Missione Isaf
IN DIALOGO TRA CITTADINI

Roma, 25 gennaio 2011

Nota ai Parlamentari italiani in occasione dell'esame del Decreto Legge sulle Missioni internazionali
Perché quattromila soldati italiani sono in Afghanistan?
La contraddizione originaria della Missione Isaf, sovrapposta a "Enduring Freedom"

È indubbiamente inquietante il titolo di questa nota che INTERSOS, alla vigilia del voto parlamentare sulle Missioni Internazionali, intende proporre alla politica e alla pubblica opinione, come ha fatto anche negli anni passati. I punti interrogativi sulla missione militare in Afghanistan sono davvero molti ma, da un po' di tempo, la politica sembra dare l'impressione di non porseli più, trincerandosi dietro alla lotta al terrorismo, alla legittimazione della missione da parte delle Nazioni Unite ed al non superamento dei limiti imposti dall'art. 11 della Costituzione. Punti condivisibili, ma insufficienti a dare le necessarie e indilazionabili risposte alla domanda fondamentale: perché e con quali obiettivi?
La popolazione afgana è al centro dell'interesse?
Anche questa è una domanda centrale e la risposta questa volta è conosciuta: non lo è, o non nel dovuto modo. Questo è, a nostro avviso, l'errore principale. Senza il favore della popolazione, nessuna missione internazionale e nessun governo sostenuto dall'esterno potrà mai avere successo. Si è voluto puntare soprattutto sull'azione militare ed è al contempo mancata una strategia di sviluppo rispondente ai reali bisogni e alle aspettative delle popolazioni e con i necessari controlli. I risultati si vedono: dove la popolazione non è ostile alla presenza militare, rimane complessivamente indifferente, mentre i casi di consenso sono dettati prevalentemente dall'interesse personale o politico. La centralità della popolazione è stata dalle Ong più volte affermata, ribadita in successivi appelli e documenti, trovando talvolta alcune orecchie attente anche nel mondo della politica e in quello militare, ma le decisioni sono andate in senso inverso. Spesso l'Italia, in fatto di intenzioni e impegni verbali, è forte. Quando poi si tratta di tradurli in pratica, tutto diventa fluido e riduttivo. Illuminante è il Decreto Missioni ora in Parlamento: DL 29 dicembre 2010 n. 228, "Proroga degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia".
Il Decreto Missioni all'esame del Parlamento e la risposta alle aspettative degli afgani
Nonostante che il titolo metta in evidenza innanzitutto gli "interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione" e solo in seconda posizione le "missioni internazionali delle forze armate e di polizia", il DL destina alla cooperazione allo sviluppo solo il 3,6% dei 754 milioni di euro stanziati per il primo semestre 2011: cioè 27 milioni di euro da suddividere tra Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libano, Sudan, Somalia, Myanmar. Durante l'esame del DL in sede referente, è stata anche aggiunta la lotta alle mutilazioni genitali femminili (senza alcun dubbio di primaria importanza, ma alquanto fuori luogo in un DL sulle Missioni internazionali).
In realtà non si tratta di una sorpresa, dovuta alla particolare situazione delle finanze del nostro paese (ristrettezze che dovrebbero comunque valere anche per gli interventi militari e di polizia). E' dal 2008 che la diminuzione dei fondi per la cooperazione allo sviluppo nei Decreti Missioni è in inquietante calo rispetto, invece, ad una progressiva crescita degli stanziamenti per gli interventi militari.
Tra il 2008 e il 2011 l'ammontare finanziario approvato nei DL Missioni Internazionali è cresciuto del 50% (da 1 a 1,5 miliardi di €), mentre i finanziamenti previsti per le iniziative di cooperazione allo sviluppo, al loro interno, sono diminuiti del 42% con la seguente progressione negativa:
2008: 9,4% per iniziative di cooperazione su 1 miliardo di € del DL
2009: 6,1% su 1,4 miliardi
2010: 4,7% su 1,5 miliardi
2011: 3,6% su 754 milioni per il primo semestre (DL 228/2010).
Rimangono senza senso, quindi, le parole che aprono il testo del DL: "Il Presidente della Repubblica, visti gli articoli 77 e 87 della Costituzione *…+, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni volte ad assicurare la prosecuzione (non diminuzione e svuotamento) degli interventi di cooperazione allo sviluppo *…+" ecc.
Le parole della politica hanno un significato diverso da quello dei normali esseri umani; o forse si vuole continuare a gettare fumo negli occhi per nascondere la realtà delle cose. Sarebbe comunque utile che le forze politiche, di ogni schieramento, ne discutessero con attenzione e rendano conto delle loro scelte all'opinione pubblica.
C'è da sottolineare anche che, con il quasi azzeramento dei fondi previsti dalla Finanziaria per la cooperazione allo sviluppo (un minimo 0,1% del PIL), per alcune aree rimangono ormai solamente i pochi fondi stanziati con il Decreto Missioni Internazionali.
L'Afghanistan subisce così una riduzione che impedisce di pensare ad iniziative efficaci e durevoli a favore della popolazione. I grafici alla fine della presente nota mostrano con evidenza l'impegno italiano in Afghanistan suddiviso tra civile e militare, con la predominanza di quest'ultimo, in contrasto con il trend dei paesi dell'Ocse che hanno aumentato la cooperazione civile in Afghanistan.
La sconfitta della politica
Se allarghiamo lo sguardo al mondo, notiamo che in questi ultimi decenni l'uso delle armi (più esplicitamente: la guerra) è stato ritenuto uno strumento indispensabile per mettere fine a minacce, vere o presunte, anche in modo preventivo, per arginare situazioni di disturbo della pace o comunque valutate tali; fino ad immaginare di poter promuovere "guerre umanitarie" con l'obiettivo di garantire vita e libertà utilizzando, anche in modo offensivo, strumenti di morte.
I risultati di questa scelta sono davanti ai nostri occhi. I problemi che si intendeva risolvere si sono, al meglio, trasformati, o sono stati tamponati e rinviati nel tempo pronti a scoppiare nuovamente alla prima occasione, oppure si sono aggravati evidenziando al contempo una mancanza di visione e strategia politica preoccupante. Raramente si sono ridotti in modo stabile e definitivo con soluzioni che non ricadessero comunque su popolazioni inermi.
La politica non ha mostrato, a cavallo del secolo, il suo volto migliore nei contenziosi internazionali. Per incapacità, paura, pigrizia, superficialità, talvolta per insufficienza di analisi, non ha saputo proporre soluzioni diverse dall'intervento militare.
Ci si sofferma troppo poco sul significato di questo tipo di scelta. Dietro alle celebrazioni, gli applausi e gli elogi alle Forze Armate, essa nasconde decenni di sconfitta della politica.
L'intervento militare: alibi per occultare le carenze della politica?
Così, la scelta militare è stata spesso l'alibi, la facile scorciatoia, la facciata dietro cui nascondere l'incapacità e l'impotenza politiche, sia all'inizio che nel perdurare di alcune crisi. In questa prospettiva, i militari meritano alta considerazione e rispetto: per senso dello Stato acconsentono a coprire l'inadeguatezza e le carenze della politica, coscienti di ciò e accettandolo, in ogni caso, come dovere.
La presenza militare italiana in Afghanistan sembra essere di questo tipo, senza chiarezza politica e strategica. Ma lo è, a nostro avviso, anche quella degli USA e della NATO. Si è iniziato male, senza una strategia precisa, senza obiettivi definiti, di breve e lunga durata, che coinvolgessero pienamente la popolazione, il suo benessere e il suo futuro e senza aver chiaro cosa si dovesse fare: combattere al Qaeda e il terrorismo? Difendere il presidente Karzai e le istituzioni centrali?, 'pulire' il territorio dai talebani e sostenere le amministrazioni provinciali? e quali talebani? combattere la produzione dell'oppio e i suoi trafficanti che alimentano la guerriglia e l'illegalità? costruire scuole e servizi sociali? altro ancora? A furia di analisi ottimistiche, di rifiuto di guardare alla realtà ed affrontarla in modo approfondito nelle sedi opportune ed in particolare nei Consigli dell'Alleanza Atlantica, a furia di bugie e di rappresentazioni della realtà non corrispondenti al vero e auto compiacenti, ora non si sa più, se mai lo si è saputo, come sciogliere il nodo afgano. Si continua quindi a mantenere la presenza militare in attesa di qualche geniale idea, compromesso o resa onorevole che possa apparire mediaticamente una mezza vittoria, o qualche decisione forzata dal peggioramento della realtà o dalla fuoriuscita, uno dopo l'altro, dei contingenti militari.
Dal 2006, le stesse domande
"Siamo nuovamente alla vigilia del voto parlamentare sulle missioni militari. In Afghanistan, la partecipazione italiana alle operazioni dell'Alleanza Atlantica continua senza che il Governo abbia ottenuto in sede Nato le necessarie e chiare risposte alla domanda principale: che ci stiamo a fare? E più in particolare: con quali obiettivi e quali criteri di valutazione, con quali strategie, quali regole operative (di ingaggio) comuni, quali strumenti e capacità di azione, per quanto tempo? E poi: l'azione delle forze armate della Nato, così come sì è sviluppata, è la giusta risposta all'esigenza di stabilizzazione dell'Afghanistan? E inoltre: ha ancora senso, se mai lo abbia avuto, la guerra guerreggiata di Enduring Freedom, con propri comando e autonomia decisionale ma i cui errori e le cui scelte sbagliate e fallimentari ricadono poi su tutti?".
È quanto scrivevamo in un articolato documento inviato ai membri del Parlamento nel febbraio 2008 e, prima ancora, nel novembre 20064. Domande che continuano a rimanere senza convincenti risposte.
Esistono ancora le ragioni perché l'Italia rimanga a combattere in Afghanistan?
E' con grande inquietudine che poniamo questa domanda. Oggi, ci sembra che vi siano elementi, come quelli che abbiamo cercato di evidenziare, tali da mettere in serio dubbio, ormai, l'esistenza di tali ragioni. Si tratta di un cambiamento nella nostra valutazione della realtà rispetto al 2006 e 2008 quando scrivevamo: "Anche se rifiutiamo decisamente che la guerra possa essere lo strumento per risolvere le controversie internazionali, riteniamo che in alcuni particolari contesti, a salvaguardia della vita e sicurezza di collettività in pericolo, la presenza militare possa essere necessaria. Non di guerra si tratta, ma di imprescindibile impegno della comunità internazionale a protezione e tutela delle popolazioni o per la stabilizzazione e la pacificazione dopo un conflitto. Pensiamo alla scellerata decisione delle Nazioni Unite di ritirare il proprio contingente dal Ruanda nel 1994, invece di potenziarlo. Pensiamo alla supplica delle organizzazioni umanitarie al Consiglio di Sicurezza nel 2003 perché fossero inviati adeguati contingenti militari in Congo a tutela dei gruppi etnici in pericolo. Pensiamo alla Bosnia abbandonata per anni alla violenza fratricida […]. Tale presenza militare non deve mai rappresentare, in ogni caso, lo strumento principale o, peggio ancora, l'unico strumento di intervento in quei particolari contesti. Senza l'azione umanitaria, senza l'azione politica, basata sul dialogo, l'ascolto, la comprensione dei problemi e coerenti decisioni condivise, qualsiasi presenza militare diventa alla lunga inefficace, inopportuna e dannosa".
Il punto, ora, è proprio questo: lo strumento militare sta diventando l'unico strumento di intervento. I bisogni della popolazione interessano sempre meno o solo in modo strumentale alla buona riuscita dell'intervento militare. E' per questo che il contingente italiano viene dotato di circa otto milioni di euro per "sopperire a esigenze di prima necessità della popolazione locale", mentre al tempo stesso gli interventi di cooperazione civile sono tagliati e ridotti al minimo. È per questo che i bisogni di popolazioni con cui è stato costruito negli anni un rapporto di fiducia che ha dato risultati in termini di sostegno alle istituzioni locali, di adduzione di acqua potabile ai villaggi (per la prima volta nella loro storia), di frequenza scolastica femminile ecc., vengono abbandonati dall'Italia per concentrare tutti gli interventi lì dove opera il proprio contingente militare. E' per questo che la cooperazione governativa civile (quel poco che rimane) è di fatto strettamente collegata e talvolta subordinata alle priorità del Cimic, la struttura militare di cooperazione civile.
La scelta dell'Italia è ormai chiara: lo strumento militare è l'unico ad essere preso in seria considerazione, rafforzato e alimentato.
L'azione e la presenza civile, in un rapporto di partnership, di condivisione, di cammino comune, per rispondere ai bisogni e alle aspettative delle popolazioni e delle organizzazioni sociali afgane, da qualche anno non interessa più. Probabilmente fa paura, potrebbe infatti mettere in discussione radicalmente le scelte effettuate, senza grandi risultati perché senza chiarezza, senza precisi obiettivi se non quello sacrosanto di difendersi e salvare la pelle, vivendo, a causa dei problemi di sicurezza, in un'obbligata lontananza dalla realtà, da quella gente che si intende tutelare. Non neghiamo l'apertura e la generosità dimostrata dai singoli militari, la loro volontà di essere vicini ai bambini afgani facendoli sorridere con un piccolo gesto di sincera amicizia. Ciò non cambia, purtroppo, la cruda realtà che impone, per ragioni di sicurezza, lontananza e difesa armata.
Se non ci sono più ragioni valide, perché rimanere in Afghanistan?
Che si stia andando verso l'insuccesso della missione militare internazionale in Afghanistan è, a parere di molti, ormai evidente, dopo dieci anni con pochi risultati e ingenti costi. Troppi anche gli errori e gli "effetti collaterali" a danno di popolazioni innocenti e inermi, di cui non conosciamo tutto. Di fronte ad essi, anche i successi ottenuti si annullano inesorabilmente.
Le scelte dell'Italia sono state purtroppo delle non-scelte. Si è ripetuto il rito del Decreto Legge di proroga automatica della missione senza mai una risposta chiara della politica alla domanda essenziale: perché e con quali obiettivi rimaniamo in Afghanistan? Non è riuscita, inoltre, a far sentire la propria voce in sede NATO per esigere maggiore lucidità e per verificare la reale esistenza di una risposta comune, degli USA e degli altri paesi UE, convinta, decisa e finalizzata al bene dell'Afghanistan e della sua gente. Superando la mediocrità e incompetenza di alcuni ministri della Difesa dei paesi dell'Alleanza, talvolta poco stimati dalle loro stesse Forze Armate, il prossimo Consiglio della NATO dovrà chiarire, senza ulteriori ritardi, con quali obiettivi comuni e condivisi e sulla base di quali analisi, valutazioni e strategie, intenda continuare l'intervento in Afghanistan per prepararne l'uscita quanto prima. Finora non l'ha fatto; speriamo che possa farlo nel prossimo futuro. In ogni caso il nostro Governo dovrebbe esigere la massima chiarezza.
Per l'Italia, senza una rigorosa e sincera valutazione della propria presenza e senza una profonda revisione della propria strategia, il rischio di aver sprecato dieci anni, non solo in risorse ma anche in vite umane, potrebbe presentarsi in modo ineluttabile. L'unico segnale chiaro che è riuscita a dare, con l'aumento delle risorse per l'azione militare e la diminuzione per quella di cooperazione civile, è il crescente disinteresse per la popolazione, per i suoi bisogni e le sue aspettative. Sul resto, nessuna chiarezza è stata mai fornita. I perché e i punti interrogativi continuano a rimanere sempre gli stessi, senza una convincente risposta. E si continua a morire senza sapere perché.

Nino Sergi
Intersos, Organizzazione umanitaria per l'emergenza

Risponde Tino Bedin

La nota di Intersos ha come sottotitolo: "La politica deve rispondere con chiarezza e onestà. Non si può continuare a morire senza sapere perché". Giustissimo. E non è una domanda solo di oggi.
La missione Isaf in Afghanistan è nata certamente come missione di pace: doveva garantire la sicurezza alle nuove istituzioni transitorie afghane, perché si assumessero il difficile compito di governare il paese; non era contro nessuno, ma a vantaggio del nuovo Afghanistan.
La missione Isaf però era arrivata, nel 2003, troppo tardi: non troppo tardi per l'Afghanistan, ma troppo tardi per se stessa. Essa infatti si affiancava alla missione "Enduring Freedom" iniziata immediatamente e unilaternalmente dagli Usa subito dopo le Torri Gemelle: quella sì era una missione di guerra, era contro i talebani, serviva a dare la caccia a Bin Laden. Le due missioni si sono sovrapposte. Anche nei decreti di rifinanziamento della partecipazione italiana si sovrapponevano le due identità, tanto che la stessa missione Isaf rischiava di perdere i connotati di missione di pace.
Ora con Berlusconi, Bossi e La Russa, la Destra italiana nemmeno sembra porsi questo tema.
Così come non si pone (anche perché non crede alla cooperazione allo sviluppo) il problema generale che comunque le missioni militari di pace si portano dietro: quanto di solidale la popolazione destinataria colga quando gli aiuti umanitari arrivano con mezzi militari.

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di-670
29 gennaio 2011
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Tino Bedin