L'accordo quadro di Farnborough e le "interpretazioni" italiane
La pace è troppo importante
per lasciarla al governo
Nella revisione della legge sulla produzione e il commercio delle armi si esclude il Parlamento in un momento delicato, mentre nasce la Difesa europea
articolo di Tino Bedin
per "La Vita del Popolo" di Treviso
Quando arriverà - se arriverà nel testo del governo - al Senato il disegno di legge che modifica le norme sulla produzione e il commercio italiani di armamenti, voterò contro. Non voterò contro l'accordo che sei Stati dell'Unione hanno sottoscritto nel 2000 a Farnborough per coordinare la ristrutturazione e le attività produttive relative alla Difesa europea, ma contro le "interpretazioni" che di questo accordo il governo italiano dà attraverso il disegno di legge approvato dalle Commissioni Difesa ed Esteri della Camera.
Il punto centrale da chiarire è questo: qui non siamo di fronte all'accettazione di un accordo tra alcuni Stati dell'Unione. Con la procedura utilizzata con la "legge sulle rogatorie", il governo parte dall'accordo internazionale per modificare strutturalmente la legislazione nazionale esistente. Lo fa di sua iniziativa, non perché i patti internazionali lo richiedano.
La modifica strutturale che si vuole introdurre da parte del governo riguarda la finalità delle norme. La legge in vigore in tema di produzione e commercio di armamenti ha come finalità la trasparenza ed il controllo al fine della prevenzione dei conflitti. Per questo, protagonista della legge è il Parlamento, in quando strumento dell'opinione pubblica. È una legge che funziona: l'Italia è risultata fra i paesi meno coinvolti nel riarmo di zone instabili come i Balcani, l'Afghanistan, l'Iraq. È dunque una legge-guida anche per l'Europa, ed effettivamente ha favorito il Codice di condotta europeo in materia.
Con le modifiche apportate dal governo la finalità della legge diventa la "semplificazione" per la produzione ed il commercio. Per questo al centro c'è l'impresa (tutte le imprese, non solo quelle governative). Tutto quello che può "ritardare" gli affari è ridotto ed eliminato. Inevitabilmente è ridotto di molto il ruolo del Parlamento.
Non è questo che prevede l'accordo, anzi. Attraverso di esso sei paesi si sono impegnati, ad esempio in tema di Stati in cui sia possibile esportare produzioni belliche, a concordare una lista di destinazioni lecite e questa lista è approvata per "consenso" Ciò vuol dire che ciascuno stato ha diritto di veto e ciò spingerà quasi naturalmente a trovare il consenso su criteri sempre più sicuri. Con la legge nazionale attuale l'Italia potrebbe svolgere un ruolo di capofila. È questa norma che il governo aggira, perché estende le procedure di semplificazione previste dall'accordo anche ai paesi europei e ai paesi della Nato che non l'hanno sottoscritto. In questa maniera non ci sono né vincoli né controlli.
Oltre che sul contenuto, la mia opposizione al disegno di legge del governo è dunque anche al tentativo di estromettere in Parlamento in questa materia, decisiva dal punto di vista della tranquillità dell'opinione pubblica e della prevenzione di aree di conflitto nel mondo.
La riaffermazione della centralità del Parlamento in tema di difesa e sicurezza ha del resto una particolare attualità. Si sta procedendo rapidamente alla costituzione della Forza militare di reazione rapida europea ed al recente Consiglio europeo di Laeken in Belgio è stata dichiarata operativa la Politica europea di Difesa. Su questo punto tutti i parlamenti nazionali - io personalmente sono impegnato in questo - hanno chiesto e chiedono che lo sviluppo di questa politica sia affiancato da procedure che consentano il controllo delle opinioni pubbliche attraverso i parlamenti nazionali ed il parlamento dell'Unione. Il disegno di legge sull'industria militare va esattamente nella direzione opposta.
27 febbraio 2002 |