Ancora troppe misure una tantum; un percorso di abbattimento del deficit strutturale timido; un cammino a ritroso sulla strada della riduzione del debito: uso parole non mie per sintetizzare il giudizio sulla compatibilità europea della manovra economica per il 2004 proposta dal governo. Quelle che ho citate sono infatti le tre critiche principali rivolte dal commissario europeo agli Affari economici, Pedro Solbes, alla Finanziaria italiana.
Il commissario definisce "incoraggiante" il fatto che il deficit italiano di mantenga al di sotto del 3 per cento quest'anno e il prossimo; ma si tratta di una constatazione basata sulle dichiarazioni del governo di Roma di un indebitamento netto al 2,5 per cento nel 2003 e del 2,2 nel 2004; le proiezioni per l'anno prossimo però evidenziano già il rischio di un aumento al 2,4 per cento.
In questa materia il governo non è del resto fonte affidabile: nel Dpef del luglio scorso il deficit era previsto a -1,8 per cento del Pil per il 2004. Nella Nota di aggiornamento di fine settembre il segno positivo è spostato oltre il 2007, dunque ben al di là dell'orizzonte della legislatura.
Rischioso il ricorso a troppe una tantum
Ad ogni modo il dato sul deficit - ha però precisato il commissario - "non nasconde il fatto che il ricorso a misure una tantum è tuttora molto ampio e ciò comporta rischi importanti per l'esecuzione del bilancio e per il futuro".
L'incidenza delle misure una tantum risulta di gran lunga superiore a quella annunciata nel Dpef: circa l'88 per cento del totale (contro il 67 per cento). Le misure una tantum, più o meno apertamente qualificate come tali, corrispondono infatti a circa 14 miliardi di euro - 13 miliardi di maggiori entrate e 1 miliardo di minori spese - a loro volta riconducibili quasi integralmente al maxidecreto. Si tratta - come giustamente osserva il commissario europeo Pedro Solbes - di segnali non rassicuranti sull'andamento generale della finanza pubblica, nella quale si registrano risultati negativi nonostante il peso non trascurabile delle misure una tantum; ciò autorizza a supporre che senza di esse la situazione sarebbe addirittura disastrosa.
In effetti il miglioramento della posizione di bilancio epurata dagli effetti del ciclo è inesistente quest'anno e il prossimo e non centrerà l'obiettivo di un calo dello 0,5 per cento del Pil, fissato dal Consiglio dei ministri Ue. Questa carenza genera particolare preoccupazione alla luce dell'alto debito italiano.
Non si rispetta la parola data per l'euro
Questo è infatti il punto della manovra di bilancio meno coerente con gli impegni e dei programmi dell'Unione Europea. Basta questo scostamento per motivare un giudizio negativo nella commissione per le Politiche dell'Unione Europea.
Da una parte, siamo infatti di fronte ad una decisione politica da parte del governo. La Nota di aggiornamento al Dpef 2004-2007 sancisce definitivamente il tramonto di due obiettivi già dati per acquisiti in questa legislatura, che - dopo ripetuti slittamenti in avanti - sono ormai usciti anche dal quadro previsionale del governo: l'azzeramento del deficit e la discesa del debito pubblico complessivo sotto la soglia psicologica del 100 per cento del Pil.
Dall'altra parte non si può dimenticare che Italia e Belgio sono stati accettati tra i fondatori della moneta unica, pur non avendo raggiunto il parametro di Maastricht relativamente al debito pubblico, perché si erano impegnati formalmente per la sua riduzione. Hanno dato la loro parola.
Ora il governo di centrodestra viene meno alla parola data dall'Italia. Il percorso verso la riduzione del debito è addirittura a ritroso rispetto a quello prospettato dal programma di stabilità dell'anno scorso. Nel 2002 ci si era impegnati a far scendere al 105 per cento il rapporto debito-Pil nel 2003, al 100,4 per cento nel 2004 per scendere sotto il 100 per cento nel 2005. Ora le previsioni sono invece di una curva di rientro più lunga, che vede il debito al 106 per cento nel 2003, al 105 nel 2004 e al 103 nel 2005 e sotto il 100 per cento solo nel 2007.
Eppure già le previsioni dello scorso anno erano incoerenti con gli impegni italiani a proposito dell'euro. Infatti c'è un'indicazione dell'Ecofin del 21 gennaio 2003 sul programma di stabilità italiano che aveva chiaramente stabilito che "il passo della riduzione del debito dovrebbe essere significativamente più veloce". Invece di accelerare, il ministro Tremonti ha ulteriormente rallentato il passo.
Impossibile "copiare" la Francia e la Germania
Né vale nascondersi, come negli ultimi mesi fa il governo italiano, dietro la situazione finanziaria di altri paesi europei.
Certo all'intero dell'Unione Europea si stanno delineando due tendenze. C'è quella di paesi come la Francia, la Germania e, per la sua parte, l'Italia, dove i governi hanno scelto un'interpretazione a maglie larghe del Patto di stabilità e crescita e hanno preferito "sfondare" il deficit nella convinzione di favorire, attraverso la maggiore spesa pubblica, la ripresa. E c'è la tendenza di paesi, prevalentemente i medi e medio-piccoli, che si dimostrano molto più rigorosi nei confronti del Patto e cercano di raggiungere, come sta facendo la Spagna, l'obiettivo del pareggio di bilancio.
Non è necessario schierarsi in via preventiva da una parte o dall'altra. Nel periodo iniziale si è dovuto intervenire con forte rigidità per il rispetto del Patto di stabilità europeo, in modo da far convergere le economie nazionali e da stabilizzare l'euro. Oggi il quadro è differente: la moneta unica è stata realizzata e si va sempre più affermando come alternativa credibile al dollaro, come dimostra l'esempio della Russia. Da ciò può discendere una maggiore elasticità sul rispetto del Patto di stabilità: ciò è dimostrato dall'esperienza di alcuni paesi decisivi per l'economia europea, i quali stanno sfondando il tetto del 3 per cento per quanto riguarda il parametro del rapporto indebitamento netto/PIL, senza suscitare particolari preoccupazioni. Ma ciò è possibile solo laddove lo sfondamento sia finalizzato a recuperare risorse per favorire lo sviluppo e la crescita e non, come nel caso italiano, per coprire le spese correnti come il pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici.
La differenza fondamentale dell'Italia rispetto agli altri grandi paesi europei sta appunto nel debito pubblico su Pil. Francia e Germania hanno un rapporto coerente con il parametro di Maastricht. Inoltre Francia e Germania hanno recentemente avviato, e non solo annunciato, un piano di riforme strutturali anche per lo stato sociale. E poi quei paesi posseggono un sistema di infrastrutture fisiche e immateriali (ricerca e sviluppo, in particolare) molto più forte del nostro. Infine essi hanno deciso di agire attraverso la leva della spesa, cioè attraverso il bilancio, mentre le "invenzioni" di Tremonti in questi due anni e mezzo non ci permettono ormai neppure fare ricorso a questa leva.
La spesa pubblica ha certamente un ruolo, soprattutto se è orientata ad allentare vincoli che l'economia italiana incontra sul piano delle infrastrutture, dell'istruzione, della ricerca, dell'innovazione, ma anche se è diretta ad accrescere il reddito disponibile di alcune famiglie. Sono sufficienti i cinque miliardi di euro della manovra di bilancio per spingere sia gli investimenti sia i consumi? L'impressione è che non è solo la quantità, imposta dai vincoli di bilancio, a limitarne l'efficacia, ma anche la vastità dell'area che s'intende coprire e i meccanismi di distribuzione delle risorse.
Altro aspetto che preoccupa - nel confronto tra sistemi europei - è il crescente divario di inflazione tra Italia ed Ue che riduce la nostra competitività. Senza energia e trasporti a più basso costo e senza più concorrenza nella distribuzione il divario non si chiude. Anche su questo il governo fa poco; si limita a prendere atto. Con la Nota di aggiornamento al Dpef 2004-2007, presentata il 30 settembre scorso, il governo ha ulteriormente corretto sia il quadro macroeconomico che quello di finanza pubblica per il 2003: la crescita del Pil in termini reali è stata ridimensionata allo 0,5 per cento (era lo 0,8 nel Dpef), mentre è stato confermato al 2,9 per cento il tasso d'inflazione.
L'Italia non offre certezze né agli italiani né agli europei
Sono cifre preoccupanti in sé; ma altrettanta preoccupazione nasce dalla consapevolezza che si tratta di cifre del tutto provvisorie.
L'ultima conferma dell'approssimazione con cui agisce il governo è venuta dall'esame da parte del Parlamento del Rendiconto dello Stato e dell'Assestamento di bilancio. Sono due provvedimenti di contabilità pubblica in genere percepiti come tecnici e privi di contenuto sostanziale, ma che in questa legislatura sono divenuti un'interessante sede di verifica della "credibilità contabile" del governo.
Ebbene, le entrate tributarie per il 2003 sono risultate inferiori per quasi 10 miliardi di euro rispetto agli incassi stimati nel bilancio di previsione. Questo dato è tanto più significativo se si considera che la previsione originaria includeva l'effetto dei condoni, stimato in 5 miliardi di euro e poi corretto per quasi 8 miliardi di euro, portando il gettito a consuntivo addirittura a 13 miliardi di euro. Ciò significa che l'effettiva entità del buco nelle entrate per il 2003 è di circa 18 miliardi di euro: un valore superiore a quello della manovra per il 2004, pari a circa 16 miliardi di euro.
È la conferma che né per gli italiani, né per gli europei non c'è alcuna garanzia né sul rapporto deficit/Pil, né (ancor meno) sulla crescita nel 2004 dell'Italia.
Inevitabile a questo punto il nostro giudizio negativo sulla manovra in relazione all'Europa. Ma inevitabilmente, nel giudizio che la Commissione Europea formulerà sulla Finanziaria 2004 e sul prossimo Programma di stabilità italiano, si segnalerà il mancato rispetto dell'impegno a ridurre di almeno lo 0,5% del Pil il disavanzo strutturale, depurato dagli effetti del ciclo economico. Nel 2002 non si andati oltre lo 0,3 per cento. Lo stesso valore è previsto per il 2004. L'inadeguatezza del governo a gestire l'attuale ciclo economico negativo, è evidenziata del resto dall'altro indicatore-chiave, l'avanzo primario (il saldo di bilancio al netto della spesa per interessi), che nel 2004 calerà al 2,9 per cento.
In questi mesi l'Italia non ha cercato un ancoraggio europeo alle difficoltà: non nel senso di chiedere sconti, ma nella direzione di aggiornare l'approccio comune allo sviluppo e alla stabilità. L'euro di carta è apparso (e probabilmente è stato) l'unico messaggio che il governo italiano ha fatto arrivare ai propri cittadini, come se uno strumento potesse diventare un obiettivo.
Sia nel programma annuale del Consiglio europeo, presentato assieme alla Grecia, sia nella gestione diretta della Presidenza di turno dell'Unione l'Italia non si è impegnata a porre rimedio - con "giochi cooperativi" - al trasferimento di sovranità nazionale rappresentato dall'euro. Avremmo dovuto fare, a luglio, il Dpef insieme a francesi, tedeschi, e spagnoli. Invece il governo si è preoccupato di far apparire il taglio alla previdenza pubblica come una esigenza di Bruxelles, al punto che il ministro Tremonti ha sfidato Prodi a dire se la manovra annunciata sulle pensioni gli va bene.
I soldi delle pensioni per comprarsi credibilità
Una sfida davvero singolare quella di Tremonti a Prodi. Come farà il presidente della Commissione europea a farsi un'opinione prima che Tremonti metta nero su bianco la sua proposta? Oppure esiste una proposta del governo italiano a Bruxelles che il Parlamento italiano non ha mai visto? Il governo infatti ha ritardato la presentazione alla commissione Lavoro del Senato di una proposta formale, lasciando passare settimane dopo lo spettacolare spot televisivo a reti unificate del presidente del Consiglio. Di fronte a questo ritardo sia la maggioranza che il governo hanno balbettato che il taglio alla previdenza pubblica non incide sulla manovra di bilancio e quindi non ci sarebbe proprio tutta questa urgenza di avere il testo.
Non è così e in sede di valutazione della compatibilità europea della manovra finanziaria per il 2004 questa mancanza di chiarezza va assunta come uno degli elementi per bocciare la manovra stessa.
Perché mai, infatti, nell'aula del Senato il ministro Tremonti ha aperto la sua spiegazione della Finanziaria affermando che questa è non solo legata al taglio della previdenza, ma si giustifica solo con questo taglio?
Perché Berlusconi e Tremonti si sono avventurati in uno scontro nella maggioranza ed in uno scontro sociale per una riforma che si prevede di iniziare dal 2008, quando - io confido - ci sarà un governo dell'Ulivo che avrà già provveduto a modificarla?
Perché non rispettare la tabella di marcia prevista ed accettata dalle parti sociali di una revisione nel 2005?
Perché danneggiare irreparabilmente le casse dell'Inps e degli altri istituti previdenziali con un balletto di date e di sconti possibili, balletto il cui passo finale è il salto nella pensione di chi è in grado di farlo e non vuole rischiare?
C'è una sola risposta a queste schizofrenie politiche, sociali ed economiche: il governo Berlusconi-Tremonti ha bisogno di dimostrarsi "severo" a livello internazionale. Deve farlo per evitare che cali l'affidabilità dell'Italia nel mercato dei capitali, costringendo Tremonti a pagare di più bot e btp. Deve farlo per compensare in Europa la scorrettezza di una Finanziaria che inverte il percorso di riduzione del debito pubblico.
Per comprasi un po' della credibilità sperperata in due anni e mezzo, il governo delle Destre va a prendersi i soldi delle pensioni. È obbligato a prendersi i soldi delle pensioni perché ha consumato o inaridito altre fonti d'entrata, ma non è obbligato dall'Unione Europea a farlo.
L'Unione Europea ha chiesto "misure strutturali" nel campo della spesa pubblica, senza però indicare ai governi come e dove tagliare: questa è una scelta dei singoli paesi. Berlusconi e Tremonti non possono sostenere che l'Italia deve fare la riforma delle pensioni "perché ce lo chiede l'Europa". Giuridicamente e politicamente non c'è e non ci sarà una "Maastricht delle pensioni", con regole uguali per tutti come per l'euro.
Berlusconi, come presidente di turno del Consiglio europeo, ha provato ad esportare in Europa i suoi problemi, annunciato più volte un coordinamento comunitario in materia previdenziale. Ma è solo un suo desiderio; il Consiglio europeo non è assolutamente unanime su questa materia e non se ne fa nulla, certo non nel Semestre italiano.
Se Berlusconi taglia le pensioni pubbliche è solo perché glielo chiede Tremonti, appunto come il ministro del Tesoro ha detto in Senato.
L'emendamento, in via di presentazione al disegno di legge collegato alla manovra di bilancio per il 2002 in materia previdenziale, tuttora pendente al Senato è dunque parte integrante della manovra finanziaria. Di questa manovra fanno parte anche il disegno di legge finanziaria vera e propria per il 2004 e il disegno di legge di conversione del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, il cosiddetto maxidecreto.
Per la prima volta, si presenta al Parlamento e al Paese una manovra articolata in tre provvedimenti di diversa natura, finanziariamente correlati fra loro e simultaneamente all'esame del Parlamento, secondo un complesso incastro procedurale. Si inaugura un nuovo modello di presentazione e di valutazione parlamentare dei provvedimenti finanziari e di bilancio; un modello peraltro introdotto per vie di fatto, senza passare attraverso alcuna modifica della legge di contabilità pubblica e dei Regolamenti parlamentari. Siamo in presenza dello svuotamento sostanziale della funzione peculiare della legge finanziaria e si reintroduce di fatto - attraverso la parallela approvazione del maxidecreto - l'idea del "collegato di sessione" che la riforma del 1999 aveva eliminato proprio al fine di ricondurre ad unità le politiche di correzione dei saldi attuate attraverso la manovra di bilancio.
Oltre a limitare la capacità di controllo da parte del parlamento e dell'opinione pubblica, questa procedura rende meno trasparente la nostra partecipazione agli obiettivi economico-finanziarie europei e non va nella direzione di creare in Europa modalità sempre più omogenee e comparabili per la gestione ed il controllo del bilancio pubblico.
L'Europa non è la casa dell'Italia
Il cuore economico della manovra italiana per il bilancio 2004 non batte dunque in Europa. Anche nel poco "sangue" che vorrebbe pompare nella società italiana sono scarsi i "globuli europei".
Ad esempio mancano risorse e politiche per la partecipazione dell'Italia alla Strategia di Lisbona, cioè a quell'insieme di politiche fissate nel 2000 nella capitale portoghese per fare dell'Europa la più competitiva società della conoscenza.
Oppure: proprio nel 2004, l'anno dell'allargamento dell'Unione Europea, si riducono gli investimenti nelle aree in ritardo di sviluppo, impedendo a queste di affrontare le sfide e le opportunità dei nuovi confini dell'Europa.
Neppure nell'iniziativa, pur condivisibile, del sostegno alle produzioni italiane c'è un adeguato riferimento alle normative e alle iniziative dell'Unione: questo rischia di ridurre l'efficacia e la stessa applicazione delle disposizioni previste dalla Finanziaria.
Il fatto è che questo governo sente l'Europa non come la casa dell'Italia, ma come una delle tante alleanze. Se ne ha una conferma per quanto riguarda la Politica europea di sicurezza e di difesa, la Pesd. Commentando la destinazione di 15 milioni di euro alla Pesd, la Nota di aggiornamento del Dpef relativa al ministero degli Esteri, la giustifica con la costante sua evoluzione e "conseguente previsione di maggiore partecipazione a eventi militari e a missioni umanitarie e di soccorso da parte degli Stati membri in Bosnia (post SFOR), Sudan, Afghanistan, Iraq, Macedonia e scenario mediorientale, e in altri probabili scenari africani. A ciò si aggiunga la partecipazione all'operazione "Artemis" già in corso" (si tratta della l'operazione militare della Unione europea nella Repubblica democratica del Congo). Mi sembra che non si possa lasciar passare il maldestro tentativo di mettere la presenza militare italiana in Iraq, sullo stesso piano della presenza di Bosnia, oppure in Macedonia. In Iraq non c'è nessuna partecipazione dell'Europa. Ma per questo governo tutto è la stessa cosa, con una commistione che conferma la scarsa presenza di "globuli europei" nelle sue vene.
Addio all'impegno di investire in conoscenza
Relativamente ai contenuti, la carenza più grave della Finanziaria 2004 per il futuro dell'Europa e dell'Italia in Europa riguarda la strategia di Lisbona, cioè gli investimenti nella scienza e nella conoscenza.
Per quanto riguarda l'università e la ricerca pubblica, la Finanziaria 2004 si qualifica soprattutto per la riduzione delle risorse e il generale ridimensionamento degli istituti pubblici, a favore di nuovi organismi dalle funzioni e competenze del tutto sovrapponibili a quelli esistenti, introdotti parallelamente attraverso il maxidecreto.
L'unità previsionale di base dedicata alla ricerca applicata presenta una riduzione di 229,7 milioni di euro, mentre il Fondo unico degli investimenti per l'università e la ricerca risulta ridotto per 110,2 milioni di euro.
Questo è tanto più grave in quanto questa finanziaria copre l'ultimo triennio della legislatura, termine entro il quale il ministro Moratti aveva solennemente promesso di portare l'investimento pubblico in ricerca scientifica e tecnologica all'1 per cento del Prodotto interno lordo.
L'effetto annuncio delle linee guida per la politica scientifica e tecnologica del governo, presentate ed approvate nella primavera 2002, è finito e resta la cruda realtà delle cifre: una situazione insostenibile, ormai vicina al collasso per mancanza di risorse, in cui il governo ha lasciato il nostro sistema di alta formazione. In analoga situazione si trovano gli enti pubblici di ricerca, senza risorse e quasi tutti commissariati in nome di un falso efficientismo.
Mentre la legge finanziaria offre poche briciole in più alla ricerca pubblica (universitaria ed enti di ricerca) appena sufficienti per coprire i maggiori costi del personale dovuti agli aumenti stipendiali, si istituisce, con decreto legge, l'"Istituto Italiano di Tecnologia", una sorta di agenzia, nata dal nulla, e finanziata fino a 200 milioni di euro all'anno per dieci anni e subito commissariata prima ancora di essere costituita.
La stessa Finanziaria non rilancia la ricerca industriale nei settori in cui è necessario e conferma per il terzo anno un autogoal clamoroso che è il blocco delle assunzioni, cancellando così la possibilità di immettere "sangue nuovo" nel sistema scientifico italiano.
È evidente come, in questa situazione di generale disinvestimento nelle giovani generazioni, anche la misura di incentivo al "rientro dei cervelli", contenuta nel maxidecreto, non possa produrre alcun effetto apprezzabile Non si capisce infatti quanti ricercatori italiani all'estero possano giovarsi di uno sconto fiscale sull'Irpef in caso di rientro in Italia, se il sistema della ricerca pubblica (e quindi oltre il 60 per cento della ricerca nazionale) è del tutto bloccato e le opportunità per produrre reddito semplicemente non ci sono.
Al posto di un disegno strategico sulla formazione ci sono demagogiche "carità": lo sconto Irpef per i ricercatori è una; altre sono destinate a studenti e insegnanti.
Per gli insegnanti, l'articolo 20 della Finanziaria prevede una risibile agevolazione per "l'acquisto di personal computer da usare nella didattica", estesa anche ai docenti universitari. La supposta agevolazione consisterebbe in riduzioni di costo e rateizzazioni, a condizione che si utilizzino preliminarmente le indagini di mercato di Consip. Oltre alla beffa per gli insegnanti di doversi comprare quello che viene dalla stessa legge considerato un sussidio didattico, c'è la complicazione di doversi rivolgere al centro acquisti nazionali se si vuole lo sconto.
Tra le agevolazioni per gli studenti figura l'istituzione di un Fondo per il finanziamento degli studi, a favore di studenti capaci e meritevoli, destinato alla costituzione di garanzie sul rimborso dei prestiti fiduciari concessi da aziende e istituti di credito. Il Fondo - alla cui dotazione iniziale sono destinati appena 10 milioni di euro per l'anno 2004 - dovrebbe essere anche finalizzato alla corresponsione di contributi in conto interessi per il rimborso di prestiti fiduciari concessi agli studenti privi di mezzi e a quelli residenti nelle aree sottoutilizzate.
Niente impedisce già oggi ai privati di istituire borse di studio e forme di agevolazione per i meritevoli.
Per il sostegno agli studenti privi di mezzi con questa norma si abbandona o almeno si ridimensiona, nell'istruzione scolastica, alcuni imprescindibili obblighi di assistenza e sostegno pubblici che invece qualificano il livello di civiltà e democrazia di una società moderna.
Non nasce così la società della conoscenza più competitiva del pianeta, come si sono ripromessi nel 2000 i governi europei al Consiglio di Lisbona.
Nudi alla sfida dell'allargamento
L'altra grande sfida per l'Italia che la non affronta è quella dell'allargamento dell'Unione Europa, che avverrà formalmente proprio nel 2004. In particolare sono lasciate a se stesse le aree meno sviluppate del nostro paese.
Nel Dpef 2004-2007 si prevedevano risorse aggiuntive per le aree sottoutilizzate, tali da mantenere costante il rapporto con il Pil. La Finanziaria smentisce questo impegno, non dedicando alle aree sottoutilizzate alcun ulteriore finanziamento rispetto a quelli previsti.
Il Fondo per le aree sottoutilizzate, istituito con la Finanziaria 2003, è stato rifinanziato per circa 8 miliardi di euro per il triennio 2004-2006, di cui tuttavia solo 100 milioni (!) sono destinati al 2004 e ben 6,3 miliardi sono allocati per il 2006.
Nel complesso, rispetto alla Finanziaria 2003 gli stanziamenti appaiono ridotti: se è più elevato lo stanziamento sull'ultimo anno del triennio, minori sono invece le risorse disponibili per l'anno prossimo: dai circa 11 miliardi di euro della Finanziaria 2003 si passa ai 5,6 miliardi della Finanziaria 2004, con un abbattimento del 50 per cento.
Questo definanziamento non è peraltro compensato neanche dall'aumento della dotazione del Fondo di rotazione per il cofinanziamento dei fondi strutturali, passato da 3,8 a 4,5 miliardi di euro.
Norme autarchiche per il made in Italy
Molta enfasi nella comunicazione del governo è data ai provvedimenti contenuti nella Finanziaria per favorire i prodotti italiani. L'insieme degli articoli però denota non solo approssimazione, ma anche una assenza di riferimenti europei in una materia, quella del mercato interno e delle importazioni, che è strettamente comunitaria.
L'approssimazione si registra già prima della sezione della Finanziaria dedicata al "made in Italy".
L'articolo 27 si assoggetta a tutela penale l'importazione e la commercializzazione dei prodotti contenenti indicazioni di provenienza false o fallaci. Punisce la fattispecie ai sensi dell'articolo 517 del codice penale. Questo articolo. 517 stabilisce sanzioni in caso di vendita di prodotti industriali con segni mendaci, atti a indurre in inganno il compratore circa l'origine, la provenienza e la qualità del prodotto. Esso fa riferimento alle indicazioni di provenienza dei prodotti, senza ulteriori specificazioni, e dovrebbe quindi riguardare l'importazione e la commercializzazione di ogni tipo di merce.
Invece il titolo dell'articolo 27 della legge finanziaria e la relazione governativa che accompagna il disegno di legge, fanno esplicito riferimento alla "denominazione d'origine", che solitamente si riferisce alla disciplina in materia di prodotti alimentari. Si tratta di una limitazione non giustificata in sé e in contrasto con gli orientamenti più recenti dell'Unione Europea.
La Commissione ha presentato, il 30 gennaio 2003, una proposta di direttiva relativa alle misure e alle procedure volte ad assicurare il rispetto della proprietà intellettuale. La relazione di accompagnamento alla proposta individua nella disparità dei regimi nazionali delle sanzioni un ostacolo notevole alla lotta alla contraffazione e alla pirateria. Obiettivo della proposta è quindi l'armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri finalizzate ad assicurare i diritti di proprietà intellettuale.
A tal fine la proposta mira ad imporre agli Stati membri, al fine di garantire il regolare funzionamento del mercato interno e la piena efficacia dell'acquis comunitario in materia di proprietà intellettuale, l'obbligo di prevedere sanzioni aventi carattere concreto, proporzionato e dissuasivo, tra cui sanzioni penali, qualora opportuno. In particolare, l'articolo 20 della proposta ("Disposizioni di diritto penale") stabilisce l'obbligo, da parte degli Stati membri, di qualificare penalmente ogni violazione grave di un diritto di proprietà intellettuale, commessa deliberatamente e a fini commerciali. La proposta specifica, inoltre, le sanzioni che dovranno prevedersi per le persone fisiche e giuridiche, comprese pene restrittive della libertà per le persone fisiche.
Gli stessi difetti si riscontrano negli articoli successivi.
Comincia l'articolo 32, con l'istituire un marchio a tutela delle merci integralmente prodotte sul territorio italiano e istituisce un fondo per una campagna a sostegno del made in Italy.
Se non è coordinata con la normativa europea, anche questa iniziativa - che pure condividiamo - rischia di essere un altro illusorio annuncio di un governo che non si è ancora abituato a "pensare europeo".
La materia è infatti disciplinata dal Reg. (CEE). 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario. All'articolo 23, definisce cosa si intende per merci interamente ottenute in un paese. Il successivo articolo 24 disciplina l'ipotesi in cui alla produzione di una merce abbiano contribuito due o più paesi. In tal caso la merce si considera originaria del paese in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un'impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione.
In sostanza il marchio made in Italy risulterebbe riservato: a quei prodotti per i quali la materia prima proviene dal territorio italiano e qui sia avvenuta l'eventuale trasformazione; a quei prodotti i quali, benché realizzati con materie prime o merci di altri paesi, abbiano ricevuto in Italia una trasformazione avente determinate caratteristiche, attinenti al rilievo economico e all'importanza nel processo di fabbricazione.
La strada scelta dal governo non sembra adeguata a rispondere alle esigenze vere dei produttori italiani, in particolare della piccola e media impresa.
L'articolo 34 istituisce il Comitato nazionale anti-contraffazione presso il Ministero delle attività produttive.
Il tema delle pratiche commerciali sleali ha costituito di recente oggetto di particolare interesse in ambito comunitario. Infatti, il 18 giugno 2003 è stata adottata dalla Commissione una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno (COM (2003)356). Con questa direttiva, la Commissione propone un regime di principi generali che vietano le pratiche commerciali sleali, lesive degli interessi economici dei consumatori e del reciproco riconoscimento delle norme nazionali relative al settore, integrati se necessario da una legislazione settoriale, con l'obiettivo di assicurare un elevato livello comune di tutela dei consumatori e di contribuire al buon funzionamento del mercato interno. Si tende, in sostanza, a sostituire le legislazioni e la giurisprudenza nazionali e a definire in dettaglio due categorie fondamentali di pratiche sleali: le ingannevoli e le aggressive. Si propone anche di stabilire il principio del controllo da parte del "paese di origine", di codificare la nozione di "consumatore medio" e di utilizzarla per valutare l'impatto delle pratiche commerciali in sostituzione delle diverse nozioni al momento esistenti.
La norma italiana dovrebbe tenere conto dell'impianto della proposta di direttiva.
L'articolo 35, al comma 1, demanda ad un decreto del ministro delle attività produttive, di concerto con i Ministri dell'economia e delle finanze e degli affari esteri, l'istituzione presso l'Ice, o presso gli uffici delle rappresentanze diplomatiche e consolari, di appositi uffici con compiti di consulenza e monitoraggio in materia di tutela del marchio made in Italy (previsto dall'art. 32 delle disegno di legge in esame). Tali uffici saranno chiamati anche a prestare assistenza legale alle imprese nella registrazione dei marchi e brevetti e nelle azioni contro la contraffazione e le concorrenza sleale.
Anche in questo caso sarebbe opportuno citare il brevetto comunitario, sottoposto alle disposizioni della Convenzione di Lussemburgo, nonché a quelle della Convenzione di Monaco, istituisce un ordinamento comune per gli Stati membri in materia di brevetti per invenzioni, ordinamento che si presenta del tutto autonomo rispetto alle legislazioni nazionali, e che introduce una situazione giuridica omogenea ed unitaria in materia di diritti di privativa sulle invenzioni.
Noi, europei d'Italia, ci meritiamo di più
I nostri produttori meritano molto di più di queste rassicurazioni per i l loro essere europei e per aver dimostrato di saper reggere la sfida anche senza le svalutazioni competitive della lira. I nostri giovani ricercatori meritano molto di più di uno sconto sulle tasse per aver investito per primi in conoscenza. I nostri lavoratori meritano molto di più di un taglio alle pensioni per aver accettato con Romano Prodi la non facile "conquista" dell'euro. Come sembra lontano quel tempo?
Certo anche la "tassa sull'Europa" era una una tantum. Ma è servita come anticipazione per "comprarci il futuro". Le una tantum di Berlusconi e Tremonti servono a pagare i danni dell'incompetenza.
14 ottobre2003
Intervento nella commissione Politiche dell'Unione europea. Nell'intervento sono utilizzate anche le schede dell'Ufficio Legislativo del Gruppo Margherita-L'Ulivo e dell'Ufficio Studi del Senato. Il testo è stato rivisto dopo l'intervento.