IN PARLAMENTO

Intervento in Senato contro il coinvolgimento dell'Italia nell'attacco all'Iraq
È la guerra, anche se la chiamano con molti nomi
La minaccia che proviene dal dittatore iracheno giustifica una guerra che significherà la morte certa per migliaia di bambini, donne e uomini innocenti, di molti soldati americani ed inglesi?

Mercoledì 19 marzo 2003 il Senato italiano ha prima ascoltato il presidente del Consiglio sulla partecipazione italiana all'attacco unilaterale angloamericano contro l'Iraq ed ha quindi dato vita ad un intenspo dibattito. Per il gruppo Margherita-L'Ulivo sono intervenuti i senatori Tino Bedin e Franco Danieli; il capogruppo Willer Bordon ha fatto la dichiarazione di voto sulle risoluzioni conclusive.
Riportiamo il testo dell'intervento del senatore Bedin, capogruppo in commissione Difesa.

di Tino Bedin

Ora che le decisioni degli Stati Uniti, condivise dal governo italiano, hanno trasformato la speranza di milioni di italiani in angosciosa attesa, il governo non si aspetti il silenzio della rassegnazione o della ragion politica.
Questo governo non ha dialogato con l'opinione pubblica: ora non può proporle di dedicare la sua passione solidale a curare i disastri del dopoguerra.
Questo governo ha lasciato che le informazioni più importanti al Parlamento venissero da fuori, non da fuori del Senato e della Camera, ma da fuori dell'Italia: ora non può invocare comportamenti tradizionali degli italiani e dei loro rappresentanti in parlamento, perché proprio quella tradizione il governo ha per primo infranta, scegliendo di entrare in una lista di paesi che accettano una guerra che non è stata approvata da nessuno degli organismi internazionali ai quali, per Costituzione e per storia politica, l'Italia ha sempre dato il suo contributo: la guerra contro l'Iraq non ha l'approvazione dell'Alleanza Atlantica, non ha l'approvazione dell'Unione Europea, non ha l'approvazione delle Nazioni Unite e del loro Consiglio di sicurezza.

La guerra è ancor più di una minaccia. Ora che non ci è consentito di contare né sulla Nato, né sull'Europa Unita, né sull'Onu; ora che non ci è più consentito di sperare nella pace, milioni di italiani sono costretti a sperare che gli angloamericani abbiano fatto bene i loro conti, che non ci sia accanimento, che insomma facciano presto.
Gli angloamericani ci hanno detto che è possibile. Ci hanno detto che Saddam è debole, che le sue armi sono antiquate. Ma fanno la guerra, e il governo italiano è d'accordo, perché Saddam è una minaccia. La domanda che gli italiani si sono posta e che continuano a porsi è: la minaccia che proviene dal dittatore iracheno giustifica l'avvio di una guerra che significherà la morte certa per migliaia di bambini, donne e uomini innocenti, di molti soldati americani ed inglesi? La loro risposta è stata finora e resta: no. A loro, a noi, il ricorso alla forza appare una decisione grave, in un momento in cui il disarmo dell'Iraq è in corso e le ispezioni hanno dimostrato di essere un'alternativa credibile per il disarmo di Saddam.
Fanno la guerra, e la maggioranza di Destra l'ha applaudita, ad un dittatore sanguinario. Ma finora gli Stati Uniti hanno espresso interesse solo per le armi di distruzione di massa; hanno preteso dagli ispettori interventi e relazioni sui missili, non sui diritti umani e i diritti democratici degli iracheni.
Fanno la guerra, ed il governo dice che è un bene, per allargare i confini della democrazia. Ma quale credibilità democratica può avere la compagnia di ventura, alla quale il governo ha iscritto l'Italia e nella quale - secondo una innovazione diplomatica incredibile degli Stati Uniti - sono arruolate anche nazioni "segrete"? Segrete, perché non possono dirlo alle loro popolazioni? Segrete, perché non sono sufficientemente democratiche da giustificare l'attacco ad un regime illiberale e dittatoriale come quello di Saddam?
Fanno la guerra e la chiamano "libertà in Iraq" e il nostro governo è d'accordo. Ma il 14 dicembre a Londra la conferenza degli esuli iracheni aveva stabilito che il futuro dell'Iraq doveva essere portato avanti dagli iracheni: come si concilia con l'occupazione militare prevista a conclusione delle operazioni belliche e alla quale il governo italiano pretende che si affianchi l'Italia, sotto l'ombrello della ricostruzione?

Governanti che si sentono bene in un protettorato. Dovremo apprendere anche le caratteristiche di questo prossimo impegno italiano non dal nostro governo ma dalla Casa Bianca? Dovremo imparare che il Pentagono ha già creato un Ufficio per la ricostruzione e gli aiuti umanitari e che tutte le iniziative di assistenza sia degli Stati che delle Organizzazioni non governative dovranno avere il "via libera" dei militari americani? Dovremo apprendere da un dirigente americano che l'impegno della nostra cooperazione allo sviluppo sarà di affiancare un esercito in guerra?
Così come abbiamo appreso dall'amministrazione americana all'inizio del suo dispiegamento militare alcune settimane fa che lo spazio aereo italiano era disponibile per le truppe Usa?
Così come abbiamo appreso le regole di impiego degli uomini del contingente Nibbio in Afghanistan da un generale americano e non dal ministro Martino?
Così come abbiamo appreso prima di questo dibattito in Parlamento che l'Italia si era arruolata tra i paesi volonterosi: quelli che non si accontentano di prendere atto che è stata decisa una guerra, ma che ne difendono le ragioni?
Siamo un paese sovrano o abbiamo governanti che si sentono meglio nelle condizioni di un protettorato?

L'interesse italiano è in un mondo multipolare. Certo l'Italia non è una potenza. Ma proprio per tale motivo non sarà un'iniziativa unilaterale a tutelare al meglio i nostri interessi. Gli interessi dell'Italia si difendono in un accordo multilaterale e in un ordine mondiale subordinato a precise regole. Eppure il governo italiano concorda con una guerra i cui effetti sono già disastrosi anche se non è stato ancora sparato il primo colpo: oggi le partnership internazionali per noi più importanti risultano indebolite: l'Unione Europea è divisa, il Consiglio di sicurezza si trova in una situazione di stallo, l'Alleanza Atlantica è ridimensionata da strumento geopolitico a coalizione variabile a seconda degli obiettivi.
Ecco la differenza fra noi e la Francia, tra noi e la Germania. Queste nazioni, nostre alleate, si sono messe nelle condizioni di fare scelte anche diverse da quelle che poi proponiamo per l'Italia, perché le loro scelte di oggi e di ieri sono all'interno di una chiara politica di strenua difesa delle Nazioni Unite, dell'Alleanza Atlantica, dell'Unione Europea.
Il governo italiano ha invece accettato la scelta unilaterale americana.
Ha incoraggiato la scelta unilaterale, con il documento degli Otto europei, quando era ancora possibile far prevalere le posizioni che unitariamente l'Unione Europea stava pur faticosamente elaborando sotto la presidenza greca.
Ha applaudito la scelta unilaterale, dopo il vertice delle Azzorre, quando non ce n'era nemmeno bisogno. Da protettorato, appunto, non da nazione sovrana.

Dare le basi è accettare la guerra unilaterale. Per questi precedenti, la condivisione di spazi di sovranità nazionale italiana, cioè la concessione dell'uso dello spazio aereo, delle basi militari, delle infrastrutture di trasporto e della logistica diventerà la continuazione di quella condivisione della guerra unilaterale.
Non è un impegno con l'Alleanza Atlantica che dobbiamo onorare. La concessione della basi agli Stati uniti sarebbe al contrario un prendere atto che l'Alleanza atlantica - a differenza di quanto avvenuto in Kosovo - è stata tenuta in disparte.
Sarebbe poi un modo diretto di prendere parte ad una guerra unilaterale. Se davvero non siamo belligeranti, dobbiamo non essere corresponsabili.
Dalle basi italiane non partiranno i bombardieri contro la popolazione irachena, ha assicurato il governo. E se partiranno gli aerei che riforniscono in volo i bombardieri in modo da accrescerne la capacità di offesa sulle popolazioni irachene? Sarà ancora non-belligeranza?

La fortuna di avere l'articolo 11 della Costituzione. La disputa non è da avvocati ma da cittadini che hanno una Costituzione, la nostra Costituzione e nella nostra Costituzione l'articolo 11. Il presidente del Consiglio non l'ha citato, questo articolo 11, nella pur lunga sfilza di citazioni giuridiche che ha proposto dal parlamento.
Anche questo articolo 11 fa diversa l'Italia dalla Francia, l'Italia dalla Germania. Le costituzioni francese e tedesca non hanno una norma che "ripudia la guerra". Non è una differenza da poco. Noi per fortuna ce l'abbiamo ed è un principio che milioni di italiani hanno mostrato di avere caro. Anche il governo ha la fortuna di avere questo articolo della Costituzione: è la base giuridica con la quale - nel rispetto delle amicizie ma nel contrasto sui comportamenti - l'Italia può, deve dire no a Bush; può, deve dire no alla guerra.
Il grido di Giovanni Paolo II non risuona solo nelle coscienze. Il grido del Papa non è rivolto solo lontano. Risuona nella vita italiana e nelle sue scelte: a cominciare dal governo e dal parlamento.

19 marzo 2003

VAI ALLA PAGINA PRECEDENTE | STAMPA LA PAGINA | VAI A INIZIO PAGINA


21 marzo 2003
pa-018
home page
scrivi al senatore
Tino Bedin