Su iniziativa della parrocchia di Conselve il senatore Tino Bedin ha partecipato ad un dialogo sulla pace e sulla guerra con particolare riferimento all'Iraq. Riportiamo qui l'introduzione.
La pace è troppo importante perché i governanti decidano da soli. Non è solo una affermazione sul metodo. È una convinzione politica. È il riconoscere che ci sono materie sulle quali il diritto di parola e di giudizio rimane in capo ai cittadini, anche in un sistema democratico di rappresentanza qual è il nostro. Ne sono sempre più convinto, anche come parlamentare. Certo, ci avete eletti perché ci assumiamo le nostre responsabilità, dopo esserci documentati e dopo aver discusso tra noi. Questo lo dobbiamo fare. Questo facciamo su gran parte delle questioni che ci vengono messe davanti. Ma sulla guerra non possiamo decidere da soli. La guerra è una negazione così atroce della persona umana da rendere insufficiente la politica.
Per questo ringrazio mons. Paolo Doni, ringrazio il Settore Adulti dell'Azione Cattolica di Conselve, che hanno ritenuto giusto parlare di pace e di guerra in questo autunno: a parlarne per capire, per dialogare, per prendere posizione, in particolare sull'Iraq.
Ringrazio anticipatamente quanti tra voi interverranno nella comune ricerca, che io solamente introduco: ciascuna delle vostre idee, delle vostre convinzioni, dei vostri sentimenti troverà attenzione, si amplierà al di fuori di questa sala e al di fuori di Conselve; si farà sentire in Parlamento e mi auguro che venga ascoltata. Anche l'Italia è infatti coinvolta. Lo è direttamente come Nazione fra le più importanti nella comunità internazionale. Lo è altrettanto direttamente come parte dell'Unione Europea e come membro dell'Alleanza Atlantica.
Nell'introduzione tuttavia non parlerò in maniera specifica della posizione italiana. Sarò ben lieto di farlo nella seconda parte, durante il dialogo con voi; non intendo infatti sottrarmi al confronto con cittadini ai quali ho chiesto il mandato parlamentare, né intendo evitare il confronto tra le mie posizioni e quelle sostenute dalla maggioranza parlamentare. Ritengo pero che sia dal tema della pace e della guerra che occorre partire, eventualmente per arrivare a conclusioni e a posizioni diverse, e non viceversa; voglio dire che non possiamo partire dalle contrapposizioni nazionali per giudicare la pace e la guerra.
I cittadini non rinunciano a dire la loro. Se - come ho detto - la pace è troppo importante perché i governanti decidano da soli, più che le posizioni politiche occorrerà considerare quelle dell'opinione pubblica preliminarmente ad ogni valutazione di politica estera e di sicurezza che metta in discussione la pace.
Nel caso specifico l'opinione pubblica italiana sta già dimostrando di non volersi sottrarre al suo ruolo. Non lascia fare, come dimostra l'incontro di questa sera, come si verifica dalla lettura della stampa cattolica (il settimanale diocesano "La Difesa del Popolo" dedica nell'ultimo numero un'intera pagina all'argomento), solo per restare nell'ambiente ecclesiale che ha promosso questo appuntamento.
Quello che appare è che gli italiani sono nettamente contrari all'attacco preventivo all'Iraq. Una vera e propria pioggia di no alla guerra è emersa dal sondaggio che la Doxa ha realizzato per "Famiglia cristiana", intervistando un campione rappresentativo dei quattro milioni di lettori del settimanale cattolico. L'89 per cento degli interpellati è contrario all'impiego di soldati italiani senza l'avallo dell'Onu e il 56 per cento è contrario anche se ci fosse l'avallo dell'Onu. I lettori di "Famiglia cristiana" vanno oltre: per il 68,4 per cento le sanzioni contro l'Iraq devono essere abolite e l'82 per cento non è d'accordo con la tesi che la guerra potrebbe eliminare il terrorismo islamico, anzi per il 64 per cento un attacco potrebbe farlo aumentare.
Si tratta di percentuali abbastanza omogenee ad un'altra ricerca, questa volta condotta dalla Swg per il settimanale L'Espresso, il cui bacino di lettori è certamente diverso da quello di Famiglia cristiana.
Di questo secondo sondaggio riporto due dati. Alla prima domanda: oggi Saddam rappresenta una minaccia per la pace nel mondo?, hanno risposto "sì" 71 intervistati su 100 e "no" appena 18. Il secondo dato è pure interessante: all'interno della maggioranza dei lettori che si sono comunque dichiarati contrari ad una partecipazione diretta dell'Italia ad una eventuale guerra, ben il 57 per cento si è detta contrario perché "è una guerra inutile". Non per ragioni etiche, dunque, moltissimi italiani non vogliono che i nostri soldati partecipino alla guerra annunciata; non per pacifismo, sono contrari, ma perché la guerra è incomprensibile.
E non lo sono solo i cittadini italiani. Negli Stati Uniti Michael Getler del Washington Post ha riconosciuto il 6 ottobre che il suo giornale ignorava il grande fermento popolare contro la guerra: "I sondaggi dicono che il Presidente gode di un forte sostegno (61%) per la sua politica di azione militare contro l'Iraq. Ma quando guardo nella mia posta... non trovo riscontro... Molta gente è davvero preoccupata dalla prospettiva di una nuova guerra". La vittoria di Bush al Congresso si prospetta una vittoria di Pirro. L'opposizione popolare tende a crescere e non a scemare, e Bush potrebbe pagarne le conseguenze nel voto di novembre, molto prima delle presidenziali del 2004. Qualcuno fa notare che è già successo al papà: credeva di vincere una guerra e invece ha perso il potere politico. Il motivo è che Bush non guarda alla realtà: a cominciare da quella dell'economia. Anche il New York Post ha pubblicato l'8 ottobre un articolo che già dal titolo prospettava il rischio che Bush possa ripetere l'errore del papà. "Esagerando l'importanza della questione irakena, Bush rischia di finire nella stessa trappola in cui cadde il primo presidente Bush: apparire incurante dei problemi interni".
Non c'è scelta tra Bush e Saddam.
Sono partito dalle opinioni dei cittadini non solo per il loro primato, ma anche perché ci aiutano anche a smontare una situazione paradossale nella quale qualcuno tende ad incastrarci: quella di dover scegliere tra Bush e Saddam.
Non c'è nessuna scelta da fare tra Bush e Saddam; la scelta è già stata fatta; la scelta è confermata.
Non c'è scelta tra la libertà e la dittatura. Non c'è scelta tra una democrazia, quella americana, che conta fino all'ultimo voto per decidere chi è presidente tra Bush ed Al Gore, ed un regime nel quale vota il 100 per cento degli aventi diritto e il presidente viene eletto con il 100 per cento dei votanti.
Non c'è scelta tra la democrazia dei diritti e della dignità delle persone il totalitarismo dei privilegi. Gli iracheni vivono in uno stato di crisi umana creata dalla tirannia di Saddam Hussein. Oggi in Iraq i bambini muoiono per malattie curabili perché non hanno accesso ai medicinali. I liquami contaminano l'acqua da bere. È terrificante come una nazione un tempo così ricca sia ora un deserto di malattia e disperazione. La dittatura brutale di Saddam Hussein deve assumersi la responsabilità di queste condizioni.
Non c'è scelta tra un'alleanza per pacificare il mondo ed una dittatura che è contrastata da due terzi del proprio territorio. Già dalla fine della guerra mondiale si è cominciato a costruire quella grande alleanza difensiva che si concretò, nel 1948, nel Patto atlantico per la pace. Attraverso i decenni, questa scelta è diventata scelta politica comune in Italia. Punto essenziale della nostra politica estera è l'alleanza con gli Stati Uniti e il legame limpido e forte nell'Europa. Dunque, alleanza libera, alleanza fedelissima, alleanza a pari dignità!
L'amicizia dell'Europa (e dell'Italia in Europa) con gli Stati Uniti non solo non è in discussione, ma è uno dei valori che in questa vicenda occorre salvaguardare come risorsa per il mondo.
Ai veri amici degli Stati Uniti tocca un compito, indubbiamente molto difficile: il compito di difendere insieme l'alleanza e la pace; è importante: insieme, alleanza e pace; per impedire che il "no" alla guerra sia ritenuto, o magari proclamato, un "no" all'alleanza.
Ci sono - al pari - altre risorse ed altri valori da salvaguardare nella situazione attuale.
Il ruolo delle Nazioni Unite, innanzi tutto. Bisogna sviluppare il quadro del diritto internazionale per far fronte a tali situazioni. L'Iraq non può essere visto come caso isolato. È questo un aspetto fondamentale legato al rispetto del sistema multilaterale delle Nazioni Unite, le cui risoluzioni sono state sfidate e violate più volte, non solo dall'Iraq. Tale problema deve essere affrontato in modo coerente e concreto. Bisogna agire perché l'autorità dell'Onu sia riconfermata per il benessere della regione e del mondo.
L'unità dell'Europa è un'altra delle risorse da non disperdere e sui cui contare, non per contrapposizione agli Stati Uniti ma per arricchire il dialogo internazionale. Se la pace costituirà il filo conduttore dell'Europa in questa difficile situazione, sarà la pace a caratterizzare due passaggi storici cui l'Unione Europea si sta applicando: la strutturazione della propria politica di sicurezza e di difesa da una parte e la scrittura di un Trattato costituzionale dall'altra.
I buoni rapporti con i paesi arabi moderati sono un'altra risorsa su cui contare, anzi da rafforzare per evitare il piano inclinato di uno scontro tra civiltà, destinato ad alimentare il fondamentalismo islamico e a rendere sempre più ingovernabile il mondo.
Tutte queste risorse (il ruolo delle Nazioni Unite, la solidità dell'alleanza con gli Stati Uniti, la coesione dell'Unione Europea, l'amicizia con i paesi arabi) vanno certo messe in campo per evitare il conflitto in Iraq, ma possono e devono essere impiegate anche per una finalità più generale. Sono attualmente in corso 35 guerre nel mondo. Bisogna riconcentrare l'attenzione su queste situazioni: innanzi tutto per rispetto delle persone che vi sono coinvolte, ma anche per rispondere all'obiezione sempre più diffusa, sempre più adirata che il mondo si muove solo là dove muoiono americani.
Qui "più Europa", lì "più America", con due risultati opposti.
Non possiamo nasconderci che il mondo è in collera con gli americani; molti sono risentititi per la forza che gli Stati Uniti impongono; altrettanti sono risentiti per la debolezza che gli Usa stanno dimostrando verso se stessi e la loro missione.
Dopo l'11 settembre la globalizzazione è percepita in maniera diversa. Non è più solo una benedizione. Il mondo ne ha toccato con mano i rischi e le maledizioni e si aspettava che la nazione cui si era sostanzialmente affidato accettasse la nuova sfida, avesse la forza delle armi, ma anche il coraggio della speranza e quindi della pace.
Per questo subito dopo l'attentato alle Torri Gemelle si è quasi spontaneamente costituita la più grande coalizione della storia contro il terrorismo e la gran parte del mondo ha accettato che - pur con un voto delle Nazioni Unite - fossero gli Stati Uniti a guidare quella coalizione. Non era solo l'omaggio al paese aggredito dal terrorismo e vittima dell'11 settembre. Quella Grande Coalizione a guida americana era il riconoscimento del ruolo globale che molti sono disposti a riconoscere agli Stati Uniti, purché lo esercitino.
Invece l'attuale guida politica degli Stati Uniti un anno dopo la Grande Coalizione sembra non aver accettato la sfida; ha ristretto il proprio ruolo a quello della forza militare ed anche in questo campo non ha raggiunto risultati definitivi.
Il governo americano appare inadeguato a dare risposte globali a due cambiamenti che sono avvenuti con l'abbattimento delle Torri Gemelle: il venire meno della distanza come elemento di per sé sufficiente a garantire la sicurezza; il nuovo pensiero strategico, non più fondato sul presupposto che le guerre si combattano fra stati; ora l'immagine del nemico è cambiata: non veste un'uniforme e può cagionare danni enormi pur non possedendo blindati o cannoni.
Come reazione alla nuova e più cruda percezione della globalizzazione e all'insicurezza determinata dal venire meno dei "confini" e della "visibilità" del nemico, il mondo ha vissuto in questi mesi un terzo cambiamento: il rafforzamento dell'idea di Stato proprio mentre il mondo si rimpicciolisce.
Lo abbiamo sperimentato e lo sperimentiamo anche noi, nella dimensione geopolitica nuova che ormai per noi ha l'idea di "stato": tutti gli europei in questi mesi vanno ripetendo che "ci vuole più Europa", che accanto all'Europa economica è urgente un'Europa politica e un'Europa militare. In concreto i cittadini chiedono all'Europa sicurezza. Lo stesso sembra avvenire negli Stati Uniti. Con una differenza: mentre gli per gli europei l'esigenza di "più Europa" fa avanzare il continente verso una nuova dimensione; per gli americani la richiesta di "più America" - oltre a non corrispondere alle aspettative del resto del mondo - fa regredire la democrazia interna (con la riduzione delle libertà individuali in nome della sicurezza) e fa regredire la politica mondiale.
"America and the rest".
L'America sembra orientata ad agire da sola.
La prima a soffrirne è l'Onu. La ruvidezza, inconsueta in diplomazia nei rapporti tra uguali, con cui Bush da settimane si rivolge alle Nazioni Unite è il segnale di una decisione probabilmente già presa anche se non definitiva: utilizzare l'Onu solo in quanto è funzionale al bisogno di "più America".
La forza delle Nazioni Unite è direttamente proporzionale alla loro piena autonomia. Eppure in queste settimane gli Usa hanno scopertamente agito con lo scopo di imporre una risoluzione che accogliesse il principio della "guerra preventiva". Lo hanno fatto incuranti del fatto che questa sarebbe stata la fine dell'Onu, perché una risoluzione di questo tipo è contrastante con la loro Carta fondativa, perché un tale deliberato di autorizzazione alla guerra non avrebbero certo trasformato una scelta sbagliata in una scelta giusta; perché, lungi dal rafforzare il ruolo delle Nazioni Unite, sarebbe stata causa della loro delegittimazione agli occhi della gran maggioranza dell'opinione pubblica mondiale.
Ma anche la Nato - nella nuova visione di Bush - non è più un'alleanza politica. La si adopera se serve e in quanto serve. Si sceglie volta per volta il paese che deve collaborare con l'America in un'impresa bellica. Non ci si mette insieme perché si hanno obiettivi comuni, ma l'America decide l'obiettivo e in base a quello fa le alleanze.
Non è questa la prospettiva che c'era un anno fa. Non è questo neppure il significato che era stato dato alla Grande Coalizione.
Anche per le speranze non soddisfatte si sta così diffondendo la collera verso gli americani. Eppure in tema di sicurezza nazionale e per vincere la guerra contro il terrorismo, gli Usa hanno bisogno di eliminare il senso di disperazione che serve da ospite per le cellule terroriste. La più grande potenza militare nella storia del nostro pianeta non è sufficiente a proteggere un autobus di New York da un attentatore suicida. Per questi obiettivi ci vorrà più della potenza americana; ci vorrà una volontà internazionale.
Come occidentali, la nostra forza è sempre stata la nostra abilità di aiutare gli altri a provare i benefici della libertà. Il voto di sabato scorso in Irlanda ha - ad esempio - definitivamente deciso l'allargamento dell'Unione Europea, che è appunto una condivisione di libertà: democratiche, civili ma anche sociali e personali.
Nella dimensione planetaria questa forza si è però andata riducendo. Dove sono gli aiuti pubblici allo sviluppo e il potenziamento della cooperazione internazionale, quali capisaldi di una politica di pace? Gli Stati Uniti sono all'ultimo posto fra i donatori ai popoli in via di sviluppo; l'Italia è al penultimo posto: lo ha ricordato, proprio parlando di guerra e di pace sulla Difesa del Popolo, don Luigi Mazzuccato, direttore del Cuamm. Dov'è l'iniziativa di "dare vita ad una lunga ma sicura azione di risanamento delle condizioni di vita in Cisgiordania e in tutti i territori palestinesi", che ad esempio il governo italiano ha assicurata mesi fa, proprio come integrazione all'operazione militare "Enduring Freedom"? Dov'è il piano Marshall per la Palestina?
In passato si parlava di un mondo diviso tra Est ed Ovest; poi - anche su sollecitazione di Giovanni Paolo II - di un mondo diviso tra Nord e Sud; poi tra ricchi e poveri, non necessariamente rigidamente abitatori di due emisferi. Ultimamente il mondo è stato descritto con la frase "The West and the rest" (L'Occidente e gli altri). Oggi la parola "West" è sostituita da "America".
L'America e il resto del mondo. La riflessione sugli scenari di pace e di guerra in questo autunno non può non comprendere i contenuti e i rischi di questa nuova ed inedita divisione del mondo.
Perché ora? Perché l'Iraq?.
All'interno di questa riflessione si può cercare e forse trovare qualche risposta all'interrogativo che i lettori di Famiglia cristiana, prima citati, propongono: perché la guerra all'Iraq? Se lo domandano, ce lo domandiamo in molti.
Un paradosso della situazione in cui siamo è che la guerra viene considerata "inutile" da molti, prima ancora che per i suoi possibili obiettivi, per la semplice ragione che non se ne capiscono le origini. Le domande infatti non sono: è giusta la guerra? è utile la guerra? Le domande sono: perché ora la guerra? perché contro l'Iraq una guerra? Si cercano, cerchiamo le risposte, ma non se ne trovano di plausibili (non dico di condivisibili).
Il collegamento con la indispensabile lotta al terrorismo internazionale, che costituisce una minaccia per l'umanità, non viene dimostrato, né ci sono state dichiarazioni del regime di Bagdad che possano far mettere in capo a Saddam Hussein la predicazione del terrorismo. E poi l'Iraq nell'area musulmana è uno stato laico, non uno stato fondamentalista.
Invece sia immediatamente dopo l'11 settembre che durante la guerra in Afghanistan sono emerse connessioni economiche e politiche del fondamentalismo con l'Arabia Saudita, uno degli alleati storici degli Stati Uniti. Le "collette musulmane" sono state destinate a centri culturali e religiosi che hanno verificati rapporti con il fondamentalismo. Nei confronti dell'Arabia Saudita non solo non sono state proposte azioni internazionali di forza, ma neppure sono state decise restrizioni di controllo finanziario.
C'è il grave problema degli arsenali militari che Saddam ha probabilmente riempiti anche dopo la Guerra del Golfo e c'è il grave problema delle risoluzioni dell'Onu che Bagdad non ha rispettate. Per questo il premier inglese Tony Blair insiste che la guerra serve per disarmare Saddam. Se le ispezioni dimostreranno la ripresa della produzione di armi di sterminio, allora la comunità internazionale dovrà rimodulare l'intero impianto sanzionatorio, renderlo efficace e credibile; dovrà lavorare per aiutare a costruire una vera opposizione al regime di Baghdad, e non lavorare per distruggerla definitivamente in conseguenza di un attacco militare.
Ma Washington va oltre la posizione di Blair: Saddam va abbattuto per rendere il mondo migliore.
Prima questione. Che Saddam Hussein sia un dittatore pericoloso e sanguinario, è un punto sul quale tutti sono d'accordo. Pericoloso e sanguinario Saddam Hussein non lo è però diventato ora; lo è stato anche nel passato, quando veniva armato e blandito da alcune potenze occidentali, che lo consideravano l'alleato principale per arginare l'Iran khomeinista. Sanguinario lo era anche quando le armi chimiche le utilizzò davvero, nel 1988, contro le popolazioni curde, sterminando seimila persone nella città di Halabja, mentre i consiglieri militari occidentali presenti in Iraq sapevano, tacevano e non impedivano.
Seconda questione. Saddam Hussein è uno dei dittatori più sanguinari e pericolosi che la storia recente abbia conosciuto, ma la necessità di contrastarlo giustifica la teorizzazione della guerra preventiva? Cosa fare allora, con Lukashenko, con Mugabe e con tanti altri dittatori del mondo contemporaneo? Ci si mette a bombardarli tutti o si scelgono strade politiche?
Cosa ha fatto la comunità internazionale mentre il Pakistan continuava ad accrescere il proprio armamento nucleare? Ha forse scatenato un attacco preventivo? No; al contrario, il Pakistan dittatoriale e tirannico è divenuto il baluardo dell'operazione "Enduring Freedom".
La Corea del Nord ha dichiarato in questi giorni di avere già a disposizione armi nucleari pronte all'uso. Si è deciso di discutere con un regime che in quanto a diritti umani, democrazia, sviluppo non ha nulla da invidiare in senso negativo al regime di Bagdad.
C'è poi il problema dell'equilibrio nel Medio Oriente. Francia, Russia e Cina, paesi che hanno diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, insistono che lo scopo delle Nazioni Unite è privare Bagdad della possibilità di attaccare i vicini con armi non convenzionali. Eppure gli esperti dicono che Saddam, pur essendo un brutale assassino, non è affatto pericoloso per i vicini, tanto meno costituisce una minaccia per gli Stati Uniti. Lo ha affermato Madeleine Albrigth, ex segretario di Stato Usa, e lo hanno ripetuto generali americani a quattro stellette.
Non basta. Dalla fine della Guerra del Golfo due terzi del territorio iracheno sono sotto controllo militare indiretto degli Stati Uniti e del Regno Unito. Al nord e al sud - nell'area di non volo - gli aerei anglomericani non hanno mai smesso di bombardare. Anche in questi giorni sono in corso bombardamenti su obiettivi iracheni da parte dell'aviazione Usa e britannica, che hanno come scopo dichiarato di disintegrare le linee di comunicazione e di comando di Bagdad. E voci insistenti parlano di commando americani e britannici già all'opera nei deserti dell'Iraq per neutralizzare le postazioni missilistiche.
Insomma il controllo militare su gran parte dell'Iraq è già in atto.
Per cambiare stazione di servizio?
In questa situazione l'insistenza del presidente Bush, in assenza di prove dell'esistenza di armi di distruzione di massa e del coinvolgimento di Bagdad nel terrorismo, rischia di far apparire che per gli Stati Uniti l'Iraq sia solo una "anomalia sulla rotta del petrolio".
L'Iraq possiede le seconde riserve mondiali di petrolio dopo l'Arabia Saudita, e se gli Usa riuscissero a "liberare" queste risorse si troverebbero in una posizione strategica chiave e di potere straordinario in Medio Oriente nei prossimi anni, visto che la produzione di greggio, fuori dal Medio Oriente, è destinata ad esaurirsi rapidamente.
Tenendo presenti queste necessità strategiche in termini di approvvigionamento energetico e di controllo delle risorse, si può rispondere a quella domanda finora senza risposta: perché ora? perché l'Iraq?
Forse dopo l'11 settembre a Washington hanno capito che il Regime dell'Arabia Saudita, il paese con più grandi riserve di petrolio al mondo, è in pericolo e allora tanto vale assicurarsi un governo amico in Iraq, pur di garantire il rifornimento di greggio nel futuro.
Sarebbe drammatico se si arrivasse alla guerra per il cambio della stazione di rifornimento.
Anche perché non sarebbe né una guerra facile, né una guerra programmabile. Generali rispettabili, che hanno testimoniato di fronte al Congresso americano, sanno che oggi una guerra con l'Iraq potrebbe evolversi in una battaglia urbana con molte vittime da entrambe le parti. Una invasione potrebbe infatti richiedere una forza di occupazione americana in Iraq per diversi anni.
Il generale statunitense Wesley Clark è stato comandante supremo della Nato in Europa e ha guidato la campagna aerea contro la Serbia; ha dunque esperienza sia di comando che di azione. Merita ascoltarlo.
Ecco il suo scenario… ottimista. "La mia ipotesi è che il grosso dei combattimenti si concluderà nel giro di due settimane. Potremmo aver bisogno di schierare 250 mila uomini, ma se l'esercito di Saddam crollerà rapidamente, molti di loro non parteciperanno neppure al conflitto.
"È probabile che il nostro maggior problema nel conflitto sia le gestione di centinaia di migliaia di soldati iracheni che diserteranno e che si arrenderanno armati ed affamati. Ma a quel punto, anche nel quadro degli scenari più ottimistici, probabilmente cominceranno i guai. Non funzioneranno più la distribuzione alimentare e l'assistenza sanitaria. Nelle strade, con il dileguarsi della polizia segreta di Saddam, scoppieranno violenze e vendette. I nostri intenti di mantenere l'ordine si scontreranno con le probabili rivolte, come è successo a Bassora alla fine della Guerra del Golfo".
Questo è il suo scenario pessimistico. "La valutazione pessimistica è che Saddam intervenga mentre ci stiamo preparando in Kuwait e lanci contro gli sciiti a sud del 33° parallelo tutte le sue riserve biologiche e chimiche, per esempio grandi quantità di antrace. Sulla strada verso Bagdad i militari americani ingerirebbero tutta la polvere, il che per noi presenterebbe gravi rischi. Ma peggio ancora verrebbero colpiti gli stessi civili iracheni e Saddam cercherebbe di dire che siamo stati noi a procurare il disastro. Qui si parla di 12-14 milioni di persone a rischio nell'Iraq meridionale. E anche con le nostre tute protettive addosso, come faremmo a prenderci cura di tutti i contaminati?
"Saddam potrebbe anche cercare di usare i pochi missili Scud che gli rimangono per colpire Israele. Esisterebbe pur sempre la possibilità che uno Scud carico di spore di antrace riesca a passare e colpisca Israele. In questo caso agli israeliani toccherebbe rispondere all'Iraq. È una ricetta che significa decine di migliaia di vittime".
Questa è infine la sua previsione politica. "Infine una rovinosa sconfitta di Saddam può nel lungo periodo aggravare il senso di umiliazione degli arabi nella regione. La vittoria degli americani e degli alleati sarebbe percepita come un nuovo colonialismo.
"Un altro pericolo è che l'Iraq diventi un bersaglio per i fondamentalisti tanto dell'Iran quanto dell'Arabia Saudita. I nostri soldati americani possono fare poco per impedirlo".
C'era già stato un "Ground Zero".
Sono scenari militari e politici evocati da un militare, non da un pacifista; da uno che non deve nemmeno conquistare voti alle prossime elezioni americane di novembre.
Ai costi militari, umani e politici diretti ben descritti da Wesley Clark, gli Stati Uniti e il mondo dovrebbero anticipare il prezzo che riguarda l'insieme delle relazioni internazionali. Il primo effetto di un attacco unilaterale al di fuori di qualsiasi mandato Onu sarebbe un colpo, probabilmente mortale, proprio alla Grande Coalizione; si indebolirebbe la solidarietà internazionale e la battaglia contro il terrorismo, si accentuerebbe l'isolazionismo degli Stati Uniti e rischierebbe di allargarsi il solco delle incomprensioni e delle divergenze tra Europa e Stati Uniti, divergenze che si sono già espresse con punti di vista diversi su questioni importanti come la difesa dell'ambiente, la Corte penale internazionale, la costruzione dello scudo stellare, il regime di controllo delle armi batteriologiche, il trattato ABM.
In nome di che cosa l'America è disposta a correre questi rischi? E a correrli anche da sola? Davvero il petrolio - fonte certamente importante ma non più determinante di energia - merita i costi indicati dal generale Clark?
Studiosi ed osservatori sono sempre più convinti che la guerra all'Iraq si farà per ragioni ideologiche. Condoleza Rice, consigliere per la Sicurezza nazionale, ha parlato di un impegno americano per una "marcia trionfale della libertà nell'universo musulmano e nel mondo". Gli Usa si sentono investiti da una missione "civilizzatrice". Come Napoleone Bonaparte 200 anni fa in Europa, George W. Bush vuole portare la libertà nel mondo sulla punta delle baionette.
Alla pari della Rice anche il numero due del Pentagono parla dell'Iraq del dopo-Saddam come di "un avamposto della democrazia nel Medio Oriente". E ci crede. Il suo argomento preferito è: "Abbiamo imposto la democrazia con le armi in Giappone nel 1945, riusciremo a farlo anche nel mondo arabo, oggi".
Ci fa venire un brivido questo accostamento al Giappone nel dopo 11 settembre, perché c'è un legame sinistro tra il Giappone e la definizione "Ground Zero", che designa il perimetro del disastro dell'11 settembre, definizione adottata immediatamente, prima di ogni interpretazione e manipolazione. "Ground Zero" fu battezzato l'esperimento nucleare del 16 luglio 1945, l'ultimo test scientificamente controllato prima di sganciare la bomba atomica sul Giappone.
Il mondo diventerà un posto ancora più pericoloso.
L'Europa ha già conosciuto, vissuto, praticato "l'ideologia civilizzatrice"; nella sua storia di guerre e di dittature molti capitoli sono dedicati a questa utopia. Ma dall'ultima tragedia, quella nazista, l'Europa è uscita con l'impegno a non farsene più contagiare. Domenica ad El Alamein nel deserto egiziano il presidente Ciampi ha detto: "Noi, i sopravvissuti, l'abbiamo giurato nei nostri cuori: mai più guerre fra noi".
Per questo a noi europei pare impossibile che ora quel contagio abbia colpito parte della classe dirigente americana, parte cioè di una democrazia che consideriamo compagna e spesso guida delle nostro democrazie.
Dentro questa "ideologia civilizzatrice" si colloca probabilmente la teorizzazione della guerra preventiva, che è l'altra drammatica sorpresa dello scenario che abbiamo davanti in queste settimane.
Si tratta di una novità. Non si può giustificare la teoria dell'utilizzo preventivo della forza con il precedente della guerra in Kosovo. In quel caso attraverso le Nazioni Uniti si è affermato il principio che non è consentito a nessuno nascondersi dietro la sovranità nazionale per fare ciò che si vuole all'interno dei propri confini nei confronti della popolazione. Quel principio dell'ingerenza umanitaria è stato poi arricchito con la creazione del tribunale penale internazionale, che riguarda tutti i paesi, grandi e piccoli.
È probabilmente sulla sorprendente novità della "guerra preventiva" che deve essere prestata l'attenzione maggiore da parte dei cittadini e dei governanti.
Per ragioni di politica internazionale innanzi tutto. La nuova dottrina militare americana che afferma il diritto di agire da soli in modo preventivo porterebbe a rovinare il sistema di sicurezza collettivo costituito dopo il crollo del regime nazista. Con la dottrina della guerra preventiva, che solo gli Stati Uniti possono decidere, si interrompe la faticosa crescita delle organizzazioni internazionali che avrebbero dovuto portare ad un governo mondiale. Le nazioni minori e deboli o sono le vittime delle aggressioni o devono parteciparvi.
Pur riconoscendo il carattere spaventoso del regime di Saddam Hussein, ogni intervento relativo all'Iraq va deciso in seno al Consiglio di sicurezza per impedirne l'anarchia. Il diritto internazionale da solo non basta a mantenere la pace e la giustizia nel mondo, ma la sua violazioni sistematica da parte dei più forti porta all'anarchia.
La pericolosità di questa nuova dottrina adottata da Bush, che sostituisce quella della dissuasione, è bene evidente anche per molti americani ed ha fatto dire ad Al Gore, lo sfidante di Bush: "La dottrina dell'attacco preventivo costituisce un potenziale elemento di sovversione dell'ordine internazionale, rendendo il mondo un posto ancora più pericoloso". Del resto, per gli americani dare a qualsiasi presidente un assegno in bianco per un attacco unilaterale senza avere esaurito tutti gli sforzi diplomatici e senza ottenere il sostegno degli alleati sarebbe un grande affronto ai loro 200 anni di democrazia costituzionale.
Il coraggio di guidare il mondo alla pace.
Ci sono poi le ragioni che nascono dal percorso che in particolare l'Europa ha tragicamente compiuto nei secoli e sul quale essa non vuole ritornare. Le ho già ricordate. Proprio perché hanno radici in sofferenze estese e profonde, queste ragioni non sono più solo storiche, ma diventano radicalmente etiche. È per questo che ad esse il mondo cattolico dedica una competente attenzione. Avendovi già fatto riferimento all'inizio, mi limito a citare ancora "La Difesa del Popolo" di domenica scorsa.
Mons. Luigi Mazzuccato è direttore del Cuamm ed alla competenza dottrinaria aggiunge la passione per la sofferenza umana. Osserva a proposito della teoria della guerra preventiva: "Una tale dottrina, se accettata, è foriera di funeste aberrazioni e di terribili conseguenze, come il prevalere delle ragioni dei più forti, le sopraffazioni dei più violenti, l'eliminazione degli avversari nei conflitti sulla presunzione che siano o possano diventare aggressori, con imprevedibili ripercussioni a catena e prezzi altissimi da far pagare agli altri, a tutti".
Mons. Giuseppe Trentin è un moralista ed un maestro di teologia: "Si potrebbe addirittura dimostrare che la strategia della guerra preventiva è in discontinuità anche con la dottrina tradizionale della guerra giusta nella misura in cui va oltre le condizioni poste per una sua eventuale legittimazione e cioè una causa giusta, un'autorità competente, la retta intenzione, la proporzionalità degli effetti previsti. Essendo la guerra preventiva per definizione il tentativo di sventare una minaccia prima ancora che si concretizzi, è facile intuire il rischio non solo dell'errore, ma anche dell'arbitrio, della guerra di tutti contro tutti. Chi non si sente in qualche modo o circostanza minacciato? Ma che significa questo: che si può o addirittura si deve aggredire per primi? Che succederebbe se tutti, a livello individuale e collettivo agissero in questo modo?".
Per dare una risposta a queste domande e contemporaneamente alle questioni poste dalla teoria americana della guerra preventiva bisogna affrontare il problema dei problemi, che è in definitiva uno: il governo delle dinamiche internazionali, in un mondo globalizzato, all'interno di un quadro di regole certe, accettate e condivise, facente capo ad una autorità regolatoria sovranazionale che, a mio parere, è e resta l'Onu. Non ci sono alternative al sistema di valori e di regole internazionali delle Nazioni Unite, costituite per preservare la sicurezza globale; questo sistema offre la migliore speranza di evitare conflitti regionali.
Certo, è uno strumento indebolito e anche da riformare, ma non sostituibile dall'azione di una sola potenza dominante. E dunque, per non barare nella risposta, bisogna lavorare per una riforma efficace delle istituzioni internazionali, perché le decisioni dell'Onu siano tempestive, efficaci e in grado di operare sempre, e non soltanto quando qualche sceriffo del mondo lo decide. Ciò è comunque l'esatto contrario di qualsiasi visione unipolare e della dottrina della guerra preventiva.
Il cardinale Wilton D. Gregory, presidente dei vescovi americani, ha scritto a Bush in un documento ufficiale della Conferenza episcopale: "Noi arriviamo alla conclusione, basandoci su fatti che sono a noi noti, che un uso della forza preventivo e unilaterale è difficile da giustificare in questo momento. Noi, con molto rispetto, facciamo pressione su di lei perché faccia un passo indietro sull'orlo della guerra e aiuti a guidare il mondo affinché produca una risposta comune alle minacce irachene, che sia aderente ai tradizionali limiti morali sull'uso militare della forza".
Con i vescovi degli Stati Uniti, noi ci auguriamo che l'America che l'America torni ad avere il coraggio della pace. Ci auguriamo che torni a guidare il mondo verso la speranza. Verso una nuova frontiera in cui tutti siano liberi; e per essere liberi, siano prima di tutto vivi.