SICUREZZA E DIFESA

Non era questa la globalizzazione che ci era stata promessa
Dalla Terza Guerra Mondiale a pezzi
non si esce con la guerra

Nei nostri telegiornali la guerra scoppia solo ogni tanto: per questo le opinioni pubbliche non ne avvertono la dimensione e la continuità

di Tino Bedin

Ci sono i caduti e i morti, gli irredentisti e i patrioti, le vedove e le ragazze violentate, le distruzioni e i profughi, il terrore immediato e l'insicurezza senza fine; ci sono i bambini che non diventeranno mai grandi e i bambini diventati subito troppo grandi; c'è chi fa molti soldi e chi perde tutto. C'è la guerra. Ed è dovunque sul pianeta.
Il mondo ci è dentro da quindici anni, ma solo da poco ha cominciato a chiamarla con il suo nome. C'è voluto Papa Francesco, "venuto dalla fine del mondo", perché cominciasse a farsi strada questa consapevolezza. Di ritorno dal viaggio apostolico in Corea del Sud il 18 agosto di due anni fa il Papa ha osservato: «Oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto!... Siamo nella Terza Guerra Mondiale, ma "a pezzi". (…) È un mondo in guerra, dove si compiono queste crudeltà…. Oggi i bambini non contano! (...) Oggi arriva la bomba e ti ammazza l'innocente con il colpevole, il bambino, con la donna, con la mamma… ammazzano tutti. Ma noi dobbiamo fermarci e pensare un po' al livello di crudeltà al quale siamo arrivati. Questo ci deve spaventare!».

Urla di bambini nel brusio dell'informazione. Nei nostri telegiornali la guerra scoppia solo ogni tanto. Per questo le opinioni pubbliche non ne avvertono la dimensione e la continuità.
Fa rumore il "pezzo" che ci colpisce da vicino o direttamente. Italiani partiti per una crociera sono tornati in Italia come vittime di guerra al museo di Tunisi. Altri italiani sono caduti vittime di questa guerra a pezzi in Bangladesh, dove erano per lavoro. Nostro vicino era padre Jacques Habel, caduto a Rouen in Francia sull'altare dove stava celebrando la messa. Dopo la sua morte Papa Francesco ha detto: "Lui è uno, ma quanti cristiani, quanti innocenti, quanti bambini".
Fanno rumore i bambini. Abbiamo potuto vedere l'orrore della guerra di Aleppo attraverso gli occhi di Omran Daqneesh, il bambino impolverato e insanguinato, seduto sotto choc in un'ambulanza. Abbiamo misurato la spietatezza della guerra nella scelta di un papà che ha regalato al figlio dodicenne la maglietta del Barcellona con il numero 10 di Messi e gliel'ha fatta indossare per coprire una cintura esplosiva con cui uccidere e morire.
Poi questi rumori si confondono nel brusio quotidiano dell'informazione, come era successo un anno prima ad Aylan Kurdi, il bambino profugo per mare che sembrava dormire su una spiaggia dove l'aveva adagiato la morte.

Mandiamo bombe, ci tornano profughi. Anche il piccolo Aylan è un "effetto collaterale" della terza guerra mondiale a pezzetti che è tra noi coi i nostri morti, con le nostre paure, con i rifugiati e i profughi che scappano da dove il rumore della guerra non si spegne mai.
Uno di questi posti è lo Yemen. È pezzo della terza guerra mondiale apparentemente dimenticato. L'informazione non ne riferisce se non sporadicamente. Intanto in questo Paese, centrale per il controllo del Golfo di Aden e, dunque, per i flussi di migranti verso il Corno d'Africa, è in atto "una catastrofe umanitaria senza precedenti", ha avvertito qualche mese fa Stephen O'Brien, vice segretario per gli affari umanitari delle Nazioni Unite. E mentre lo diceva aveva presente la tragica contabilità che gli tocca tenere: oltre seimila morti, due milioni e mezzo di sfollati, abusi, crimini di guerra, ospedali, scuole, fabbriche e campi profughi bombardati; e aveva presenti i bambini: oltre mille uccisi nei raid aerei e oltre 740 morti nei combattimenti.
Logico che chi può cerchi di andarsene.
Proprio nelle settimane della denuncia di Stephen O'Brien, mescolati ad altri migranti, sono arrivati sulle coste della Sicilia i primi profughi di guerra yemeniti. Altri se ne sono aggiunti e ormai sono quasi un'ottantina quelli arrivati ed accolti in Italia per chiedere asilo politico. Anche questo pezzo apparentemente dimenticato di guerra sta dunque in mezzo a noi e diventa mondiale.
In Italia però c'è chi si è accorto da tempo della guerra in Yemen. I profughi di guerra yemeniti hanno visto morire persone e distruggere paesi con bombe arrivate dalla Sardegna, da Domusnovas, il paese dove la società tedesca Rwm ha una fabbrica di MK83, bombe da 460 chili. A sganciare queste bombe senza sottilizzare sui bersagli sono i sauditi con i cacciabombardieri Eurofighters Typhoon, costruiti da un consorzio internazionale di cui fanno parte Italia, Gran Bretagna, Germania e Spagna. L'aviazione dell'Arabia Saudita, impegnata nella guerra in Yemen, ne ha acquistati 72; il consorzio li consegna due alla volta mano a mano che escono dalle linee di produzione e il transito per la consegna passa anche per l'Italia, in particolare dall'aeroporto di Bologna. Dunque lo Yemen è un fronte della terza guerra mondiale tutt'altro che dimenticato, almeno per qualcuno in Italia.

La spartizione territoriale come in tutte le guerre. «La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà… "A me che importa?" (…) Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un'altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta "a pezzi", con crimini, massacri, distruzioni. (…) Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, e c'è l'industria delle armi, che sembra essere tanto importante! E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: "A me che importa?"». All'inizio delle commemorazioni della prima guerra mondiale, Papa Francesco nel settembre del 2014, è stato al sacrario militare di Redipuglia, per pregare e anche per avvertirci che dalla guerra c'è chi ci guadagna.
Per questo aspetto, i guadagni dei fabbricanti d'armi, quella in corso è una guerra assai tradizionale. Lo è anche per la sua componente "territoriale", cioè per la spartizione di territori e di aree di influenza che ritroviamo pure tra le cause della prima e della seconda guerra mondiale.
Si tratta di una componente che l'opinione pubblica occidentale non è aiutata a cogliere immediatamente, sia perché nelle azioni offensive fa più notizia un attentato che un bombardamento aereo, sia perché ufficialmente non ci sono Stati contro Stati: questi ultimi si mimetizzano giuridicamente dietro formazioni militari non convenzionali o dietro gli "inviti" di un governo in difficoltà. Ma gli Stati ci sono tutti: quelli a dimensione globale come gli Stati Uniti e quelli a dimensione regionale come la Turchia. Lo stesso "nemico pubblico numero 1", l'Isis, si è dato il nome di "Stato islamico" ed ha fin dall'inizio alternato terrorismo e metodi di combattimento finalizzati al controllo del territorio prima tra Siria e Iraq, poi in Libia.
Yemen, Siria, Iraq, Libia (i territori che ho finora citati) fanno parte dell'elenco degli "Stati falliti", incapaci di controllare il territorio e quindi di erogare servizi ai cittadini e garantire loro sicurezza. Questo ha stimolato l'appetito territoriale di tribù, clan, gruppi paramilitari, ma anche di Stati vicini.
Da questo legame con singoli territori origina una delle caratteristiche della "grande guerra" in corso: lo "spezzettamento".

Dalla Rete nata per collegare sono ricresciuti i fili spinati. A caratterizzarla come "mondiale" è invece la sua geografia planetaria: dalla Siria all'Africa Sub-Sahariana, dall'Indonesia al Centro America, dall'Afghanistan alla Libia, dagli Stati Uniti alla Russia, dal Canada all'Australia, dall'Europa all'India i cimiteri si riempiono di tombe e le città di macerie e di paure. È recente la decisione della Germania di dotarsi di un nuovo piano nazionale di difesa civile, che - ad esempio- richiede ad ogni famiglia di avere una scorta di cibo ed acqua; per la sopravvivenza di una persona per due settimane in caso di emergenza sono previsti: 28 litri di acqua, 4,9 chili di pane, pasta, riso e patate; 5,6 chili di verdure e legumi (possibilmente precotti); 3,6 chili di frutta secca.
Ad unificare poi questo scenario planetario di guerra c'è Internet, sia come strumento di comunicazione e propaganda, sia come strumento bellico vero e proprio. Il danneggiamento e la manipolazione dei servizi informatici possono colpire in maniera anche letale ogni singolo attore della guerra, sia esso uno Stato o un gruppo o singole persone. Dalla Rete nata per collegare sono ricresciuti i fili spinati.
Anche questo tipo di guerra mondiale è già in corso e attualmente colpisce prevalentemente in Europa con l'arruolamento attraverso la Rete di giovani che nel terrorismo cercano spesso risposte alla personale frustrazione o alla esclusione politica del gruppo al quale appartengono, fino ad inserire in questa guerra mondiale a pezzetti anche una componente di lotta generazionale, che riguarda proprio le famiglie musulmane ormai stabilizzate in Europa. Figli o nipoti cresciuti senza una identità sentono lontani e colpevoli i loro padri musulmani, che pure sono stati capaci di avere successo rispetto alle proprie aspettative.

Il pretesto della guerra di religione. Questo scontro generazionale prima ancora che culturale (e quasi mai religioso) viene utilizzato per portare una "guerra di religione" in Europa. È ciò che fanno intendere i capi del terrorismo islamista, che indicano questo scopo ai giovani qui nati e cresciuti che reclutano attraverso la Rete, ma non è questo il loro obiettivo: attraverso la "guerra di religione" i capi del terrorismo mirano ad accrescere influenza e potere nelle loro regioni e tra le loro popolazioni. Seguono anche in questo caso le "regole" della guerra tradizionale: si accaniscono su un nemico esterno per rafforzarsi internamente.
Insomma questa terza mondiale a pezzi è tutto tranne che una guerra di religione, come alcuni degli attori hanno avuto ed hanno interesse a far credere e a rappresentare tragicamente con la scelta degli obiettivi da colpire.
Papa Francesco non lascia passare occasione per richiamarci alla realtà: «Una sola parola vorrei dire per chiarire. Quando io parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerra di religione, no. C'è guerra di interessi, c'è guerra per i soldi, c'è guerra per le risorse della natura, c'è guerra per il dominio dei popoli: questa è la guerra. (…) Tutte le religioni vogliamo la pace. La guerra, la vogliono gli altri» (27 luglio 2016, in aereo per la Polonia).
Per parte sua Papa Francesco continua a creare occasioni per dimostrare che le religioni costruiscono la pace. L'elenco delle occasioni è lungo e ciascuna è carica di significati. Ne scelgo una ed a conclusione del Giubileo della Misericordia suggerisco di andare con la memoria al suo inizio.
Una settimana prima rispetto alla Basilica di San Pietro a Roma, Papa Francesco ha aperto la prima Porta santa nella cattedrale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana: qui dal 2013 c'è uno dei fronti della guerra mondiale a pezzi, con una guerra civile nella quale si sono inseriti a vario titolo anche altri attori, sia di stabilizzazione (come i militari francesi con la missione Sangaris), sia di terrorismo (come Boko Haram, che da anni spadroneggia nel nord-est della Nigeria). E così la gente scappa verso il Ciad e il Camerun: e da qui c'è chi - non avendo più nulla alle spalle - risale verso il Mediterraneo. E finiremo per incontrarli, da noi, in Europa.

L'errore nato da un'utopia. Se una bomba esplode nel centro dell'Africa una scheggia ribalza nelle nostre città.
Non era questa la globalizzazione che ci era stata promessa per il secondo millennio del nostro tempo. C'era un nuovo ordine mondiale che sembrava consolidarsi con la fine della Guerra fredda, con l'affermazione dell'Europa come continente di pace, con la riduzione della fame in vaste aree del pianeta, sia ad Oriente sia ad Occidente. L'interdipendenza di popoli e di nazioni, alimentata da commerci crescenti e dal lavoro degli immigrati, pareva portare ad un tempo e ad un mondo in cui i conflitti sarebbero stati limitati e controllabili.
Era un'utopia. È stata un'illusione, che ha generato un tragico errore: rispondere agli attentati dell'11 settembre 2001 con la guerra, cioè con la presunzione che fossero, appunto, limitati e controllabili. Dopo 15 anni quella guerra non è ancora vinta, perché dalla terza guerra mondiale a pezzi non usciremo partecipando alla guerra. Potremmo provare ad uscirne attraverso una delle Porte sante della Misericordia.

11 settembre 2016


21 setteembre 2016
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Tino Bedin