Il semestrale decreto legge sulle missioni militari internazionali dell'Italia è arrivato alla Commissione Difesa del Senato dopo l'esame da parte della Camera. In discussione generale sul decreto ha parlato a none del gruppo Margherita-L'Ulivo il senatore Tino Bedin, di cui riportiamo l'intervento.
di Tino Bedin capogruppo Margherita in Commissione Difesa
In passato le Camere erano investite dell'esame di un solo decreto legge di proroga di tutte le missioni militari internazionali. Apprezziamo quindi la scelta del Governo di provvedere in questa occasione con due distinti decreti. È infatti necessario trattare separatamente la missione in Iraq per la sua origine e per la sua natura.
Rispetto alla precedente occasione in cui abbiamo discusso sulle missioni internazionali, c'è anche la novità della missione in Sudan, il cui avvio è stato preceduto da un dibattito parlamentare conclusosi con l'approvazione di un atto di indirizzo. Si tratta di una procedura importante, che assegna al Parlamento un ruolo utile nella definizione degli obiettivi politici delle missioni internazionali.
Pur nella loro complessiva diversità politica e strategica rispetto alla missione Antica Babilonia in Iraq, anche le altre missioni internazionali però risultano tra loro profondamente disomogenee. Alcune missioni, infatti, sono finalizzate al controllo della pacificazione di determinati territori, altre, invece, sono di natura prevalentemente militare.
Ad esempio, sulla complessa realtà dell'Afghanistan, ribadisco anche in questa occasione la netta distinzione di valutazione tra le operazioni Enduring Freedom e ISAF, quest'ultima dal 4 luglio scorso sotto il comando italiano. Noto poi che il contesto della regione è in via di complicazione, soprattutto dopo le recenti elezioni presidenziali in Iran. La natura delle missioni dipende infatti non solo dagli indirizzi nazionali e dalle regole di ingaggio ma soprattutto dal contesto in cui le missioni stesse si svolgono.
Motivare l'impegno dei militari. La situazione in Afghanistan è la dimostrazione che il pur importante passo in avanti fatto con lo sdoppiamento dei decreti legge (dopo le reiterate richieste fatte dall'Unione sia al Senato che alla Camera) deve essere perfezionato con atti parlamentari che consentano al Parlamento di definire un indirizzo a ciascuna missione, per chiarire in che termini sia previsto l'impiego dei militari italiani e la dipendenza di tale decisione dall'interesse strategico che riveste per l'Italia ciascuna area di impegno. Una simile procedura risulterà essenziale per colmare una lacuna che il governo ripete anche in questo decreto: per tutte le missioni oggetto di proroga manca l'indicazione della strategia di uscita, anche se molte missioni si stanno protraendo da numerosi anni.
Un confronto missione per missione è tanto più necessario ed urgente visto che il tempo dei lavori parlamentari dedicato all'esame dei provvedimenti di proroga della partecipazione a missioni internazionali è estremamente ridotto rispetto all'importanza che tali provvedimenti rivestono. La condizione attuale, imposta dalla maggioranza, è più simile ad un adempimento di tipo amministrativo.
L'impegno di persone e di risorse deve necessariamente prevedere una finalità da raggiungere, e con tempi ragionevolmente certi. Altrimenti, ci troveremmo nella condizione di svolgere un'opera sicuramente meritoria, ma con un automatismo di scarsa qualità: ci siamo e ci restiamo, ma non è facile comprendere per fare cosa, in che tempi, in che modi e con quali risultati.
Per sua natura, il decreto legge n. 111 del 28 giugno 2005, che stiamo per convertire in legge, non indica un solo indirizzo politico su che cosa i nostri diplomatici e politici stiano facendo, sul modo in cui lo stanno facendo e fino a quando dovranno farlo. Questo non consente né al Parlamento né ai cittadini di valutare compiutamente i reali presupposti delle missioni e di apprezzare compiutamente iniziative che consentano un effettivo contributo alla pacificazione di regioni in crisi, come nel caso del Darfur. Desidero sottolineare questa presenza delle nostre Forze armate in Africa: si tratta, infatti, del continente che ne ha bisogno più di tutti e le realtà dove operano i nostri uomini sono difficilissime.
Non valorizzato il ruolo dell'Italia. Anche con quest'ultima missione il numero di persone impiegato dall'Italia in tali missioni è notevolissimo, tanto che l'Italia rappresenta il terzo Paese al mondo, quanto al personale impiegato nello svolgimento di missioni internazionali.
Si tratta di un impegno che non ha proporzione con il ruolo attribuito all'Italia nel contesto internazionale. Riferendo sulla partecipazione italiana alle operazioni internazionali in corso relativa al periodo dal 1° dicembre 2004 al 31 maggio 2005, il governo sottolinea l'importanza degli uomini e dei mezzi dispiegati dall'Italia nelle missioni internazionali, ma non fornisce nessun elemento sul beneficio in termini di ruolo internazionale che tale partecipazione ha comportato per il nostro Paese, visto che l'Italia è stata recentemente esclusa da importanti tavoli negoziali in ambito europeo.
Impegno finanziario sproporzionato. Ma l'impegno militare italiano risultato sproporzionato anche rispetto alle possibilità finanziarie del nostro Paese.
Circa 350 milioni di euro, pari a circa 700 miliardi di vecchie lire, da spendere nei prossimi sei mesi per essere presenti in Afghanistan e in varie forme in Bosnia, in Kosovo, in Fyrom, in Albania, anche qui in varie forme, a Hebron, in Etiopia, in Eritrea, in Sudan, in Congo-Kinshasa, e tutto questo per conto delle Nazioni unite, della Nato e dell'Unione europea. La permanenza in queste aree varia dai più di dieci anni per la Bosnia o per Hebron ai pochi mesi del Sudan.
Tale impegno finanziario risulta ancor più sproporzionato ove lo si confronti con le risorse destinate alla cooperazione internazionale, che raggiungono appena lo 0,1 per cento del PIL. Si tratta di un dato allarmante, che va opportunamente rilevato in questa discussione, in quanto lo sforzo compiuto da ogni paese per la cooperazione internazionale rappresenta uno strumento importantissimo per la prevenzione dei conflitti interni.
Concludere la vicenda di Enduring Freedom. Oltre che per operazione di peace-keeping, l'intervento dell'Italia in molte missioni internazionali è giustificato dal governo anche con la lotta al terrorismo internazionale.
Ad esempio l'Italia partecipa in Afghanistan, tra l'altro, alla missione ISAF con una forza di circa 900 uomini che sarà portata a breve a 2000 uomini.
Noi condividiamo l'esigenza di ampliare la missione ISAF, estendendo tale intervento da Kabul agli altri territori. Lo abbiamo chiesto attraverso una serie di emendamenti presentati in occasione delle precedenti proroghe della missione. Sostenendo che la decisione di ampliare temporalmente l'ISAF spettava all'ONU, abbiamo presentato emendamenti per richiederne l'estensione nel tempo e nello spazio in tutta l'area dell'Afghanistan.
Ma in quel paese l'Italia partecipa anche alla missione Enduring Freeedom, sulla cui legittimità restano dubbi, sia perché la presenza dell'Italia a tale missione deriva da una forzata interpretazione dell'articolo 5 del Trattato istitutivo della Nato, sia perché "Libertà duratura" è stata presa a modello dal presidente degli Stati Uniti per l'esportazione della democrazia nel mondo.
In realtà, la situazione in Afghanistan sta diventando sempre più simile a quella irachena, in quanto di giorno in giorno si susseguono sul territorio attentati e rapimenti, come quello, risoltosi felicemente, di Valentina Cantoni. Un altro dato preoccupante è che dall'inizio dell'intervento militare in Afghanistan il commercio degli stupefacenti sia aumentato del 94 per cento e che il controllo del territorio da parte del nuovo governo risulti circoscritto grosso modo alla sola capitale Kabul.
In un tale quadro, le affermazioni del Ministro Martino circa la permanenza del contingente italiano in Afghanistan per altri dieci anni appaiono quanto meno avventate e comunque non fondate su elementi portati all'attenzione del Parlamento. Senza questi elementi si rischia di svolgere una discussione solo burocratica o amministrativa su argomenti che coinvolgono la vita di migliaia di persone.
Un bilancio dei lunghi anni nei Balcani. Le dichiarazioni del Ministro Martino, che ha prefigurato una presenza decennale dei nostri militari in Afghanistan, non si possono giustificare solo facendo riferimento al fatto che i militari italiani da ben dieci anni siano presenti in Bosnia e da sei in Kosovo.
Al contrario, serve un procedimento diverso. Occorre riflettere sul fatto che nei Balcani non è chiara l'evoluzione dei rapporti politici: il processo di pacificazione in Bosnia risulta rallentato, in Kosovo le cose non stanno andando nella direzione auspicata.
In Bosnia le ferite delle stragi sono ancora aperte, la situazione economica, nonostante i pochi interventi europei (Italia compresa), è molto grave, e nelle città e nei villaggi la vita ristagna in una forma di dolorosa apatia. Eppure, il patto di stabilità era stato istituito per mediare le tensioni, appianare le divergenze, migliorare la situazione economica.
In Kosovo, una provincia ancora ufficialmente appartenente alla Serbia, tutti, politici, dirigenti, comuni cittadini, parlano di indipendenza e la pretendono Le minoranze etniche non rientrano nelle proprie terre e case, per la maggior parte scomparse od occupate; anche i pochi che coraggiosamente vi fanno rientro, vivono nel terrore e, comunque, non hanno possibilità di lavoro. Le strutture delle Nazioni Unite vengono attaccate mentre la KFOR - la forza militare sotto comando NATO - mantiene una parvenza di ordine. Ma qual è lo scopo finale?
La recente crisi dell'Unione europea in qualche modo può aver minato la fiducia delle regioni balcaniche nel ruolo dell'Europa nell'area, e le elezioni in Albania confermano come quel Paese rappresenti una realtà istituzionale per alcuni versi ancora fragile. Occorre dunque riflettere sulla opportunità che si prolunghi la presenza di alcune centinaia di militari in Albania.
Si tratta di contesti strategici per la politica estera italiana. Era stato costituito un gruppo di contatto per gestire la crisi. Che fine ha fatto? Stati Uniti, Russia, Germania, Francia, Regno Unito e Italia hanno forse concordato la "non azione"?
Nelle aree strategiche per l'Italia. È fuori discussione il merito dei nostri militari, ai quali vanno il nostro apprezzamento ed il nostro plauso. ma lo schieramento passivo delle unità, privo di un disegno politico, è un affronto anche alla professionalità e alla generosità delle nostre forze armate. Popolazioni e nazioni che ne hanno una grande necessità possono giovarsi della presenza dei militari italiani che, per unanime riconoscimento, è professionalmente di altissimo livello e, umanamente, tra le migliori che sia possibile schierare in campo. Tuttavia qualsiasi buon lavoro, se non viene iscritto in un progetto, risulta automaticamente vanificato - almeno in parte - e mortificato.
Mi sono soffermato sui Balcani, perché questa è un'area unanimemente considerata prioritaria nella politica estera italiana.
Ritengo anche si possa dire che il Mediterraneo, nel suo complesso, sia un'area certamente prioritaria per il nostro impegno. A questo dovrebbe servire la nostra riflessione nel corso dell'esame di questo decreto legge. Anche per giustificare nel quadro di una scelta strategia sul piano della pace le spese che voteremo.
19 luglio 2005
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