SICUREZZA E DIFESA

A cento anni dalla disfatta di Caporetto
Cambia la guerra dei fanti italiani:
ora combattono per le loro famiglie

Oggi il Piave che ci salverà non è un confine da difendere, ma uno spazio comune in cui convivere

di Tino Bedin

Stiamo percorrendo - noi italiani, noi europei - il Centenario della Grande Guerra. Arriveremo - noi italiani, noi veneti - alla terza battaglia del Piave, alla vittoria di Vittorio Veneto, all'armistizio di Villa Giusti a Padova. Arriveremo al 4 novembre 1918, quando le armi smisero di uccidere.
Ci arriveremo. Prima però dobbiamo fermarci a restituire tutto intero l'onore alle nostre Forze Armate, a ciascuno dei nostri soldati. Un onore che un secolo fa, giusto in questi giorni, fu messo in dubbio proprio da chi avrebbe dovuto rincuorarli e sostenerli.

Le bugie del generale Cadorna. La mattina del 29 ottobre 1917 i lettori più mattinieri trovarono in edicola la prima edizione del loro giornale con il consueto bollettino di guerra del 28 ottobre firmato dal comandante in capo, il maresciallo Luigi Cadorna. "La mancata resistenza di riparti della IIª Armata vilmente ritiratosi senza combattere, o ignominiosamente arresi al nemico, ha permesso alle forze austro germaniche di rompere la nostra ala sinistra sul fronte Giulia".
I quotidiani restarono in edicola pochissimo: furono infatti sequestrati per ordine del Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e sostituiti con una seconda edizione, in cui il bollettino di guerra era stato mitigato e la disfatta di Caporetto era spiegata con "la violenza dell'attacco e la deficiente resistenza di alcuni riparti…".
Ma ormai il danno era fatto. E non era solo un danno d'immagine: era l'annientamento morale di centinaia di migliaia di soldati la cui colpa - secondo il loro comandante - era di non essere morti, di essere riusciti a conservarsi per il futuro del loro esercito e della loro patria. Era, del resto, un'idea fissa del generale Cadorna. I soldati italiani, assai prima di Caporetto, non dovevano farsi catturare dal nemico: una volta prigionieri - unici tra tutti i loro commilitoni degli altri eserciti belligeranti - non avrebbero ricevuto nessun aiuto dal loro Paese. Dovevano patire la fame e il freddo per non aver preferito "l'onore della morte all'onta della resa". Dovevano servire da spauracchio per i soldati al fronte: a nessuno doveva venire in mente che la prigionia fosse preferibile agli orrori della guerra.
Inevitabile che il generale Cadorna pensasse che nei giorni di Caporetto i fanti non avessero combattuto "perché non hanno voluto combattere" e definisse "indegno" il comportamento delle sue truppe, "salvo pochissime eccezioni".

La resistenza durante la ritirata. Quel bollettino avrebbe dovuto piuttosto raccontare tanti episodi di resistenza anche disperata dei nostri fanti. I reggimenti italiani, durante la ritirata, si fermano a combattere almeno sei grandi battaglie, che i libri di storia non raccontano. I 280 mila prigionieri di quelle tre settimane dimostrano non la fuga dei nostri fanti, ma il loro fermarsi a combattere. Buona parte di quei prigionieri non avevano armi perché non le avevano mai avute: appartenevano infatti ai servizi. Fatti che invece vengono taciuti e irrisi dal Comando generale italiano, abbattendo ulteriormente il morale dei combattenti, per cui tutto può succedere: anche il tracollo finale e la resa dell'Italia. Per questo - ad un secolo esatto - mi pare doveroso dedicare questo Quattro Novembre alla battaglia di Caporetto e a quello che successe tra il 24 e il 27 ottobre 1917, quando gli austro-tedeschi aprirono un varco nel fronte italiano, e poi dal 27 ottobre al 9 novembre, quando il nostro esercito fu costretto ad evacuare un territorio molto vasto. Ci aiutano anche le grandi opere che hanno raccontato la nostra prima guerra mondiale: i libri di Curzio Malaparte, Emilio Lussu, Giuseppe Prezzolini, Carlo Emilio Gadda o i film come "Uomini contro" di Francesco Rosi e "Torneranno i prati" di Ermanno Olmi; tutti hanno al centro più Caporetto che il Piave, più la disfatta che la vittoria.

Ora bisogna difendere Venezia. È una disfatta, di sicuro. In meno di tre settimane l'esercito italiano conta 11 mila morti, 30 mila feriti, 280 mila prigionieri, 350 mila uomini abbandonati a se stessi e sbandati. Con gli uomini si perdono migliaia di cannoni, armi leggere di ogni tipo, veicoli militari, depositi di munizioni, di vettovaglie e di vestiario.
Il fronte arretra di circa 150 chilometri: ci si era messi in guerra per arrivare a Trento e Trieste, ora bisogna difendere Venezia. Circa 20 mila chilometri quadrati di territorio nazionale sono controllati dal nemico: da qui partono almeno 400 mila profughi civili costretti a lasciare le loro case.
Numeri che la propaganda non poteva nascondere. Numeri che segnalavano l'insufficienza dei Comandi militari, errori nel valutare la situazione reale, la mancanza di addestramento delle truppe alle nuove tecniche di guerra, complessivamente la scarsa professionalità anche nella catena di comando. La Commissione nazionale sui fatti di Caporetto ebbe modo di accertare proprio queste cause già tra il gennaio del 1918 e la primavera del 1919, a pochi mesi di distanza dalla tragedia.
Per questo qualcuno cercò di nascondersi dietro il presunto "tradimento" dei soldati italiani, facendo passare centinaia di migliaia di militari come un branco di rinnegati che avevano attuato lo sciopero militare, non combattendo o dandosi prigionieri.
Era una bugia, presto svelata.
A farlo per primi, immediatamente, furono proprio i vincitori di quella battaglia. Il 30 ottobre aerei austro-tedeschi fecero piovere sulle colonne italiane in ritirata e su alcune città del Nordest un volantino, in cui smentivano la versione di Cadorna: "Italiani, il comunicato del 28 ottobre del gen. Cadorna vi avrà aperto gli occhi sull'enorme catastrofe che ha colpito il vostro esercito. In questo momento così grave per la vostra nazione, il vostro generalissimo ricorre ad uno strano espediente per scusare lo sfacelo. Egli ha l'audacia di accusare il vostro esercito… Questa è la ricompensa al vostro valore".
Certo anche questa era propaganda. Era un bombardamento psicologico per spingere militari e civili a considerare impossibile la continuazione del conflitto.
Ancora più onore dunque ai nostri combattenti, che non si arresero, non si sottrassero al loro dovere, tanto da riuscire a fermare l'avanzata austro-tedesca sul Piave e da qui ripartire, dando prova di una imprevedibile capacità di reazione.

Il ruolo del re Vittorio Emanuele III.I militari italiani non si trovano da soli sulla linea del Piave. In meno di dieci giorni affluiscono sul nuovo fronte anche sei divisioni francesi e cinque divisioni inglesi. Si può passare dalla resistenza alla riorganizzazione per preparare la rivincita.
Francesi e inglesi arrivano perché i loro comandanti sono stati convinti dal nostro re Vittorio Emanuele III, che ha voluto incontrarli di persona a Peschiera mentre era ancora in corso la ritirata italiana. Lì il re ha difeso i soldati italiani dall'accusa di tradimento, ha ammesso la responsabilità dello Stato Maggiore e la sera stessa di quell'incontro, l'8 novembre, sostituisce Luigi Cadorna con Armando Diaz. Dieci giorni prima era stato nominato un nuovo capo del governo: Vittorio Emanuele Orlando aveva preso il posto di Paolo Boselli.
Il re insomma aveva tratto tutte le conseguenze dalla disfatta militare di Caporetto.
Non aveva tirato in ballo né il "disfattismo clericale" né il "sabotaggio socialista". Potevano essere facili e utili argomenti in quel 1917. Il 1º agosto Papa Benedetto 16 aveva inviato una lettera ai Capi delle nazioni belligeranti, invocando la fine di "questa lotta tremenda, la quale, ogni giorno di più, apparisce inutile strage".
In Russia era stato rovesciato lo Zar e qualcuno poteva avere interesse di rappresentare la disfatta di Caporetto come una specie di Russia in Italia.
Le decisioni e le convinzioni del re Vittorio Emanuele III vanno citate in questo centenario a bilanciare le decisioni e le convinzioni del generale Cadorna. Allora e oggi contribuiscono - assieme al patriottismo dei nostri fanti - a dire che Caporetto non è la sintesi della Grande Guerra italiana, nella quale non ci sono solo crisi, sconfitte, rese.

Nasce il sentimento nazionale. "Le sconfitte diventano disfatte se non costruisci le possibilità per ripartire. A Caporetto è nato l'orgoglio nazionale", ha potuto dire dieci giorni fa il ministro della Difesa Roberta Pinotti, intervenendo alla presentazione di un nuovo libro su quell'evento, che ha per titolo "A Caporetto abbiamo vinto".
Il titolo non è la tesi del libro, che è invero un interessante "documentario"; è però un invito a non considerare Caporetto solo come la disfatta o addirittura come il simbolo del modo di comportarci di noi italiani. Non è neppure un titolo proprio nuovo, visto che nel 1921 Curzio Malaparte pubblicò un suo saggio sull'evento con il titolo "Viva Caporetto!" (cambiato poi in "La rivolta dei santi maledetti"), in cui racconta la stanchezza di una guerra che ormai appariva insensata.
La ritirata di Caporetto aveva certamente alimentato in molti la sfiducia, nell'attesa di un'ulteriore sconfitta e della resa. Non ci furono né l'una né l'altra. La riorganizzazione della guida politica e militare fu decisiva, anche perché si tradusse nella dovuta considerazione dei combattenti: migliore igiene, alimentazione più adeguata, costante assistenza sanitaria. Questa riorganizzazione non sarebbe però bastata se la sconfitta non avesse rafforzato il sentimento nazionale ed il conseguente spirito di resistenza.
Molti fanti sentono proprio in questo momento nascere il sentimento nazionale. Lo si capisce subito. Siamo ancora nel novembre 1917: il 16 di quel mese a Fagarè, ad una ventina di chilometri da Treviso, la prima delle battaglie del Piave si conclude con la vittoria italiana. Ne sono protagonisti i Ragazzi del '99 e i fanti della Terza Armata, che si sono ritirati dal Carso e che nella ritirata sono stati testimoni, spesso senza poter intervenire, di umiliazioni, atrocità, angherie da parte di un esercito affamato che scorrazzava in cerca di pane e non si accontentava quasi mai del pane.
Ora i nostri soldati non stanno più facendo la guerra di "lor signori"; ora combattono per salvare le loro famiglie, per tornare nella loro terra, per avere una patria. I profughi infatti continuano a raccontare di violenze contro i civili, di occupazione dura, dello stupro di un'intera regione: il Friuli.
Dopo Caporetto gli italiani si ritrovarono una nazione, sentirono che avevano una patria e che la patria era in pericolo.

Le eredità di Caporetto. A cento anni di distanza, restituendo l'onore tolto ai nostri fanti, abbiamo la possibilità di ereditare da loro la speranza con cui hanno continuato a combattere sul Piave: la speranza che si possa risalire per quanto in basso si sia caduti; la fiducia che il calvario e la morte non sono l'unico destino.
Conoscendo davvero quello che è successo tra il 24 ottobre e il 9 novembre del 1917, Caporetto non sarà più solo il nome con cui da un secolo chiamiamo ogni nostra disfatta, collettiva o personale. Come i francesi utilizzato la parola Waterloo.
Di Caporetto ufficialmente non c'è oggi neppure il nome. Ora quel paese di quattromila abitanti si chiama Kobarid ed è in Slovenia. Gli abitanti però hanno allestito e curano con passione un museo della Grande Guerra e quindi anche di Caporetto, nel quale si respira aria europea e i ricordi non suscitano divisioni ma bisogno di unità; bisogno di Europa.
Anche Papa Francesco ha legato insieme Caporetto e l'Europa, la scorsa settimana nel suo discorso alla Conferenza "(Re)Thinking Europe" che si è svolta a Roma.
"Cent'anni fa, proprio in questi giorni, iniziava la battaglia di Caporetto, una delle più drammatiche della Grande Guerra. Essa fu l'apice di una guerra di logoramento, quale fu il primo conflitto mondiale, che ebbe il triste primato di mietere innumerevoli vittime a fronte di risibili conquiste. Da quell'evento impariamo che se ci si trincera dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere. Non è dunque questo il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un'Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace".

Il traguardo dei cento anni di pace. Di questo destino condiviso hanno fatto parte e faranno sempre parte le nostre Forze Armate, di cui oggi celebriamo la Giornata.
Se nel centenario della dura sconfitta di Caporetto il comportamento dei nostri fanti ci consente di guardare alla nostra storia con dignità e fierezza, oggi l'attività delle nostre Forze Armate ci consente di guardare al nostro futuro con fiducia. Sono Forze Armate addestrate e preparate, che operano in missioni europee, in missioni dell'Alleanza Atlantica e in missioni delle Nazioni Unite, con la consapevolezza che il Piave che oggi ci salverà non è un confine da difendere, ma uno spazio comune in cui convivere.
La prossima sfida è vicina: al Consiglio europeo di metà dicembre verrà presentata la proposta elaborata da quattro ministri della Difesa, tutte e quattro donne, di Italia, Francia, Germania e Spagna per dare vita alla Difesa comune europea.
Se ciò si avvierà sarà davvero un modo positivo per concludere nel 2018 il centenario della Grande Guerra europea, dichiarando a noi e alle generazioni future che vogliamo continuare a camminare sulla strada della pace fino a consegnare ai giovani di oggi il mandato di arrivare al primo centenario di pace in Europa.

4 novembre 2017


8 novembre 2017
sd-169
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Tino Bedin