Si possono cancellare le guerre?
La presenza di molti con le istituzioni davanti ai monumenti e alle lapidi ai caduti, la partecipazione alle messe di suffragio per i morti di tutte le guerre contengono già la risposta: no, i caduti in guerra non si cancellano; le vite mutilate nel corpo o negli affetti diventano immortali; le macerie di case e di interi paesi si stratificano e pesano sulla storia nazionale e sulla cronaca familiare.
Pesano anche dopo che quelle pietre sconquassate dalle granate di cannone o dalle bombe d'aereo sono tornate ad essere case e paesi.
Paesi nei quali sono stati piantati i monumenti ai caduti. Non c'è comune, non c'è parrocchia che non abbia una lista di morti incisa nel marmo: è come l'indice comunitario di un'antologia di storie che ogni famiglia si è trovata a raccontare e a tramandare.
Le prime storie datano da un secolo. Ed è per rileggere in particolare quelle prime liste di nomi che ci siamo appuntamento nell'anniversario dell'armistizio del 4 Novembre 1918 a celebrare la Festa dell'Unità nazionale e la Giornata delle Forze Armate. Altre liste di militari caduti e di civili morti si sono aggiunte poi sugli stessi o su altri monumenti, ma è un secolo fa che l'Italia ha cambiato la sua storia, e non è stata solo l'Italia a cambiare.
Il fronte ha attraversato i paesi e le famiglie. Per noi, quella di un secolo fa, è stata la Grande Guerra, per la storia è la Prima Guerra Mondiale, perché ha convolto tutti i continenti.
È stata proprio Grande, quella guerra, e non solo per la sua dimensione geografica; oltre che Mondiale è stata la prima Guerra Totale.
Una totalità che ha riguardato innanzi tutto i combattenti italiani. I nostri soldati, in maggioranza contadini, provenivano da storie e regioni diverse. Molti di loro, probabilmente, non riuscirono mai a comprendere le motivazioni di quella guerra, ma si trovarono dentro un unico destino e divennero per la prima volto popolo e nazione. Divennero l'Italia, fino ad allora vissuta dalla stragrande maggioranza dei suoi abitanti come un'idea degli intellettuali e dei borghesi.
La Guerra Totale non ha coinvolto solo i militari, ma tutta la popolazione; ed è stata un'altra terribile novità. Il fronte ha attraversato i paesi, le comunità, le famiglie. In prima linea sono finite milioni di persone: i profughi in fuga dalla loro terre occupate da eserciti nemici; gli internati trasportati lontano dalle zone del fronte come è successo a decine di migliaia di veneti, friulani e trentini deportati in Galizia a combattere contro i russi; le popolazioni sterminate nel primo genocidio della storia subito dagli armeni; le donne stuprate dai soldati nelle terre occupate; i bambini cresciuti malati e storpi a causa della fame e della malnutrizione.
Nella Guerra Totale anche la morte e la paura si sono amplificate: prima venivano da terra e dal mare, da allora - ed era la prima volta nella storia umana - sono piombate anche dal cielo. Solo Padova - ad esempio - in quella guerra ha patito 19 bombardamenti nell'ambito di 97 incursioni aeree. Del primo bombardamento è caduto quest'anno il centenario, essendo avvenuto il 9 aprile 1916; l'ultimo, nella notte del 25 agosto 1918, ha portato distruzioni nei luoghi simbolo della città: la cattedrale, la basilica del Carmine, il municipio, il sagrato del Santo, il teatro Verdi.
Noi europei siamo qui per non perdere la memoria. Sono passate quattro generazioni da allora; cento anni. E oggi noi - come altri italiani e altri europei in molti luoghi d'Europa - torniamo davanti ai monumenti ai caduti.
A festeggiare la fine di una guerra ormai lontana e sopraffatta da altre guerre, una di queste ancora più terribile?
A celebrare una vittoria militare e una conquista territoriale ridimensionate dalla storia nazionale ed internazionale successiva?
Celebriamo questo, ma sarebbe troppo poco ormai, anche per le famiglie che hanno pianto qualcuno dei milioni di morti su tutti i fronti.
Noi veneti, noi italiani, noi europei siamo qui per non perdere la memoria, per non abituarci alla pace, per stare in guardia dalla guerra.
È già nata e sta ormai crescendo la terza generazione di europei che non sa cosa voglia dire una guerra di grandi dimensioni.
Invece che garanzia di solidità per una condizione così straordinaria nella storia dell'umanità, questo lungo tempo di pace può essere un rischio. Ciò di cui non si ha esperienza non fa paura. Altre paure incombono o aleggiano oggi sulle nostre comunità, perché ci si preoccupi della guerra.
Era così anche un secolo fa. Anche allora - nella primavera del 2014, quando la guerra iniziò - gli europei dovevano risalire al secolo precedente per ritrovarsi in una guerra continentale. In mezzo c'erano stati conflitti anche violenti, ma erano limitati geograficamente e brevi nel tempo. Nessuno immaginava che un continente di nazioni civilizzate e fiorenti si sarebbe inabissato in un'autodistruzione così inarrestabile, così folle che non bastò la catastrofe della Grande Guerra a interromperla, ma ci volle la tragedia planetaria della Seconda Guerra Mondiale per fermarla.
Allora il mondo si fermò perché era arrivato sull'orlo dell'olocausto nucleare. Ci girò pericolosamente intorno con Guerra Fredda, stando però ben attento a non cadervi.
Gli europei hanno fatto di più. Hanno cominciato a limitare, circoscrivere, eliminare le ragioni che avevano generato la guerra. Ciò per cui avevano combattuto: le risorse strategiche, l'influenza economica, il lavoro, le frontiere sono diventate un po' alla volta patrimonio di tutti i cittadini europei. Questa è l'Unione Europea. E l'Europa non funziona quando quelle cose non sono considerate di tutti.
Rispuntano allora le frontiere, con tutto quello che una frontiera racchiude di pericoloso, perché il tempo delle frontiere è stato il tempo di cui in 4 Novembre commemoriamo le conseguenze tragiche.
L'Unità nazionale nella cittadinanza. Protagoniste di questa commemorazione sono le istituzioni repubblicane e le associazioni combattentistiche.
Le istituzioni sono soprattutto i sindaci. Comincia nel Comune quell'Unità nazionale sulla quale oggi siamo invitati a riflettere per consolidarla. L'unità territoriale, compiuta per l'Italia a conclusione della Grande Guerra, si è infatti via via arricchita di una unità di cittadinanza che non ha invece avuto bisogno della guerra per compiersi. È anche questa unità di cittadinanza che in particolare nella Festa di quest'anno vogliamo celebrare, ricordando un altro anniversario: sono infatti passati settant'anni dal primo voto politico esercitato dalle donne italiane. Il 2 giugno 1946 con la partecipazione femminile al referendum su repubblica o monarchia è la data della piena unificazione della cittadinanza in Italia.
Si è conclusa in questa settimana la vita terrena di Tina Anselmi, protagonista prima della Guerra di Liberazione in Veneto e poi della Repubblica. Mi pare giusto ricordarla anche in questa festa nazionale, citando un suo commento di quel primo voto delle donne: "Le italiane, fin dalle prime elezioni, parteciparono in numero maggiore degli uomini, spazzando via le tante paure di chi temeva che fosse rischioso dare a noi il diritto di voto perché non eravamo sufficientemente emancipate. Non eravamo pronte. Il tempo delle donne è stato sempre un enigma per gli uomini. E tuttora vedo con dispiacere che per noi gli esami non sono ancora finiti. Come se essere maschio fosse un lasciapassare per la consapevolezza democratica!".
Quell'Unità anche di genere della nostra cittadinanza nazionale si è sempre più consolidata. "Tuttavia l'unità nazionale, e la stessa democrazia, sono beni tanto preziosi quanto deperibili", ha fatto notare qualche mese fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, così spiegando: "L'unità del Paese esige che le fratture sociali provocate dalla crisi economica siano ricomposte, o quantomeno medicate, con azioni positive. Il diritto al lavoro è la priorità delle priorità se vogliamo rispettare l'impronta personalista della nostra Costituzione, e cioè il riconoscimento dei diritti della persona come valore che preesiste e sostiene l'ordinamento stesso. Questo è un impegno che deve unire l'Italia".
Le Forze armate ancora avanguardia di unità. Assieme ai Comuni, sono protagoniste del 4 Novembre le Associazioni combattentistiche: protagoniste per la storia che tramandano con i loro labari e le loro medaglie al valore; protagoniste per il presente che impersonano.
La loro storia è quella della Grande Guerra. E in questa circostanza vogliamo ricordare in particolare proprio il 1916, con la battaglia degli Altipiani nel nostro Veneto.
La loro storia è anche quella della Seconda Guerra mondiale, nella quale il ruolo delle Forze Armate è stato decisivo con la scelta della stragrande maggioranza dei militari italiani di restare fedeli al loro giuramento, pagandone conseguenze terribili, con centinaia di migliaia di militari internati nei campi di concentramento tedeschi.
Il loro presente è l'attuale realtà delle Forze Armate italiane, per le quali la fedeltà alla Patria si esprime nel sostegno alla stabilità e alla sicurezza internazionali, condizioni per evitare che mai più la violenza sia utilizzata "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali", come prescrive la nostra Costituzione e come invece non accadde in Europa tra il 1914 e il 1918, quando gli Stati affidarono alla guerra la via d'uscita dalle loro controversie.
Dentro quella guerra - come ho ricordato - i soldati-contadini veneti si mescolarono ai commilitoni sardi e toscani, abruzzesi e napoletani, pugliesi e marchigiani, fino a sentirsi soldati italiani; fino a diventare avanguardie dell'Unità nazionale che in questa festa onoriamo.
Oggi i militari italiani portano il tricolore sotto le bandiere dell'Alleanza Atlantica, delle Nazioni Uniti, dell'Europa. Qui si mescolano con colleghi dei cinque continenti assieme ai quali sono impegnati ad evitare che le tensioni internazionali di oggi possano degenerare in conflitti.
Lavorando per la pace, i militari italiani ancora una volta diventano avanguardia di una Unità grande come il pianeta, di una unità tra tutti gli uomini, consapevoli - loro e noi - che non ci può essere pace per alcuni e fame, guerre, ingiustizia per altri. La guerra finirebbe per essere di nuovo globale, come stiamo sperimentando con il terrorismo che colpisce anche l'Europa, che rende insicure le nostre città e sospettosa la nostra giornata. E le migrazioni prodotte dalla miseria e dalle ingiustizie, invece di essere una risorsa reciproca, rischiano di essere tragedie per tutti; anche questo stiamo sperimentando.
Le nostre Forze Armate, che oggi celebriamo, sono attestate su questo fronte nuovo e decisivo.
È un fronte sul quale i soldati italiani confermano ogni giorno il loro valore, il loro coraggio, la loro professionalità, che alimentano anche di altruismo e generosità.
È un fronte sul quale - grazie ai suoi militari - l'Italia ha prestigio ed autorevolezza, come confermano le posizioni di comando di missioni internazionali affidate ad ufficiali italiani: in Libano, in Kosovo, in Somalia, nell'Oceano indiano occidentale e nel Mediterraneo centrale.
È un fronte sul quale l'Italia si distingue per il suo impegno a costruire più che a distruggere. Esemplare e attuale proprio in questi giorni è la presenza di seicento bersaglieri italiani a protezione della diga di Mosul, per prevenire una possibile catastrofe umanitaria e per consentire ad altri italiani - questa volte tecnici civili - di preparare il futuro di pace di un'ampia parte dell'Iraq.
È un fronte sul quale le nostre Forze Armate e l'Italia attraverso di loro ha pagato nel corso degli anni un prezzo altissimo in vite umane, al punto che il Parlamento ha sentito il dovere di istituire la "Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali di pace", accomunando in una stessa memoria ogni sacrificio italiano per il consolidamento della pace nel mondo.
La celebreremo sabato prossimo 12 novembre, anniversario della strage di Nassiriya, nella quale nel 2003 perirono 19 nostri connazionali, ma il 4 Novembre vogliamo accomunare questi militari a tutti i soldati italiani caduti in servizio, da quelli della Grande Guerra a quelli del successivo conflitto mondiale, in un unico riconoscimento, in un unico ringraziamento.
4 novembre 2016