EUROPEI

Finanziaria 2006 e compatibilità con l'Unione Europea
Il governo tiene l'Italia
fuori dalla crescita europea

Spostati al 2009 i fondi per la coesione, solo "eventuali" quelli per l'innovazione

La legge Finanziaria 2006 è stata oggetto di un parere delle commissioni parlamentari permanenti, prima dell'esame in commissione Bilancio. In Commissione Europa del Senato è intervenuto il senatore Tino Bedin, segretario della commissione e capogruppo della Margherita. Riportiamo il testo integrale dell'intervento, riassunto in sede di commissione.

intervento di Tino Bedin segretario della Commissione Europa del Senato

L'unico punto fermo della legge Finanziaria presentata dal governo al Senato è costituito dall'obiettivo di riduzione del disavanzo nella misura di 11,5 miliardi di euro, in linea con gli impegni assunti in sede europea, che prevedono un calo progressivo del rapporto deficit/PIL fino al 3,8 per cento nel 2006 e al 2,8 nel 2007.
Sono buone intenzioni e lodevoli dichiarazioni. Per la Commissione Europa del Senato sono intenzioni e dichiarazioni condivisibili e necessarie. La coerenza con il Patto di stabilità e crescita è infatti la condizione per la partecipazione dell'Italia alla politica economica europea con particolari riferimento all'area euro. Poiché considero l'euro uno strumento di sviluppo politico per l'Europa e di equilibrio finanziario-politico mondiale, non posso che condividere le azioni che consentono all'Italia di essere protagonista di questi due obiettivi.
Se dai propositi passiamo alle le cifre, il disegno di legge Finanziaria si presenta però quanto mai incerto, sia sulle politiche previste, sia sull'effettiva incidenza di esse sui saldi di bilancio, cioè sulla raggiungibilità di quei propositi o meglio degli impegni presi con gli altro Stati membri dell'Unione Europea.
Ritornerò su questo aspetto, fondamentale per il giudizio "europeo" sulla Finanziaria 2006. Parto da altri aspetti della Finanziaria, poiché l'Europa non è solo un vincolo, ma un'opportunità di crescita ed un progetto di sviluppo.

Un "pagherò" da 15 miliardi di euro
Comincio con le possibilità che l'Italia si dà di partecipare alle politiche finanziate dall'Unione Europea attraverso i fondi di coesione. Si tratta di opportunità importanti per l'economia italiana in generale, ed in particolare per le regioni in ritardo di sviluppo, che - come è noto - si realizzano solo se ai finanziamenti europei si aggiungono quelli nazionali.
Nella relazione alla Finanziaria è stato detto che per il 2006 i fondi nazionali ci sono. Si tratta di una mezza verità; per di più riferita al solo 2006.
Nella tabella D della Finanziaria per il Fondo di rotazione delle politiche comunitarie (cap. 7493) si prevedono poco più di 3,7 miliardi di euro per il 2006, che però altro non sono che i residui di stanziamento degli anni precedenti. Nulla invece è previsto nella stessa tabella per gli anni 2007 e 2008 e quindi non è iscritto alcun rifinanziamento per questo biennio.
Le cifre dell'allegato 6 alla Finanziaria sullo stesso capitolo di bilancio sono ancora più evidenti: accanto all'indicazione dei finanziamenti compaiono tre inequivocabili segni negativi, uno per ogni anno del triennio dal 2006 al 2008. Nel 2006 il taglio di competenza e di cassa è di oltre 5,9 miliardi, di 4 nel 2007 e di 5 l'anno successivo. Per trovare il segno positivo bisogna arrivare al 2009 dove ricompaiono 14,9 miliardi, la somma dei tagli del triennio precedente.
Il governo firma una cambiale di quasi 15 miliardi di euro con scadenza 2009.

A rischio 24 miliardi di "aiuti" europei
A differenza delle solite cambiali, che assicurano comunque liquidità, questo "pagherò" del centrodestra non serve a nulla.
I 15 miliardi di euro sono utili solo se destinati a coprire la quota italiana del Quadro comunitario di sostegno che si concluderà il prossimo anno e che impone la "rendicontazione", cioè la trasmissione a Bruxelles delle fatture, entro e non oltre il 2008, pena l'automatica perdita delle risorse assicurate fino a quel momento dalla Ue. In altre parole, se l'Italia non metterà sul tavolo la quota di risorse di sua competenza Bruxelles ritirerà le sue.
Secondo la proposta del governo con la Finanziaria, finiti i residui, invece, in cassa non ci sarà più un euro. E questo avverrà a cavallo tra il 2006 e 2007 ovvero proprio quando, secondo la tabella di marcia del Quadro comunitario di sostegno, è prevista la più forte iniezione finanziaria. Il programma concordato con la Ue prevede che nel 2006-2007 ci sarà una forte accelerazione della spesa, che dovrebbe poi tornare a ridiscendere nell'anno di chiusura. Il programma vuole evitare che nell'ultimo anno si concentri una mole di scadenze eccessiva e rischiosa.
Complessivamente, per le sole Regioni del Mezzogiorno il Quadro comunitario vale 46 miliardi di euro, ovvero circa 90 mila miliardi del vecchio conio. Di questi 46 miliardi, Bruxelles ne copre 24 mentre altri 21,5 sono a carico dello Stato e 4,5 delle Regioni beneficiarie degli interventi (altri 6 miliardi sono coperti dai privati).
Il prossimo anno per far fronte agli impegni il governo potrà far conto sui residui che consentirebbero di fronteggiare le richieste. Tuttavia, una volta esaurite queste "riserve" si dovrà anticipare i 15 miliardi ora allocati tutti nel 2009. In caso contrario, la perdita dei fondi europei si realizzerebbe immediatamente.
Di conseguenza, già a partire dal prossimo anno, chiunque si troverà al Governo dovrà sbrigarsi a reinserire i 15 miliardi, e a reperirne immediatamente almeno 5-6 per sostenere le prime scadenze: una cifra pari a quella reperita per la riforma fiscale 2005, metà dei tagli dell'attuale manovra.

In 5 anni chiesti solo metà dei finanziamenti
L'inevitabilità di mettere a disposizione risorse nazionali per il Quadro comunitario di sostegno fin dal 2006 (se non si vogliono perdere i finanziamenti europei) nasce anche dall'utilizzo che di questi finanziamenti il governo è riuscito ad attivare.
Secondo gli ultimi dati resi noti dalla Ragioneria generale dello Stato, al 30 giugno scorso, dei 46 miliardi a disposizione dell'Italia ne sono stati impegnati 28,5 pari al 62 per cento del totale mentre i pagamenti si fermano a 17 miliardi, il 37 per cento circa dell'intero importo. Un dato più dettagliato è fornito dal Dipartimento per lo sviluppo del ministero dell'Economia: al 31 di luglio di quest'anno le domande di pagamento presentate a Bruxelles, ovvero la richiesta dei contributi comunitari (esclusi quindi quelli a carico dell'Italia) hanno raggiunto i 10 miliardi di euro. Quindi a 5 anni dall'avvio del Quadro comunitario di sostegno, a un anno dalla scadenza per il completamento degli impegni (2006) e a tre dal termine (2008) per i pagamenti siamo ancora sotto il 50 per cento.
Ecco perché l'utilizzo dei 15 miliardi di euro spostati dalla Finanziaria al 2009 risulta determinante fin dal 2006. Nel giro di tre anni dovranno infatti essere spesi poco meno di 30 miliardi di euro di cui oltre la metà a carico dell'Italia (ai 15 miliardi a disposizione va infatti aggiunta la quota regionale).

I miliardi "eventuali" per l'innovazione
Oltre che alla coesione territoriale, per la quale il governo fa correre all'Italia gravi rischi, l'Europa sta dedicando uno sforzo particolare alla cosiddetta Strategia di Lisbona, che impegna gli Stati membri a realizzare gli interventi necessari per il raggiungimento degli obiettivi di crescita e sviluppo individuati dal Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000, che dovrebbero fare dell'Europa "l'economia più competitiva del pianeta" entro il 2010.
Anche in questo caso la Finanziaria ricorre ad una mezza verità.
Il governo sembra fare dell'innovazione una componente non solo cospicua (circa 3 miliardi), ma anche politicamente qualificante della manovra di bilancio per il 2006; poi, però, affida questa strategia ad entrate "eventuali", cioè a quelle derivanti dalla vendita del patrimonio immobiliare pubblico.
Come per il passato, il governo omette di indicare espressamente le politiche idonee ad avviare la convergenza verso gli obiettivi di competitività europei. La "novità" è che per la prima volta destina a tale generico fine (peraltro mai prima considerato) una dotazione finanziaria tanto tardiva quanto fittizia: 3 miliardi di euro delle "eventuali" maggiori entrate da dismissioni immobiliari. Si tratta di una "eventualità" assai lontana, se si considera che delle entrate da dismissioni previste nello scorso anno - come ricordato dalla Corte dei Conti - se ne sono davvero incassate meno del 9 per cento.
Anche in questo caso la mezza verità diventa un'autentica bugia, che conferma il tardivo ed inconsistente impegno del governo su questo fronte, considerati il tempo trascorso invano senza alcuna specifica iniziativa in proposito, la manifesta aleatorietà delle risorse oggi indicate dalla legge finanziaria, e soprattutto l'assoluta mancanza di qualunque esplicita determinazione circa le politiche da perseguire prioritariamente per la "centratura" dei numerosi obiettivi di sviluppo indicati dall'Agenda di Lisbona.

Le donne italiane indietro nel lavoro
Tra gli handicap che la Strategia di Lisbona ci chiede di superare c'è quello che ci vede in posizione molto arretrata in Europa, secondi solo alla Grecia: la crescita della partecipazione al lavoro delle donne, ferma in Italia al di sotto del 40 per cento, a fronte di un traguardo europeo pari al 60 per cento centro il 2010.
Si tratta di un divario che è cresciuto in questi anni. Con riferimento all'intero periodo 2001-2005, i dati Istat dimostrano come il calo del tasso di disoccupazione non sia conseguenza solo dell'aumento degli occupati, ma anche e soprattutto della riduzione delle persone in cerca di occupazione. Si tratta in prevalenza di donne che vivono al Sud - secondo l'Istat - che avrebbero rinunciato a cercare lavoro, soprattutto per la difficoltà di sostenere economicamente il costo dei servizi all'infanzia a fronte dell'insufficienza e della discontinuità dei redditi da lavoro flessibile che potrebbero ricavare con un'occupazione fuori casa.
La conferma viene dall'incremento delle "non forze di lavoro", che ha riguardato soprattutto la componente femminile del Mezzogiorno (+ 100 mila unità nel 2005), nell'ambito di una generale crescita della popolazione inattiva in età compresa tra i 15 e i 64 anni pari a 131 mila unità.

Dubbi sul rispetto del deficit
Confrontata sia con i fondi di coesione sia con la Strategia di Lisbona, cioè con le opportunità e le proposte dell'Europa, la legge Finanziaria 2006 non è assolutamente europea.
Lo è sul piano più tipico di una legge finanziaria, cioè per quanto riguarda il bilancio?
Ho ricordato all'inizio che il disegno di legge finanziaria indica le misure per il controllo della dinamica del debito e del deficit. Esse sono tanto più rilevanti dopo il recente e durissimo giudizio dell'Ecofin sulle nostre politiche finanziarie e di bilancio, che ha dato l'avvio ad una procedura di infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell'Italia. In particolare, la raccomandazione Ecofin del 12 luglio 2005 ha imposto all'Italia la correzione in senso peggiorativo di tutti i risultati di deficit e debito pubblico certificati dal governo dal 2001 ad oggi, nonché l'obbligo di approntare misure per il rientro del disavanzo eccessivo attraverso una correzione pari ad almeno lo 0,8 per cento del Pil per ciascuno degli 2006 e 2007.
Nel suo insieme, la manovra della Finanziaria si presenta assai più consistente; è pari, infatti, ad oltre 22 miliardi di euro, tra maggiori spese e minore entrare, con ciò ponendo quanto meno qualche dubbio sull'effettiva capacità di ricondurre il disavanzo al 3,8 per cento; dubbi condivisi dagli osservatori e dalle istituzioni finanziarie internazionali.

Solo in inglese le previsioni pessimistiche
Questi dubbi meritano tutta l'attenzione della Commissione Europa del Senato, per il ruolo che le politiche di bilancio hanno all'interno dell'insieme della politica economica e sociale europea.
Le stime più recenti del Fondo monetario indicano un disavanzo tendenziale (in assenza dunque degli interventi correttivi previsti dalla legge finanziaria) ormai pari al 5,1 per cento del Pil, cioè quasi 6 miliardi in più di quelli previsti dal governo.
Il testo del disegno di legge Finanziaria contiene anche le valutazioni del Fondo monetario internazionale, ma sono pubblicate in inglese. La scelta va criticata non certo per sciovinismo, ma perché rende meno trasparente ad una parte dei cittadini (ed anche ad una parte dei parlamentari) la documentazione.
Nella Commissione Europa del Senato questa critica ad un testo inglese in una legge nazionale ha anche una valenza europea. A livello comunitario giustamente si è affermato il principio dell'utilizzo della lingua nazionale sia per gli atti che per le attività. Anche tentativi più o meno ufficiali di escludere l'italiano dalla maggior parte degli atti sono stati e sono rintuzzati con determinazione. E intanto in un atto del Parlamento italiano, destinato esclusivamente all'Italia il governo ricorre alla lingua inglese.
Poiché non credo che si tratta di una forma di… risparmio sulla traduzione, non posso che pensare ad una scelta voluta per "mimetizzare" le cifre del Fondo monetario. C'è ancora qualcuno in Italia che non legge l'inglese, si sarà detto Tremonti.
Secondo il Fmi infatti nel 2006, quindi, quando anche la manovra correttiva avesse pieno successo, il disavanzo si attesterebbe al 4,3%, ben al di sopra dell'obiettivo di convergenza, lasciando in eredità al prossimo governo l'onere di mantenere gli impegni assunti con l'Europa attraverso manovre ancora più pesanti per il Paese e l'economia nazionale.
Il disavanzo tendenziale rischia di risultare perfino più elevato di quello stimato dal Fondo monetario, per effetto di due difetti della legge finanziaria che ho già ricordati: il possibile sovradimensionamento delle previste entrate da dismissioni immobiliari; la necessità di ripristinare i 15 miliardi di cofinanziamenti dei fondi europei, che sono stati imprudentemente tagliati.

Senza riqualificare la spesa
Né c'è qualche affidamento che gli impegni presi all'Ecofin nel maggio scorso possano essere raggiunti attraverso una riqualificazione della spesa.
Rispetto a questo obiettivo l'incapacità di governare del centrodestra si conferma nel taglio dei consumi intermedi (gli acquisti di beni e servizi) per 1,5 miliardi di euro, con una riduzione superiore al 10 per cento della spesa per questa voce.
Si continua una politica di tagli "ciechi" e indifferenziati che ha finito per colpire indiscriminatamente tutti i capitoli di bilancio, con effetti del tutto casuali e irrazionali. Si fa contabilità e non politica di bilancio. I risparmi diventano presunti e soprattutto non sono strutturali, perché non nascono da scelte ed indirizzi.
Ma così mi inoltro in un esame di merito della legge Finanziaria, che non è di competenza della Commissione Europa.
Preferisco, dunque, fare due ulteriori annotazioni su aspetti che hanno possibili o certi riferimenti con la disciplina europea.

Tassa su gas e luce: e le tariffe?
Comincio dai dubbi sulla compatibilità comunitaria della cosiddetta "tassa sul tubo".
L'articolo 42 introduce un'addizionale erariale al canone e alla tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche con grandi reti di trasmissione dell'energia. Si dispone che da essa derivino maggiori entrate per il bilancio dello Stato non inferiori a 800 milioni di euro per ciascuno degli anni 2006 e 2007 e 900 milioni di euro a decorrere dall'anno 2008.
Di fatto, la nuova tassa sulle reti sembra configurarsi come una tassa sui profitti di Terna e Snam Rete Gas.
Il comma 3 dell'articolo 42 esclude espressamente che le tariffe siano adeguate in misura tale da ripristinare il rendimento garantito ("l'addizionale è a carico dei proprietari delle condotte di cui al presente articolo e ne sono vietate la rivalsa e la traslazione sugli utenti nonché la deduzione ai fini delle imposte sui redditi") e quindi la tassa dovrà restare a carico delle società di trasmissione e non potrà essere trasferita sugli utenti delle grandi reti, cioè sulle imprese di vendita del gas che, a loro volta, potrebbero poi rivalersi sui consumatori finali di energia elettrica e gas naturale.
Questo sulla carta della Finanziaria. In realtà i cittadini italiano stanno sperimentando cosa succede. Quando si decise di aumentare l'Irap sulle banche si disse la stessa cosa: era una tassa sulle banche. Oggi i cittadini italiani sono gli europei che pagano le spese più alte per i servizi bancari a cominciare dalla tenuta di un semplice conto corrente.
Del resto l'Autorità per l'energia elettrica e il gas il 7 ottobre scorso ha segnalato al parlamento e al governo che la cosiddetta "tassa sul tubo" "potrebbe: ridurre la sostenibilità degli investimenti necessari e programmati per lo sviluppo dei sistemi di trasporto e approvvigionamento di energia elettrica e gas, nonché per il miglioramento dei livelli qualitativi dei servizi relativi; ridurre i margini, derivanti anche dai guadagni di efficienza aziendali, da utilizzarsi per una riduzione continua e progressiva delle tariffe di trasporto; rendere più problematico il processo per il raggiungimento della piena terzietà proprietaria delle reti".

La differenza tra Blair e Berlusconi
Sul piano più direttamente europeo, anche se la tassa sulle reti finanziaria non ha come oggetto una conduttura internazionale, essa può ledere il principio della libera circolazione delle merci e, sul fronte della concorrenza, va in direzione opposta rispetto alla priorità posta dalla Commissione europea di facilitare la nascita di un mercato unico dell'elettricità e del gas in Europa, rimuovendo gli ostacoli agli scambi transfrontalieri.
Nel parere che ho citato l'Authority per l'energia segnala anche l'eventuale incompatibilità della norma "con l'ordinamento comunitario e in particolare con la normativa sulla libera circolazione dei beni laddove emergesse un impatto sui transiti esistenti, e in prospettiva crescenti, verso altri paesi dell'Unione europea (ad esempio: la Slovenia per il gas naturale; la Francia-Corsica e la Grecia per l'energia elettrica)".
Senza contare che la nuova tassa ha un precedente poco illustre nella tassa (anch'essa denominata "sul tubo") introdotta nel 2002 dalla Regione Sicilia sotto le mentite spoglie di un tributo ambientale, ma che si qualificava in realtà come un'imposta in somma fissa di tipo patrimoniale ("tubatici"), avendo come base imponibile il volume delle condotte della rete di trasmissione nazionale e regionale del gas naturale situate in Sicilia.
La Commissione europea si espresse contro la tassa, sostenendo che aveva effetti equiparabili a quelli di un dazio e quindi era contraria alle normative in vigore sul libero scambio, e nel 2004 ha chiesto la sua soppressione. Di fronte all'inerzia dell'Italia la Commissione ha presentato ricorso alla Corte di giustizia.
A proposito di precedenti, vale la pena annotarne uno anche di europeo. La tassa sulle reti sembra avere qualche similitudine con l'imposta sui profitti (windfall tax) che il governo di Tony Blair introdusse nel Regno Unito nel 1997 sulle società privatizzate da Margaret Thatcher, in seguito ad una revisione che aveva evidenziato notevoli extra-profitti nei servizi di pubblica utilità. La manovra del governo Blair colpiva 33 utilities senza discriminazione alcuna. La manovra del governo italiano è molto più selettiva: colpisce le grandi rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas naturale, ma esclude le telecomunicazioni. In Italia c'è il governo di Silvio Berlusconi.

Distretti produttivi in Europa
La necessità di una strutturazione che tenga conto delle norme comunitarie ed eviti di configurare un "aiuto di Stato" riguarda, invece, una componente della Finanziaria indicata dal governo come qualificante dell'intervento per lo sviluppo: la nuova disciplina dei distretti produttivi. Si tratta di una disciplina che potrebbe avere qualche interesse per alcune tipologie di imprese e di produzioni ammesse - sulla carta - ad una vasta serie di benefici anche fiscali, se non fosse è finanziata in misura irrisoria (appena 50 milioni di euro), con ciò smascherando l'effettiva portata dell'intervento.
Il dichiarato obiettivo dell'articolo 53 della Finanziaria è di aggregare il mondo delle piccole e medie imprese; si legge infatti nella relazione: "I distretti possono surrogare la grande industria che non c'è assumendo un ruolo non trascurabile anche nel processo di internazionalizzazione dell'economia. Come è stato notato, i distretti stanno già diventando entità in movimento (districts on the move)". La norma, tuttavia, nemmeno definisce i distretti, rinviando a un decreto che di concerto cinque ministri (delle attività produttive, delle politiche agricole e forestali, dell'istruzione, dell'università e della ricerca e dell'innovazione e le tecnologie) emaneranno. Bisogna fare in modo che siano compatibili con le norme europee alcune delle principali caratteristiche dei distretti, che per il momento sono soggetti a un avvio solo sperimentale. In particolare va regolato secondo il principio della concorrenza il regime fiscale previsto per i distretti, che si fonda su due istituti: la tassazione su base consolidata, riferita alle imposte sul reddito e la tassazione su base unitaria, applicabile anche alle entrate locali. Sotto il profilo fiscale, potrebbero essere interessanti i vantaggi derivanti dalla adesione al distretto: la possibilità di compensare le perdite fiscali (se un'azienda perde e una guadagna, il debito nei confronti del fisco si può azzerare o compensare), e il ricorso al concordato preventivo triennale delle imposte dovute.
Lo dico ora, perché se più avanti la Commissione europea dovesse muovere qualche rilievo, il governo non ricorra allo slogan che è l'Europa che frena lo sviluppo.
Come ho detto, la disciplina dei distretti potrà risultare interessante. È comunque una disciplina tutta rivolta all'interno, mentre in questo momento (e nel prossimo futuro) lo sforzo maggiore cui sono sottoposte le piccole e medie imprese è quello di un rapporto positivo con la globalizzazione. Lo spazio europeo è la parte più "domestica" della globalizzazione e sarebbe stato necessario qui un intervento di indirizzo e di sostegno alle imprese da parte dello Stato.
Ma il centrodestra italiano non di casa in Europa. I conti e le scelte anche di questa ultima Finanziaria della legislatura ne sono la conferma. Ed è la ragione per cui, anche in questa commissione, esprimiamo un voto contrario.

Senato, Commissione Europa, 12 ottobre 2005


28 ottobre 2005
eu-074
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Tino Bedin