra associazioni e sindacati del settore.

Settimanali secolari. Tra queste associazioni c'è anche la Fisc, la Federazione italiana settimanali cattolici. Da sola questa Federazione rappresenta 193 testate diffuse settimanalmente in 800 mila copie nelle 225 diocesi italiane. Si tratta di giornali che - specie al Nord - affondano le loro radici nel Movimento cattolico italiano dell'Ottocento e dei primi del Novecento, come "La Difesa del Popolo" di Padova che è stata fondata nel 1908. Sono giornali di popolo che hanno accompagnato e difeso le loro comunità nella Grande Guerra e poi sotto il fascismo, nella Liberazione e nella costruzione delle Repubblica democratica. Hanno raccontato e raccontano le esperienze e l'apporto dei credenti nella vita sociale e civile. Per molti decenni sono stati gli unici giornali di territorio.
Ora questi territori rischiano di restare senza voce e sarebbe l'Italia a diventare afona. L'omologazione attorno a tre-quattro gruppi editoriale nazionali sarebbe completa. In più tv ed internet -pur preziosi nell'informazione - non saranno più completati da strumenti di informazione in grado di promuovere anche una riflessione sui fatti e quindi ad educare contestualmente proprio ad un uso positivo di tv ed internet.
"Senza questi giornali - scrivono i promotori della campagna - l'informazione italiana sarebbe in mano a pochi grandi gruppi editoriali e in molte regioni e comuni rimarrebbe un unico soggetto, monopolista di fatto, dell'informazione locale e regionale. Senza questi giornali, impegnati da sempre a narrare e confrontare con voce indipendente testimonianze e inchieste connesse a specifiche aree di aggregazione sociale e culturale e ad affrontare con coraggio tematiche di particolare rilevanza a livello nazionale, l'informazione italiana perderebbe una parte indispensabile delle proprie esperienze".

Bonificati abusi e approfittatori. Non so se il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella conosca direttamente questa situazione; di certo nel suo discorso di insediamento ha confermato che uno dei modi per attuare la Costituzione è "garantire l'autonomia e il pluralismo dell'informazione, presidio di democrazia".
La Costituzione può essere il punto di ripartenza politico per Parlamento e governo nell'affrontare l'intervento pubblico nell'editoria. Ai tagli micidiali e alla situazione attuale si è arrivati sotto la spinta di abusi e approfittatori. C'è stato, ad esempio, chi ha giocato sul fatto che i contributi erano distribuiti sulla base delle copie stampate e non di quelle vendute, per cui molte copie venivano stampate e mandate direttamente al macero. C'è stato il capitolo tristissimo - anche per la dignità dei parlamentari - quando bastavano un senatore e un deputato per definire fittiziamente "di partito" un giornale (anche di grande nome), al quale piovevano provvidenze per le quali ci sono ancora processi in corso.
Questi approfittatori e questi abusivi, pappandosi molte risorse, hanno in passato danneggiato gli organi di informazione locale e di comunità, ai quali restano le briciole. Ora questi stessi giornali di comunità e di territorio pagano per la seconda volta con i tagli attuali, per meritare i quali non hanno proprio nessuna colpa.
Una volta disboscato l'ambiente, oggi governo e Parlamento sono nella condizione di affrontare con la dovuta giustizia il tema del finanziamento pubblico all'informazione, come strumento di garanzia costituzionale. Si tratta scelte che i grandi paesi europei fanno da sempre. Per citare una recente ricerca dell'università inglese di Oxford, lo scorso anno i francesi hanno investito 18,77 euro a testa per la libertà di stampa; 11,68 ne hanno investiti gli inglesi e 6,51 i tedeschi. In Italia, sommando le voci dell'intervento pubblico nel settore, gli italiani hanno speso poco meno di 3 euro a testa.
È un investimento in libertà, in democrazia, ma è anche un investimento economico, come ho già sommariamente elencato citando i numeri della crisi. Si tratta infatti di un settore produttivo, che genera lavoro e ricchezza e quindi fa ritornare nelle casse dello Stato parte del sostegno ricevuto.
Anche su queste basi dunque il Fondo per l'editoria va ridiscusso. Si vedrà allora chi ha agito per moralizzare l'ambiente e non per ridurre l'informazione e chi invece ha preso lo spunto dalla morale per accentrare l'informazione.

10 febbraio 2015


23 marzo 2015
pa-042
scrivi al senatore
Tino Bedin