di Tino Bedin capogruppo Margherita in Commissione Difesa
E adesso per l'Iraq non resta che l'Onu. È venuto a dirlo al Parlamento il presidente del Consiglio. Era ora.
Proprio l'Onu, quella stessa organizzazione delle Nazioni Unite che il presidente del Consiglio italiano ha definito non troppo tempo fa "un'assemblea di despoti del Terzo Mondo", per contrapporla alla democrazia tipo-esportazione, che è in cima ai pensieri del presidente degli Stati Uniti Bush e che diventa, con il discorso di Berlusconi oggi in Senato, ufficialmente la finalità della missione militare italiana. Dismesso l'aiuto umanitario, il governo di Destra non affida più ai nostri militari il compito di portare agli iracheni salute, sicurezza e sviluppo, ma la democrazia occidentale.
Proprio l'Onu, che all'indomani del vertice delle Azzorre, il presidente del Consiglio ha contribuito ad affossare, magnificando le decisioni con cui Bush, Blair ed Aznar toglievano ogni ruolo al multilateralismo e all'Onu, umiliando la fatica e il coraggio della pace.
Proprio l'Onu, che è stata fra le prime vittime della guerra iniziata in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, cioè della guerra che la Destra continua a negare che esista anche se militari italiani sono morti e nostre famiglie sono tragicamente impoverite. Per la permanenza della presenza dell'Onu in Iraq la coalizione degli occupanti non ha assicurato a suo tempo l'adeguata sicurezza. Soprattutto non ricordo di aver sentito rimpianti dell'Amministrazione Bush e del governo Berlusconi, quando l'Onu ha dovuto chiudere la propria rappresentanza.
Sarebbe bastato l'Onu. ACosa sarebbe oggi l'Iraq se si fosse lasciato operare l'Onu? Come sarebbe, se si fosse lasciato che continuasse la "messa in sicurezza " dell'Iraq, così come stavano facendo con determinazione e pazienza gli ispettori dell'Onu? Certamente non sarebbe quel crocevia del terrorismo internazionale, che è oggi. L'Iraq di oggi mette a rischio molto più che prima della guerra la sicurezza degli italiani, degli europei, degli americani, oltre che degli iracheni.
Cosa sarebbe oggi l'Iraq se la maggioranza del Senato avesse accolto qualcuno degli emendamenti proposti dal gruppo Margherita-L'Ulivo all'ultimo decreto sulla missione militare in Iraq, con cui restituivamo un ruolo delle Nazioni Unite? La Destra ha respinto un emendamento da me presentato in cui proponevano l'immediato passaggio del nostro contingente in Iraq dal comando anglo-americano alla disponibilità per il segretario generale dell'Onu. Kofi Annan avrebbe potuto disporre da mesi di una carta da giocare sia sul piano internazionale che per la stabilizzazione del paese.
Ha aspettato l'invocazione di Bush. Le falsità che sono state la scusa per la guerra; le degenerazioni inaccettabili con le torture operate da parte di militari che rispondono a chi ha sostenuto e sostiene di portare libertà e democrazia; la ignobile barbarie perpetrata da spietati criminali e motivata come reazione alle torture; la guerriglia che ha già seminato lutti nel popolo italiano e lo stato di pericolo in cui vivono i nostri soldati, richiedono che si cambi subito l'impostazione politica dell'intera, sbagliata operazione-Iraq, con l'intervento in pienezza di poteri politici, economici e militari delle Nazioni Unite.
Questo cambiamento non però è nei piani dell'Amministrazione Bush; non nemmeno nei piani del governo italiano.
Un'Amministrazione, quella americana, che vorrebbe al massimo fare come un Afghanistan: tenersi il controllo del territorio e limitare il ruolo di una forza multinazionale a guida Onu alla sola salvaguardia dell'Onu stessa. Caschi blu carabinieri di se stessi.
Un governo, quello italiano, che si è ricordato delle Nazioni unite da meno di una settimana e solo perché che se ne erano ricordati gli Stati Uniti.
Un governo, quello della Destra italiana, che crede così poco all'Onu da non far precedere l'incontro del presidente del Consiglio con Kofi Annan e Bush da una verifica con i membri europei del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in modo da contribuire ad elaborare davvero una nuova linea politica internazionale: una svolta, appunto.
Svoltare tirando dritto? Il presidente del Consiglio si è appropriato ultimamente di questa parola, dopo che da mesi e mesi l'Ulivo, con tutto il centrosinistra, chiede una "svolta" nella politica estera italiana e nella scelte unilaterali dell'Amministrazione americana. Il presidente del Consiglio annuncia la svolta, precisando che il suo programma è "non lasciare a metà il lavoro iniziato", cioè che va dritto per la strada su cui si è avventurato.
Difficile capire come faccia a "svoltare", visto che non fa la minima autocritica e continua a fare riferimento ai "comuni valori", alla stessa "saggezza", alla stessa "concezione della democrazia e dei diritti umani" che hanno governato la prima metà del lavoro che ora si vorrebbe portare a termine.
Difficile capire come faccia a "svoltare", visto che non solo non cambia strada, ma non cambia neppure compagni di viaggio: resta con le stesse persone che hanno portato il mondo in una guerra, non ne cerca altre, neppure ora che gli spagnoli hanno licenziato Aznar ed impoverito la carovana dei "volonterosi".
Non è dell'Onu "minima" immaginata da Bush che oggi c'è bisogno. Non è la Coalizione dei volonterosi che può portare alla pacificazione dell'Iraq, dopo che vi ha portato la guerra.
È necessario che gli iracheni si sentano rassicurati dal passaggio di comando e dalla rotazione di presenze rispetto alle forze militari che hanno preso parte alla guerra.
Stare con l'Onu significa per l'Italia dare il proprio contributo a questi cambiamenti. Il rientro dei nostri militari dall'Iraq è innanzi tutto lo strumento di questa scelta politica. Ritirare il contingente italiano dalla catena di comando angloamericana, significa sostenere politicamente lo sforzo delle Nazioni Unite nella ricerca di nuovi contingenti: ricerca che sarà facilitata da questa distinzione dell'Italia. Il cambio di attori sul terreno segnerebbe infatti la svolta che molti paesi ritengono preliminare ad un loro impegno in una forza multilaterale che non si porti dietro il peso della guerra o della successiva occupazione.
Invece che nel dopoguerra, l'Italia si ritrova in guerra. Stare con l'Onu significa per l'Italia ritornare alla posizione che (di malavoglia ma inevitabilmente, per fortuna dell'Italia) il governo ha dovuto tenere nella fase iniziale del conflitto: quella della non partecipazione alla guerra.
Il governo ha detto e continua a dire che noi siamo una "forza non belligerante". È vero: noi non abbiamo nemici, non siamo nemici degli iracheni, non siamo in guerra con gli iracheni.
In Iraq però c'è stata una guerra, a cui erano contrari la stragrande maggioranza degli italiani e degli europei e moltissimi cittadini americani. E non c'è ancora stato un dopoguerra.
In Iraq ora c'è una guerra. Ce lo hanno detto da ultimi due genitori della mia regione, della mia diocesi: mamma e papà di Matteo Vanzan, davanti alla cui bara il vescovo di Padova ha stamattina celebrato la liturgia funebre.
La guerra è la condizione in cui si trovano i nostri militari. Sul terreno lo scenario immaginato dalla Destra italiana quando ha inviato le nostre truppe non si è realizzato: né pace né ricostruzione sono realtà; non sono nemmeno una prospettiva. Non è possibile svolgere, attraverso l'impegno e la professionalità dei nostri militari, un'azione umanitaria nel mezzo di una guerriglia che vede un gran numero di iracheni contro gli americani e i loro alleati.
L'approdo più realistico per la sicurezza dei nostri soldati sarebbe quello che imporrebbe di uniformare le regole di ingaggio delle nostre truppe a quelle degli alleati belligeranti. A questo punto il nostro intervento non potrebbe più essere definito umanitario. A questo punto il governo deve riconoscere che ha portato gli italiani e per primi i nostri militari in una guerra a dispetto dell'articolo 11 della Costituzione.
Gli italiani non vogliono la guerra. Il cambiamento di scenario impone la svolta: in base alla Costituzione e in base al mandato parlamentare affidato ai militari è evidente che non possiamo più restare in un Iraq dove c'è una guerra. Il rientro dei nostri soldati va deciso anche per questo.
Il presidente del Consiglio è invece venuto in Parlamento a chiedere che siano gli italiani a fare una svolta rispetto alla loro scelta plebiscitaria per soluzioni pacifiche e rispetto alla Costituzione.
Non ha il coraggio di chiamare guerra la condizione in cui ha portato l'Italia e i suoi militari e pretende che siano gli italiani a farlo, accettando la guerra.
Si illude che la responsabile solidarietà che anima il popolo italiano possa esprimersi con l'accettazione dell'avventura imposta dalla Destra. La stragrande maggioranza degli italiani, e noi dentro questa maggioranza, non è disponibile a questo avvallo a posteriori del tragico errore della guerra e delle colpevoli omissioni del governo italiano. Con gli italiani, di fronte alla situazione attuale, noi non possiamo che chiedere al governo di preparare il rientro delle nostre truppe dall'Iraq.
Per portare l'Iraq fuori dalla guerra. Non abbandoniamo gli iracheni. Senza le proprie truppe sul campo, l'Italia avrà più ragioni e più opportunità di collaborare a portare l'Iraq fuori dalla guerra. Si allargherà la possibilità dell'Europa di svolgere un ruolo di pacificazione e di ricostruzione, cui l'Italia potrà concorrere con la Spagna, con la Francia, con la Germania e con altri grandi paesi come la Polonia, che trarranno forza politica dalla distinzione italiana rispetto alla coalizione della guerra. Gli iracheni avranno a disposizione l'Europa, la "saggia" Europa, proprio grazie alla decisione italiana di ritirare le truppe. Dell'Occidente gli iracheni potranno così conoscere e, se lo decideranno, sperimentare anche lo "spirito europeo".
Allo "spirito europeo" non appartiene l'idea della guerra preventiva. Il rientro delle truppe italiane dall'Iraq sarà anche la dichiarazione che la guerra preventiva è fallita; una dichiarazione fatta dal Parlamento a nome degli italiani ed in particolare delle persone che con le divise delle nostre Forze armate sono impegnate in moltissime missioni internazionali di pace. Sono persone a cui dobbiamo certo gratitudine, ma prima di tutto rispetto per lo spirito con cui ci rappresentano e per cui sono apprezzati e che non può essere messo a rischio dall'essere percepiti come occupanti in Iraq.
Cambiare le regole d'ingaggio degli americani. Riportare il nostro contingente dall'Iraq in Europa è anche affermare contemporaneamente, operativamente che l'Italia è per decisioni prese insieme, è per l'Onu, è per la Nato, è per il multilateralismo. Lo è per la pace ed anche per giustizia.
C'è una richiesta che certamente il presidente del Consiglio non ha fatta al presidente Bush: gli Stati Uniti affidino i loro militari al Tribunale penale internazionale, cominciando da quelli coinvolti nelle torture agli iracheni. Sarebbe un modo molto esplicito per gli Usa di riconoscere la loro tragedia rappresentata dalle torture.Sarebbe una scelta molto convincente per gli iracheni della diversità della democrazia rispetto alla dittatura di Saddam Hussein. Tanto più convincente e chiara sarebbe questa scelta, perché finora gli Stati Uniti non hanno riconosciuto il Tribunale penale internazionale, lo hanno anzi boicottato, mentre l'Europa e l'Italia dell'Ulivo lo hanno promosso.
Altro che cambiare le regole di ingaggio dei nostri militari in Iraq. Siano i militari americani a cambiare almeno una parte delle regole con cui operano: entrino assieme ai militari italiani nella giurisdizione del Tribunale penale internazionale. Comincino a farlo dall'Iraq e diventi per loro una condizione normale, come è per i nostri soldati.
Questa sì sarebbe una svolta. Ma bisognava chiederla; bisogna chiederla. Questa richiesta la si fa anche non lasciando i nostri militari sotto il comando politico del ministro della Difesa americano Donald Rumsfeld. Un'altra buona ragione per il rientro delle nostre truppe dall'Iraq.
Versione integrale e rivista dell'intervento in discussione generale sulle Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri sui più recenti sviluppi della situazione in Iraq
Aula del Senato / 20 maggio 2004
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